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Antonino Maio
Ha pubblicato il libro

Antonino Maio - La ballata del satrapo
(Dalla sfrontata incapacità, alla pretestuosa ostentazione di ineccepibilità)


 
 
 
 
 
 
 
 
 
Collana Le schegge d'oro (i libri dei premi)
 
15x21 - pp. 160 - Euro 12,80
 
ISBN 88-6037-131-7
 
 
 
In copertina:
«La commedia del ruolo»
illustrazione di Loredana Seminato

Presentazione
Incipit 


Introduzione
 
 
Libertà, armonia sociale, misura, buonsenso, capacità: sembrerebbe una sequela di astrazioni snocciolate a buon mercato da un maldestro idealista che tiene a sceverare immagini desunte dalla più pervicace illusione. Battuta scontata: "Ingenua tipicità di pensiero!"
Forse, invece, sta proprio nell'incaponirsi a stimolare ancora un momento di riflessione, l'affrancamento dal rischio che si tratti di una considerazione superflua. Avere fiducia che ribatterci sopra può invogliare a esperimentare un'esistenza di giustizia non più "fittizia", non è categoricamente da considerare rassegnata deferenza all'illusione.
Tentare è di per sé un gaudio morale incommensurabile.
È proprio vana l'aspirazione a vedere perdenti i canoni della persistente discriminazione sociale? Bisogna proprio convincersi che la mente umana, soggiogata dall'ambizione prorompente, non potrà "mai" pensare in modo nuovo per il bene di tutti?
Riflettiamo, non è difficile verificare che è molto meglio investire sull'equità, puntare sulla diaspora dalle debolezze che si avvinghiano alla tentazione del potere e del profitto più egoistici.
Dovremmo confidare tutti che è enormemente gratificante non vanificare la via che il Redentore ci ha offerto 2000 anni fa! Non è impraticabile il Vangelo: ci si convince che lo sia, perché si è avviliti dal dolore e dalla sistematicità del sopruso gratuito che spesso lascia soccombenti.
Se non ci adoperiamo ad affrancarci dai suadenti stereotipi dell'opportunismo, dalle facciate di speranze scomposte, qualsiasi forma di giustizia resterà irraggiungibile, né sarà mai alla portata dell'uomo, perché resterà apparenza amaramente impalpabile e la sua etica essenza rimarrà un miraggio.
 

Antonino Maio

 


LA BALLATA DEL SATRAPO
*
 
(Dalla sfrontata incapacità, alla pretestuosa
ostentazione di ineccepibilità carismatica)
 


Considerazioni frugali

sulla più codificata propensione umana


 
Per giustificare il pretesto che renda stimolante avviare l'argomentazione che segue, si presenta necessario il supporto di una domanda che legittimi la validità di discuterne:
«Può mai succedere, nell'avvicendamento delle umane condotte, che il "notabile giunto ai vertici attraverso mirate protezioni" non sia tentato a manifestare brame di impudente prepotenza nei riguardi del suddito?»
La domanda è pleonastica; la risposta, è ovvia: «Altro che, se succede! La tentazione è inevitabile!»
Si rende necessario porre altre due domande che trovano un nesso congiunto alla prima: «C'è mai stato un momento della storia delle relazioni sociali in cui l'asserzione sopra enunciata si sia rivelata opinabile o priva di fondatezza per la sua palese gratuità?» E poi: «Si può affermare che siano realmente i migliori, ossia i capaci a reggere le cariche di alta responsabilità e autorevolezza?» Le risposte le lascio al paziente lettore. La disamina di questa "tentazione" sociale procacciatrice di realtà tanto tossiche, innegabilmente antiche quanto il mondo, (che dovrebbero pungolare la coscienza dei più), si spera non sia totalmente superflua o, peggio, insulsa.
Il tarlo rovinoso è presente in tutti i settori della società, ma trova particolare vigoria nelle amministrazioni pubbliche, nei palazzi di potere, nelle lobby politiche... Proprio su questo terreno, che nutre variegate ingiustizie su molteplici settori dell'umanità "di tutti i tempi", si vuole muovere qualche timido passo, nell'ipotesi che produca almeno un effetto psicologicamente liberatorio.
 
