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SESTIERI UGO, La bicicletta rossa, collana I salici (romanzi), Montedit,settembre 1997 pp. 160, Lit 17.000. ISBN 88-86957-18-1

 

CAPITOLO I
 
Davide
 
«Fa molto freddo Davide, potresti anche evitare di usare la bicicletta per un giorno». Tania sapeva perfettamente che era inutile cercare di convincere il marito; sapeva che non sarebbe servito a nulla ricordargli che, a quarantasei anni, poteva usare, una volta ogni tanto, la loro vecchia macchina.
Se avesse insistito si sarebbe dovuta sorbire, per l'ennesima volta, la filippica contro l'uso dell'automobile in una città resa invivibile dallo smog e dalla imbecillità dei suoi abitanti che si stavano lentamente ed inesorabilmente suicidando.
E, quindi, decise di non replicare alla scontata risposta di lui che, come tutte le mattine, arrivò, ironica, per bocca di Albert, il loro figlio più grande.
«Mi sono coperto bene e poi l'aria fredda e ancora pulita della mattina non può farmi altro che bene». Il tono di voce beffardo del ragazzo, come al solito, mise fine a quella rituale discussione mattutina.
Pochi minuti dopo Davide stava pedalando, non troppo velocemente, verso la scuola in cui insegnava oramai da oltre vent'anni. Il viso semicoperto dalla mascherina antismog che tutti gli invidiavano, il basco blu che da sempre lo contraddistingueva e l'immancabile sciarpa bordò avvolta attorno al collo con apparente noncuranza.
Dalle cuffie, collegate alla piccola radio inserita sul manubrio, proveniva il suono dolce di una vecchia canzone d'amore degli anni sessanta che lo faceva sentire in pace con il mondo intero.
Davide, come sempre di prima mattina, era felice e pieno di energia; godeva del suo essere capace, ancora, ad entusiasmarsi per i piccoli avvenimenti quotidiani, nonostante la sua non più giovane età e la coscienza che il tempo era passato inesorabilmente anche per lui.
Quello dell'età era il suo cruccio principale. Si vergognava ad ammetterlo, anche a se stesso, avendo la perfetta coscienza di vivere in un mondo pieno di problemi drammatici, e forse irrisolvibili, ed in un tempo impazzito che aveva ucciso la speranza e l'utopia.
Pochi minuti sulla sua vecchia bicicletta rossa e, subito, tutte le contraddizioni, i dubbi e le incertezze con cui il suo io nascosto combatteva quotidianamente, cercavano di uscire allo scoperto.
Ma, come al solito, senza un grande successo.
Davide era sempre stato un ottimista; di fronte alle difficoltà piccole e grandi della vita era immancabilmente riuscito a trovare il lato positivo, quell'aspetto particolare che riusciva a trasformare la realtà, a renderla, comunque, degna di essere vissuta.
Tania questo non lo sopportava, non riusciva ad accettare l'incapacità del marito di lasciarsi andare alla rabbia e allo sconforto. Si sentiva sempre, in qualche modo, inferiore a lui, meno valida. E questo, per una donna come lei, era assolutamente inaccettabile.
E lo era anche per Albert che aveva un carattere molto simile a quello della madre. Avrebbe desiderato essere come Davide, gli piaceva il modo di essere, di vivere di suo padre, ma sapeva che mai avrebbe potuto somigliargli.
Questo lo faceva soffrire e, sempre più spesso, i suoi tredici anni lo portavano a reagire, a rifiutare quella figura che amava moltissimo.
Dalle cuffie, ora, non proveniva più musica, ma solo pubblicità, stupida e banale pubblicità su fantastiche occasioni per acquistare macchine potenti o piccole utilitarie, cucine superaccessoriate e viaggi da sogno in America e, perché no, in Cina o a Cuba.
Davide cominciò a pedalare più velocemente, era in ritardo ed il traffico appariva più caotico del solito.
La sua amata bicicletta rossa, dopo aver zigzagato per qualche secondo tra le macchine eternamente bloccate, si inserì nella corsia preferenziale degli autobus.
Ancora una decina di minuti e sarebbe apparso il grande portone nero della scuola.
 
