- Un
inverno
-
-
- Il portone fu il
primo ad accoglierlo. Non era cambiato. Era verde
smeraldo. Inconfondibile. Decise di entrare. Si
immerse. Trattenne il respiro. Notò che il
giardino era ordinato, proprio come l'aveva lasciato
quel giorno, e ciò gli aprì il cuore e i
polmoni.
- Il sentiero
conduceva all'entrata principale. Ne conosceva tutte
le rughe. Quante corse, le ginocchia portavano ancora
i segni della battaglia. Senza pensarci
accarezzò il gomito, lì, sotto la
giacca, tra le pieghe ancora assonnate e distratte
della camicia. Una cicatrice. Il ricordo visse in
quell'istante davanti a lui.
- Un bambino con la
spada di cartone più simile ad una sciabola
fronteggiava un nemico invisibile molto temibile.
Nonostante ciò stava per batterlo. Ma il
terreno, insidioso, premiò l'avversario e fece
inciampare l'altro che assaggiò il triste
prezzo della sconfitta e l'umiliazione di cadere
davanti al vincitore.
- L'immagine
così vivida, svanì risucchiata
dall'ombra dell'enorme cipresso situato ad ovest
rispetto all'imponente casa padronale. L'eco prima di
sparire per sempre si smorzò e divenne frase:
"Ti voglio bene. È passato molto tempo. Potrai
perdonarmi?"
- Una simile grazia
non poteva essere perorata senza conoscere l'esatto
valore. Un gesto responsabile era la sintesi di un
percorso sofferto. Solo ora era certo che il distacco
era stato necessario. Aveva sofferto.
- Lei aveva condiviso
in silenzio. Con dignità aveva riservato le
lacrime alla solitudine della sua camera. Il giorno
della sua partenza lo salutò dalla finestra,
gli mandò un bacio freddo perché
filtrato dai vetri. Ritornò al
presente.
- Il momento stava
arrivando. Il sentiero polveroso stava annunciando il
suo arrivo. Il passo era composto. Il respiro
danzava.
- La pesante porta
trafisse l'oscurità nella quale versava la
casa.
- Un senso di
vertigine lo scosse. Tutto era avvolto dal
buio.
- Era impossibile
distinguere. Gli occhi non riuscivano nel compito che
la mente continuava a imporre. Quel volere rimase
sospeso, incompiuto.
- Lentamente
serpeggiò un'idea. Tutto poteva essere
cambiato. Sarebbe stato capace di reggere ad un trauma
simile? No.
- Il tempo scandito
dai rintocchi sordi della pendola, non sarebbero
riusciti a scalfire quel luogo. Era indistruttibile e
chi vi abitava era invincibile. Certo gli oggetti
cambiavano, l'usura ne decretava la fine, essi
venivano sostituiti da altri, ma gli uomini, no. Ebbe
un'incertezza. Amaramente constatò che sono
più fragili se la fiamma che li consuma
è la passione. L'amore. Il ricordo. Un senso di
nausea si diffuse rapidamente nel corpo.
- Lo sguardo
vacillò nel vuoto, cercò tra i contrasti
più bui un appiglio ma le mani restarono
paralizzate.
- Era un fantoccio
dai fili legati. un formicolio lo fece sobbalzare. Le
scosse prima dolci si facevano nervose.
- Capì di
essere l'epicentro del terremoto. Vibrazioni
ravvicinate insistevano, premevano sulle tempie.
L'ambiente mutava.
- Le pareti, ora le
vedeva, trasudavano tutta la sua storia, il suo
vissuto, colavano come vernice fresca dal soffitto e
scivolavano giù sul pavimento paludoso.
Un'enorme goccia cadde sulla fronte. Era atterrito. Un
urlo restò congelato in quella assenza di
tempo. Sentì la sua corsa. Il calore
avvolgente. Passò sul naso e in quell'attimo si
spezzò in due fiotti traditori. Quando
poté urlare inghiottì il liquido.
Penetrava nell'intimo.
- Decise di
abbandonarsi alla musica. Guardò le mani che
lentamente prendevano una colorazione
rossastra.
- Ora il suo essere
si era fuso con ciò che era stato. I ricordi
non potevano più nuocere perché erano
divenuti parte del suo essere. Silenzio.
- Svenne. Una carezza
lo svegliò. Riconobbe ad occhi chiusi sua
madre.
- Finalmente era a
casa.
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