Ritorniamo, quindi, al primario soggetto che, nella fattispecie, è lo stereotipo più attinente all'analisi.
Il "sovrapposto", - a voler dare un nome evocativo, pur generico - scoprendosi beneficiario di particolari "panneggi di favore", una volta ammarato su una corpulenta poltrona che caratterizza il suo ruolo, si carica istintivamente di esaltazione che lo porta molto al di là delle sue stesse ambizioni nascoste per lungo tempo. Avviene, così, che spesso non riesce a gestire, con l'obiettività convenientemente ragionevole, gli effetti della seducente posizione raggiunta. Trascorso un tempo quasi impercettibile, - se proprio vogliamo forzatamente scorgere un pizzico di "etica" - avviene che neppure il traguardo riconosciuto inizialmente inarrivabile, riesce ad ingenerare nel suo animo la debita gratitudine verso chi ha patrocinato "la manovrata designazione a suo beneficio".
La susseguente analisi s'incentra ad annotare, nei margini possibili, la ragionevolezza di alcune considerazioni. L'aspirazione fondamentale è quella di discutere a riguardo mediante un'enunciazione che non rischi di tramutarsi in una critica gratuita senza un pizzico di avvedutezza; ovvero: (come avrebbe detto il mio beneamato nonno), che il saggio critico non si trasformi in una critica senza... saggezza.
Ci si propone di evidenziare che "raramente" chi ha abbrancato lo "scanno", può dimostrare di meritarlo solo in virtù di provate capacità personali, soprattutto se, prendendo ad esempio l'osservazione d'origine, volgiamo lo sguardo verso i poteri forti, o verso le gerarchie pubbliche che ai primi si appoggiano per il loro specifico interesse.
Le aspirazioni rendendosi, nel tempo, sempre più incontenibili, incalzano motuproprio la mente dell'"approdato" gratificandolo in maniera sempre più appariscente, e sorreggendolo a volare oltre i limiti delle sue modeste capacità, fino ad autobrevettarsi la percezione di essere l'"unto" del suo prezioso mandato. Egli comincia a credere che realmente vale molto più di quanto abbia fino a quel momento riconosciuto, ed a ritenere che sul serio veste delle qualità ignorate. L'autoincensarsi diventa ancor più convincente a fronte del frequente adulatorio comportamento dei sottoposti, che esibiscono la loro sudditanza in maniera così petulantemente servile da renderla spesso mortificante, fuori luogo. Per il "caposquadra", quindi, il passo a gonfiarsi senza un minimo di ritegno è automatico.
 
 
La configurazione mentale del capo improvvisato finora abbozzata, puntellata, come detto, da supporti protettivi, quindi permeata di mediocrità, porta irrimediabilmente al peculiare atteggiamento del satrapo. Questi (per comodità) gabella la sua limitata capacità attraverso un'immagine di facciata ad effetto. Trasforma il suo tavolo in un ornamento di vanità che a lui, pur preso da impulsiva insicurezza, procura, tuttavia, la più soddisfacente sensazione di potere.
 
Via via che il percorso del comando diventa sempre più seducente, l'investito capo si accorge che, oltre al servilismo di molti subordinati, gode anche delle pilotate ostentazioni di affettata (quindi ipocrita) deferenza di tanti altri. Si ciba di una soddisfazione succulenta che non poteva prevedere quando non possedeva alcuna autorità.
Così chi raggiunge posti di prestigio con insufficienti qualità, avverte con compiacenza - facendone tesoro in poco tempo - che ottenere vantaggi clientelari, persino superflui, si palesa automaticamente garantito.
Il "despotino" (perché in tale si trasforma), soggiace all'incontenibile impulso di delegittimare il più possibile il valore del sottoposto; è cosa nota che la tempestiva livrea psicologica accordata ai capi improvvisati, fa consacrare l'ammissione secondo cui chi non ha raggiunto pari vetta, è considerato, "un senza valori". Di conseguenza, il subordinato, pur avendo spesso capacità superiori al dirigente, non ha la possibilità, perché gli si nega, di offrirsi spontaneamente al suo vero livello, perché spesso è schiacciato dalla condizione imposta, dovuta a circostanze avverse che lo costringono alla rassegnata battuta sulla fatalità umana: "la mia iniqua posizione è dovuta alla malasorte che mi si è abbattuta addosso".
Il "sovrapposto" scopre, quindi, di trovarsi dinanzi ad un seducente meccanismo che, visto in superficie, sembra spontaneo, ma in profondità è caratterizzato dalle manovre della più variegata diplomazia opportunistica (vale a dire della metodologia del sistema socio-politico), che lo agevola ad assumere una superiorità indiscussa, al punto da ritenere di disporre a piacimento anche del diritto di immettersi nell'altrui sfera privata.
Per più chiarezza, la sua influente ascendenza straripa, ipso facto, su tutti i più disparati distretti individuali dei malcapitati cooperatori subalterni: ovvero, sulla libertà, sul loro assetto psicologico, sulle intrinseche capacità, sul decoro, sui metodi, sulle personali scelte di applicazione, sui progetti, sulle abitudini, persino sulle scansioni ritmo-biologiche che determinano l'ordine mentale del sottoposto.
Sono comparti che non gli appartengono, verso i quali, invece, dovrebbe accordare il massimo ossequio, evitando di inficiarli palesando la più trasparente carenza di discernimento e sensibilità.
Egli ama mettere in mostra, oltre ogni tollerabile ritegno, l'impellenza personale finalizzata soltanto verso una gratificante politica d'immagine.
Pensa: "È necessario che io esalti la mia superiorità, e poiché la mia posizione me lo consente (questa folgorazione la gabella per autorevole furbizia), attuo un processo di automatismi abilmente coartativi, in base ai quali mi riservo sugli altri il diritto di mal-trattarli come mi pare, usando il potere che la mia irrefutabile carica mi consente. Gli inferiori, costretti a comportarsi da siffatti, rinunceranno a palesare un atteggiamento reattivo. La mia posizione gerarchica istintivamente li blocca, e, per quanto non tollerata, prenderà su di loro sempre più vigore."
Si lascia andare ancora ad un'ulteriore stuzzicante riflessione: vanificata, "in tal modo", qualsiasi ritrosia dei subordinati, potrò rendere più plausibile la tipologia del "dirigente".
 