 
Il contachilometri
 
Il suo sguardo distratto finì, casualmente, sul contachilometri digitale, piccolo peccato consumistico di cui andava fiero: un'altra delle sue non risolte contraddizioni.
1961 chilometri! Certo ne aveva fatta di strada da quando, un anno prima, aveva comperato quell'affascinante ed inutile oggetto: c'erano state le numerose gite primaverili con il piccolo Daniele, il secondo figlio nato quattro anni prima, comodamente seduto sul seggiolino attaccato al manubrio ed i brevi viaggi quotidiani, durante l'estate, per raggiungere la piccola città distante dodici chilometri dal campeggio.
1961 chilometri erano tanti e Davide si sentiva fiero di averli fatti.
... 1962... 1963 chilometri... "Ecco la curva. Dopo l'ufficio postale c'è la scuola..." Davide, soprappensiero, aveva rallentato l'andatura "I sampietrini sono sempre fastidiosi, ti fanno saltare sul sellino in continuazione...
Ecco il cancello... Sembra chiuso... No, non del tutto. Strano, a quest'ora è sempre completamente aperto.
Vuoi vedere che... Me lo dovevo immaginare, c'è un cartello appeso: scuola okkupata.
Quello davanti al portone mi sembra Lanzi. Della Quinta C."
 
 
Scuola okkupata
 
«Ciao professore, ti avevamo avvertito. L'assemblea di ieri ha deciso l'occupazione della scuola. A partire da questa mattina!». La voce di Luigi Lanzi aveva un tono deciso. E pensare che solo pochi giorni prima era, tra gli studenti, uno dei più timidi e riservati.
«Me lo immaginavo, era nell'aria da giorni. E i professori che fanno? Sono entrati?»
«Non entra nessuno! La scuola è nostra, è occupata! I prof entreranno solo se noi lo richiederemo». Luigi appariva sempre più deciso, la sua voce non ammetteva repliche.
«Posso entrare?... Credo che dovremmo discutere...». Davide era incerto «Lo sai come la penso sull'occupazione. Sono sempre stato accanto a voi, non mi sono mai tirato indietro. Ma occupare la scuola è...»
«Mi dispiace professore». Ora il tono di Luigi era meno perentorio, ma non per questo insicuro. «Tu sei sempre stato vicino a noi, un nostro amico. Ma non puoi entrare. Nemmeno tu puoi entrare! La scuola è occupata dagli studenti!».
«Non possiamo fare eccezioni, professore, nemmeno per lei». Lo studente magro e con la barba che aveva parlato non era delle classi di Davide. Però lui lo conosceva bene, varie volte si erano trovati a discutere sul malfunzionamento della scuola. «Lo sappiamo tutti che con lei è possibile parlare, che si è sempre dimostrato un amico, quasi uno di noi...»
«Ma non è uno di noi!» lo interruppe Luigi accalorandosi «Noi non vogliamo consigli, non vogliamo più suggerimenti! Abbiamo bisogno di sbagliare o di fare cose giuste da soli. Dobbiamo imparare a camminare con le nostre gambe...»
«Insomma dobbiamo crescere, professore» aggiunse timidamente, ma deciso, lo studente magro con la barba «Grazie, comunque. Lei resta sempre un nostro amico»
«Ma si, certo. Avete ragione» Davide, anche sforzandosi, non riuscì a nascondere l'amarezza che provava. Sapeva che i ragazzi erano nel giusto, lo sapeva perfettamente. Lui alla loro età aveva fatto e pensato la stessa cosa; se lo ricordava bene.
Eppure, forse per la prima volta nella sua vita, si sentì messo da parte; per la prima volta nella sua vita fu perfettamente cosciente di appartenere ad una generazione oramai lontana, lontanissima da quei giovani che aveva davanti a sé.
«Se vi servisse il mio aiuto...» Davide si interruppe subito, stava sbagliando di nuovo. I ragazzi erano stati chiari: volevano crescere da soli, avevano bisogno di fare le loro esperienze senza padri né consiglieri.
Era e sarebbe stato sempre così, lui lo sapeva bene.
Era una legge naturale che faceva parte della sua storia; una legge impossibile da dimenticare. O almeno così avrebbe dovuto essere.
La bicicletta rossa lo stava aspettando appoggiata ad un palo della luce. Davide la guardò con affetto.
Se un oggetto inanimato poteva essere considerato un amico, quel vecchio e superato mezzo di locomozione, che ne aveva viste tante nei suoi quasi trent'anni di vita, poteva ritenersi il migliore e più affettuoso dei compagni.
Le prime pedalate furono lente, quasi stentate, ma dopo pochi istanti divennero decise, assunsero un ritmo costante, sicuro. Quelle pedalate erano come i pensieri di Davide: incerti all'inizio, fino a quando lui non si era fatto una ragione di ciò che era accaduto, poi sempre più definiti, convinti.
Con amarezza aveva capito la lezione dei suoi studenti.
«Anche a quarantasei anni si può imparare dai giovani» si disse deciso.
«Però è doloroso» aggiunsero immediatamente le sue labbra senza che lui potesse, o volesse, censurarle.

 

 

Per leggere la prefazione di Olivia Trioschi
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Inserito 8 dicembre 1997 (R& -a)