Il satrapo, se è assecondato - come accennato - dagli arrendevoli atteggiamenti degli asserviti, amplia le sue precise mire di discriminazione che, così, diventano sempre più smisuratamente seducenti. In fondo egli si augura fortemente che i collaboratori in sottordine siano il più possibile deboli, rassegnati. A lui piace appoggiarsi sui soggetti che rinunciano a mostrarsi competitivi e a qualsiasi confronto diretto. Ogni tentazione di interferenze o di indiscrezioni altrui è sempre da lui molto detestata.
Se si avvede, infatti, di essere surclassato dall'abilità organizzativa di altri, passa - inestirpabile vezzo - al doveroso rabbuffo ad effetto (che fa buon brodo per chi procede alla costruzione dell'immagine di dominante). Può succedere, ancor più, che, per eludere difficoltà impreviste, egli dichiari esplicitamente belligeranza al subordinato con la puntualizzazione che esso è sempre un soggetto sottomesso. (Per inciso e per onestà di analisi, bisogna precisare che il diplomatico rabbuffo non sempre è produttivo per la sua immagine).
Alla valida propensione del sottoposto non deve essere affiancata alcuna compiacenza, tranne in caso di opportunismo personale, come dirò più sotto. La rifinitura della prepotenza discriminante va consumata con accattivante diplomazia.
 
A questo punto, riguardo al giudizio secondo cui chi sta più in basso, anche se realmente ha provate qualità, è indiscutibilmente ritenuto inferiore, e viceversa, è necessario puntualizzare che c'è una sottile differenza tra il fenomeno del "mobbing" su cui in questi ultimi tempi si moltiplicano le più disparate considerazioni analitiche, e la disamina del superiore di cui si fa menzione in questa esile trattazione. In effetti, il margine di differenza è molto sottile, ma esiste. Ed è su questo che si vuole postillare.
Si vuole, infatti, delineare la figura del superiore in quanto tale, a prescindere dalla pratica di persecuzione o di vessazione psicologica esercitata nei confronti dell'inferiore, che riassume appunto il concetto di "mobbing". Si vuole discutere con pacatezza sull'atteggiamento di superiorità assunto da chi, pur senza specifiche qualità superiori a quelle del subordinato, si atteggia a dimostrare una rilevanza d'immagine che gli consenta di distinguersi. Come richiamato in origine, ci piace parlare della pretesa progressiva del capo protetto che mira a consolidare la posizione di superiore riconosciuto, appena dopo essere stato installato nel ruolo attribuito, a prescindere dai meriti, dalle capacità, e dall'intelligenza. Il concetto ricorrente nella mente del capo è: "sono su questo podio, e non ho bisogno di minacciare con ritorsioni, o con ricatti che mi danno solo una parvenza di superiorità, io rappresento un superiore il cui ruolo gli consente di gestire senza particolari rischi." Una posizione di studiata millanteria che deve aderire perfettamente alla sua logica.
 
In qualche circostanza la condotta del satrapo vacilla compromettendo la consacrazione della sua posizione, egli paventa di non controllare bene "il personale di bordo". Inesperto (oh, quanto frequentemente lo è!) del posto di comando, sente serpeggiare nell'animo una forma di ansia erosiva. In poche parole, pur forgiandosi spinte psicologiche di consolante autorevolezza, non può esimersi dal temere le disapprovazioni silenti. Certo, si appoggia ai vantaggi facili della posizione, alle agevolazioni derivanti dalla poltrona, al confortevole automatico prestigio del comando, tuttavia prova dei momenti di perplessità che non lo fanno vivere pienamente sereno.
Ma sono momenti che scaccia via con rapido scongiuro di rivalsa: al cospetto di queste legittime titubanze che potrebbero scalfire il senso di potenza, si fregia dell'escamotage: "gli ordini non si discutono", che è l'istituto dell'extrema ratio. Ciò non è tollerabile in tutte le organizzazioni sociali, perché se si tratta di ordini scellerati, questi vanno discussi, criticati, e, se è il caso, deplorati. Ma lui vanta l'impudenza di non condividere una siffatta logica. Mette in pratica, anche in questa circostanza, l'intramontabile velleità secondo la quale il capo non può e non deve indulgere verso un potenziale competitore anche dal punto di vista psicologico, la sua qualità non deve essere ipotizzata, ma accettata. Alla fine, si crogiola sulla consolante rassicurazione del patrocinatore che non l'abbandonerà dinanzi alle possibili contrarietà di percorso.
Oltre tutto, remare contro il vento del suddito, da parte dell'istituzione satrapica, è una manovra sistematica che rende efficace l'investitura della propria egemonia.
Chi è in sottordine spesso è colui che sostiene in toto la realizzazione di basilari incombenze, ovvero, è l'elemento vitale di precisi servizi; ma il satrapo non vuole ammetterlo pur essendone in pectore cosciente. Tuttavia, appena gli si presenta più evidente la realtà che lo irrita, trova l'occasione per manifestare il suo colpo di coda. Entra, tangibilmente nel ruolo del capo che non ammette interferenze sul suo operato. Si configura, così, il magnificato "ipse dixit"1; o lo struggente "superior stabat lupus, longeque inferior agnus."2
 
La superiorità che è insita nella logica del lupo, (descritta nella metafora di Fedro) ovvero nella sua natura di prevaricatore, non gli consente di esprimere un atteggiamento conciliante proprio in ossequio al proprio "status" di potenza. Nel caso in specie, il suo scriteriato modo di intendere, nonché la tutela delle sue esigenze, denotano tutta la particolare propensione dell'animale. Questo porta istintivamente all'accostamento con il signorotto altezzoso; solo che questi non "dovrebbe" avere la natura del lupo che non intende dare alcuna dimostrazione di... buona creanza. (Fuori dall'espressione figurata, è doveroso dire che, nella realtà, esistono meravigliosi lupi che esprimono capacità di altruismo e di intelligenza inimmaginabili.)
 
È opportuno, a questo punto, riportare una breve considerazione:
 
Fedro nelle sue favole diede voce agli animali per dipingere con più incisività il mondo degli emarginati, mettendo nel massimo rilievo la situazione delle classi subalterne notevolmente presenti nella società romana di duemila anni addietro. Egli, esprimendosi in senari giambici, marca con pungente efficacia le tipologie e le regole di vita di quel tempo.
Dai suoi versi lapidari emerge chiara una rassegnata consapevolezza: che il mondo sarà sempre soffocato dalla legge del più forte, anche se questi sia diventato tale senza alcun merito.
Alla classe vessata dei sottomessi, almeno fin quando vige la tipologia socio-politica che ha caratterizzato profondamente l'intero trascorso delle epoche, non resta che provare a sottrarsi dalle ingiustizie, per quanto possibile, con la più luminosa perspicacia.3
 
La tradizione discriminante dei pilastri gerarchici, ha creato una regola talmente radicata, che è passata ad essere identificata come principio perentorio, senza mai concedere il riscontro provato che senza validi sottoposti, una qualsiasi organizzazione non può reggersi, non ha possibilità di sviluppo. È proprio quella parte di gregari pressati, ovvero la massa, che tiene in posizione stabile l'intera impalcatura egemonica, anche quella che, proprio per la vanagloria di cui fa sfoggio, non merita alcuna deferenza.
Senza le radici ben incardinate nel fondo delle viscere della terra, tutte le seducenti chiome dei più maestosi alberi, prive della linfa vitale che solo da quelle radici promana, non avrebbero alcuna possibilità di ergersi. Quanti sono a riconoscere che tutta quella mirabile avvenenza floreale è sorretta dalle parti che nessuno vede perché sono "sotto", nelle zone più "snobbate" della terra?
Mai il responsabile della pulizia cittadina, per esempio, ammetterà che senza di lui si può comunque andare avanti, mentre senza probi operatori non può accadere altrettanto. È a questi ultimi che bisogna dare gratifiche più solide e non a chi sta comodamente seduto in poltrona perché ha semplicemente una discutibile preparazione che, spesso, non ha niente a che vedere con quel lavoro. Secondo i canoni dell'ordinamento funzionale non è superflua la sua presenza, ma non deve avere maggiori remunerazioni rispetto a chi mette a repentaglio la propria salute, la propria incolumità, al gelo, alla polvere, al fango, al vento, agli agenti patogeni, al caldo, negli orari più infami, rischiando incidenti a volte tragici, prescindendo dai titoli di studio del capo che, visti nella prospettiva di manifestazioni arroganti, servono comodamente a ferire i subordinati costringendoli indegnamente (nelle congiure dei palazzi) all'avvilimento, perché considerati indispensabili figure di contorno, di basso profilo umano.
Il sacrificio dei subordinati non va indennizzato moralmente e tangibilmente meno della responsabilità dei capi. Nel più razionale dei presupposti, i due pesi operativi, ognuno nella sua area di efficienza, dovrebbero calibrare parimenti i piatti della bilancia remunerativa.
Lui mette la presumibile perizia del capo, loro mettono l'umile docilità a subire il sacrificio, ovverosia la consistenza oggettiva che pervicacemente è sottovalutata, anzi, si ritiene non faccia opinione. Si sa, è il sistema concepito dalla dialettica dei reggenti. Invece, è la verificabilità degli ambiti socio-economici più disadorni che ha un indiscutibile valore sul piano dell'etica dei comportamenti.
L'esempio - uno dei tantissimi - riferito alla partecipazione di un capo eccellente ad uno spettacolo artistico, a buona ragione, può ritenersi classico: esso, nella sua accezione più varia, riassume un'immagine sintomatica cui spesso assistiamo specie nelle serate ad alto tasso di ostentazione. La domanda è: come può essere legittimato, (preferisco usare "tollerato"), che alle intoccabili icone pubbliche, - cioè agli intestatari delle "seggiole" di alta deferenza -, risulti indecoroso versare il ben che minimo compenso per assistere a qualunque tipo di spettacolo? Alle spalle delle eccellenti poltrone che essi occupano con gran pompa ci sono le persone paganti che consentono loro di compiacersi anche di questo privilegio.
I capi onorati, osannati, incensati, glorificati, pur sprofondando abnormemente nel superfluo, ancor più sono satollati di qualsiasi franchigia. Nel campo dello spettacolo, preso ad esempio, dovrebbero sborsare proprio loro molto più di qualunque altro comune spettatore. Ipotizzando il discriminante abisso di appannaggio pecuniario, (per molti versi "superfluo"), poniamo, in una scala di misura 1/1.000, dovrebbero pagare mille volte la somma di chi ha dovuto pagare uno. Può darsi che l'esempio si renda ridicolo dinanzi allo scellerato impianto di settarismo che la società ha lasciato perpetrare stabilmente nel volgere dei millenni. (Ma vi sono delle società che, pur lontane dalle primordiali formazioni comunitarie, cioè quando non esistevano privilegi di alcun tipo, ancor oggi non si strutturano sulla discriminazione umana più tagliente.)
 
Ci si domanda: "Perché è regola elargire ad un solo soggetto molti onori (stima, denaro, agevolazioni, esclusività), e niente oneri (fatica, rischi, emergenze, gogna, svalutazione dell'immagine, etc...), e non rendere dovuta dignità a chi ha più oneri, provando ad osteggiare la radicata compiacenza di coprirli anche di disistima? Una considerazione che mi torna sempre sotto una mesta luce... Chi ha troppo dovrebbe avere la sensibilità di dimostrare il dovuto riguardo verso chi, suo malgrado, ha molto meno. Direi al conquistatore di posizioni di potere: «Hai gia tanto, hai prestigio, riverenza, non grondi sudore e non metti a repentaglio la tua vita, non sei sfiancato dal peso insopportabile di una mansione particolarmente logorante. Perché devi avere "anche" più remunerazioni?»
L'affrancamento da esorbitanti oppressioni già di per sé è privilegio che non deve pretendere inconcepibili benefici aggiunti. Troppi onori e pochi oneri, da una parte; eccessivi oneri e niente onori dall'altra. Il divario tra chi soggiace tra toccanti afflizioni e chi si rimpinza a profusione sprofondando speditamente in spropositati sperperi, è un'equazione che non torna proprio!
L'opportunismo bieco ci porta a non perdere di vista l'amarezza della subordinazione che non è sufficientemente stimata al pari dei privilegi abnormi che la classe superiore gode. Tra i vantaggi svetta, appunto, il superfluo benessere distribuito a piene mani a troppi senza una sana giustificazione. La cosa peggiore è che gli indigenti osannano per cieca tradizione sociale, chi gode di privilegi abnormi
Il banale esempio che si è voluto tratteggiare, è una graffiatura leggera sull'ingiustizia comunitaria più lancinante.
 
A riguardo, giunge spontaneo il ricordo di qualche passo del capolavoro manzoniano,4 che sulla giustizia fa frequente riferimento, specie nell'intercalare dei dialoghi tra i personaggi più rappresentativi. Emerge in tante pagine che, ancor più della mancanza di rispetto, sussiste il più altezzoso disprezzo, da parte dei notabili del tempo, proprio verso la giustizia che è il pilastro portante della legge e viceversa:
 
«Quale giustizia?» Evidenziava, appunto, con toccante dolore padre Cristoforo rivolto a Renzo.5
Già, essa "non è di questo mondo".
 
Perché si alimenta l'iniquo stereotipo discriminatorio che, pur non trovando alcun consenso, continua, pervicacemente consolidato, a "settoriare" e ad oltraggiare la sensibilità collettiva?
La società non può essere costituita tutta di generali e di leader, né tutta di nullatenenti e di sudditi; non si potrebbe reggere. È ineccepibile! Ma è pure ineccepibile che ci sia nella concretezza una giusta suddivisione di ruoli secondo le capacità individuali.
 
Richiamo alla mente i minatori, gli operatori delle centrali nucleari, chi manipola sostanze pericolosissime, i pompieri, gli artificieri, i tutori dell'ordine, tutti coloro che, non inferiori ad alcun "capoccione", e socialmente autentici pilastri, sono etichettati come "marginali", "secondari". Penso a tutti quelli che sono gli "autentici indispensabili" delle sorti di un popolo, di un paese; a tutti quelli che risolvono gravissime situazioni da soli, a petto nudo, mettendo in gioco la loro vita per gli enormi problemi creati proprio dai sovrastanti, sì, proprio da loro, cioè da quelli che stanno al riparo, nelle belle stanze del potere, favoriti spesso da opprimenti manovre politiche. In quelle stanze non è mai a rischio alcuna piccola parte dell'incolumità del capo, in quanto gli "inferiori", sempre loro, gliela rendono inattaccabile. Con ancor più amarezza penso all'infinita massa di gente che tutto questo lo sottovaluta, lo subisce con la classica, durissima rassegnazione che porta al giogo "del lasciar perdere, del lasciar che tutto rimanga così" in nome della sopravvivenza, dell'andare avanti in qualche modo...
Sull'andazzo che fa ripiegare il subordinato alla più inammissibile rassegnazione, continua a crogiolarsi impavida l'indisponenza di tanti capi che, in caso contrario, dovrebbero avvertire il rischio di procedimenti legali nei confronti delle loro più eclatanti deformazioni comportamentali. Purtroppo su quest'inammissibile macigno attecchisce saldamente l'erba che perpetra tante ingiuste congiunture sociali.
Certo, c'è la denuncia, c'è il percorso legislativo che tutela gli angariati. Ma quanti sono disposti a reagire contro le più lampanti discriminazioni? Ritorna sempre il rassegnato ritornello del lasciar perdere in nome del bisogno pur tanto acre. E ciò fa comodo al satrapo in quanto imbastisce le sue direttive senza subire alcun danno, giocando proprio sulla necessità, senza mettere a repentaglio la sua immagine (spesso fin troppo protetta).
Penso alle coorti riprovevoli, vale a dire, ai parassiti, ai boriosi discendenti dei poteri titolati, (però quelli marchiati di arroganza), i quali, presi dalla foga della posizione raggiunta senza alcuna competenza, espongono richieste tramutandole rapidamente in pretese di servilismo, spesso senza alcuna logica assennata. Oggi basta cambiare l'antico termine blasonato (dalle prerogative virtualmente automatiche di eccellenza donata dal cielo), con amministratore pubblico, (dalle prerogative di imperio arrogante barattato come "capacità scrupolosa mal compresa".
Con la memoria oso andare ad eventi sociali particolarmente penosi, attinenti ad alcuni periodi molto ottenebrati del precedente millennio, specie per il substrato sociale più indigente, costretto ad uno stato esistenziale imbarbarito. Mi riferisco ai tempi in cui per sopravvivere si era costretti ad esporsi ai lavori più indecorosi, sopportando mansioni al di là dell'umiliazione. Gli usi ed i costumi sociali, (cristallizzati in stereotipi che farebbero supporre una sorta di decelerazione evolutiva, di imbarbarimento sociale), produssero specifiche mansioni in certi territori europei, Italia compresa, che in quell'epoca, si mostravano insostituibili per le necessità sociali (e per l'inciviltà imperante dell'epoca!). Più in particolare, (non me ne voglia il volenteroso lettore), mi riporto alla penosa attività dei pulitori degli escrementi riversati sulle strade cittadine durante la notte attraverso le finestre dei più fortunati. Chi ovviava a quell'importante umiliante funzione, non era persona d'ammirare, ma indigente sottospecie degna di ludibrio. Se quell'inammissibile stato di ammorbante sudiciume si fosse prolungato a causa della mancanza di quella classe servile, derisa e disprezzata, le strade delle città come è facile supporre, sarebbero rimaste nauseabonde sino a determinare, sul fronte della salute, danni ineluttabili all'intera collettività, oltre che alla decenza urbana.
Ovviamente, oggi, non si vuole cernere ad effetto un lamento su storia civico-politica remota.
 
Ben lungi da qualsiasi schieramento ideologico, ovviamente, non si propongono concetti sovversivi o populistici tendenti ad un paradossale contro-elitarismo, né fomentare deplorevoli rivalità tra gruppi sociali, o contro il "palazzo".
Non si vuole, altresì, formulare una società priva di capi e subordinati. Chiaramente non sarebbe una trattazione logica plausibile, perché sosterrebbe una discriminazione contrapposta ad un'altra riprovevole discriminazione.
Personalmente desidererei una società che avesse una gerarchia di "veri" capaci, immuni da sciatte valutazioni, da pregiudiziale distacco di cariche.
L'ideale? Strutturare gerarchie comunitarie con animo imparziale, che possano operare equamente in ordine alle proprie qualità.
 
L'esistenza non deve trovare il senso del sé nella logorante corsa verso la posizione di prestigio, partendo dal principio che la condizione modesta è sempre motivo di vergogna, mentre il sottomettere è l'intento primario da conseguire. È allucinante ritenere che la boria di comando debba essere considerata istituzione legittima, fungendo, così, da salvacondotto per acquisire posizioni utili ai propri interessi; per giunta mediata dal più bieco mecenatismo politico o dell'opportunismo clientelare.
 
Viene a proposito l'esempio sulla essenziale capacità che va dimostrata negli ingranaggi operativi di una compagnia aerea. Mai si può pensare che in quel contesto operativo ci possano essere protettori che sostengano persone inette affidando loro compiti estremamente delicati sul piano delle incombenze di sicurezza. La tipologia di quel settore, (come infinite altre che rientrano nelle maglie dei più importanti sistemi sociali), anche se non è del tutto esente in certe partizioni, è ben lontana, (e lo deve essere), dalle più viscide manovre politiche di puro profitto. La capacità, l'inappuntabile competenza, la garanzia, in certi settori lavorativi sono essenziali, poiché l'insufficiente validità, l'approssimazione possono non avere alcuno appello. (Astraiamo gli eventi tragici che trascendono la responsabilità umana.)
È chiaro che anche in settori dell'alta politica, dell'economia, dell'imprenditoria, anche dell'attività sindacale, della diplomazia, etc., cioè nei settori che sono basilari per lo sviluppo di comunità nazionali ed internazionali, la posizione dei titolari non dovrebbe lasciare spazio a dubbi sulla capacità. Infatti in settori strategici il mecenatismo più avvilente è molto raro, poiché in caso contrario, le conseguenze deleterie possono riversarsi su svariati campi della società, considerata non solo in una prospettiva limitata, ma allargata ad una visione anche planetaria.
Porto per un attimo il pensiero anche al giocatore di scacchi, il quale se non fosse dotato di geniale capacità di intuito, di prontezza, di indiscussa superiorità, non potrebbe mai pretendere di vincere la partita. È emblematicamente un campo dove bisogna dimostrare vera capacità: non ci sono benefici pilotati, protezioni, combinazioni diplomatiche, incastri prevaricanti, manovre politiche, giochi di potere. Chi vince è il migliore senza alcuna spinta discriminativa. Chi non risulta all'altezza, al più perde la partita. Ma nella gestione di pubbliche amministrazioni, nella dirigenza di grandi complessi lavorativi, se non si dimostra capacità autentica, non si perde una partita, (che non comprometterebbe granché), ma si producono danni spesso irreparabili alla comunità che non merita di essere affossata. Esempi storici (conflitti, errori di vedute, inettitudine gravissima, ingiusti provvedimenti, colpevolezze allucinanti...), ce ne sono a iosa!
 

* Dall'antico persiano xsathrapa; gr. satrßphj; lat. satràpes. Originariamente con questo termine si designava presso l'antico impero persiano il governatore o l'alto funzionario che aveva poteri politici, amministrativi e militari particolarmente ampi. In tempi correnti ha assunto il significato di persona che, godendo di elevate funzioni, ostenta sufficienza spropositata e sfrutta circostanze favorevoli per raggiungere cariche spesso superiori alle sue possibilità di comando e alle sue cognizioni culturali o tecnicamente specifiche. Egli incarna artatamente lo stereotipo di autorità arrogante e intollerabile.
Satrapismo e satrapico sono termini usati, in certi momenti del saggio, in forma di neologismi concettuali.
 
 
1 «Egli disse». Riferito, oggi, ironicamente a chi presume di avere l'assoluta sottomissione degli altri alla propria autorità. In filosofia, i pitagorici usavano la citazione riferendosi al loro maestro Pitagora; gli scolastici, invece, riferendosi all'impareggiabile sapere di Aristotele.
 
2 Fedro, Fabulae, Liber I - 1. «Il lupo e l'agnello»: "Ad rivum eundem lupus et agnus venerant, siti compulsi; superior stabat lupus, longeque inferior agnus... etc." Tralasciando la traduzione di una delle più celebrate favole di Fedro, l'antico poeta originario della Macedonia, si vuol solo sottolineare come entrambi, il lupo e l'agnello, furono spinti verso il ruscello dalla stessa necessità. I bisogni livellano tutti gli esseri a prescindere dalla diversa natura di immagine o di potenza. L'uno, quindi, era nelle identiche condizioni di fragilità dell'altro: la necessità di bere li accomunava rendendoli uguali. Solo "dopo aver fatto mente locale sulla propria natura, che gli permetteva di manifestare senza danno la sua prepotenza", il lupo "dimentica" di essere un animale con esigenze identiche a quelle dell'agnello; riprende l'arroganza di dimostrare che lui sta al di sopra non solo come posizione, ma, soprattutto, come animale più forte, più importante, che non si discute, che può farla franca senza rischiare assolutamente niente nei confronti dell'agnello. Deve, quindi, avvenire secondo la sua volontà, divorare l'agnello; che ciò abbia o no una giusta logica di comportamento. Per lui, la natura di forte ha la massima giustificazione. D'altra parte, le posizioni di potenza trovano una precisa configurazione già nell'ordine dei nomi con cui si è voluto dare il titolo alla favola, la quale mette in posizione di priorità la forza del lupo come realtà del suo potere. Infatti ha una sua precisa logica "umana", dalla quale non si "può" derogare. Non è la favola de «L'agnello e il lupo», che invertirebbe, stranamente, con quest'ordine di nomi, la realtà di potere dei due animali. Identica realtà si riflette nell'ordine sociale, dove la priorità del nome non può essere espressa formulando una realtà inversa alla logica di potere. Presumo che con la filosofia sociale trasmessaci in tutta la sua mirabile opera, Walt Disney, forse avrebbe sovvertito l'ordine delle funzioni degli animali della favola, evidenziando la bellezza della mansuetudine dell'agnello come forza di una realtà molto più degna di essere apprezzata. In ogni caso, la favola conferma che niente è cambiato dai lontani tempi dell'Autore: cioè dall'epoca di Gesù Cristo. (Fedro: 15 a.C. - 50 d.C.)
 
3 La citazione riassunta nella sua essenza, è dedotta da un piccolo commento pedagogico riportato su Internet riguardante il notissimo poeta latino.
 
4 Alessandro Manzoni, «I promessi sposi».
5 op. cit.: cap. VII: "Se il potente che vuol commettere l'ingiustizia fosse sempre obbligato a dir le sue ragioni, le cose non anderebbero come vanno." E poi, cap. XXXV: "...tu vuoi far giustizia! Tu lo sai, tu, quale sia la giustizia!" La figura del celebre cappuccino resta tra le più amate del capolavoro manzoniano per la sua amorevole e confortante saggezza. E prima ancora, cap. XI: "La giustizia? Sbotta il signorotto Don Rodrigo, Poh, la giustizia!" con la sprezzante arroganza di chi ha la presunzione di creare lui la giustizia e di farla franca a fronte della sua posizione di spregiudicato "caporione" del territorio che l'autore lombardo descrive con esemplare efficacia.


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