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- Massimiliano
Bianchi, Cantastorie, solo poesie, Collana Le schegge
d'oro (i libri dei premi), 12x17 - pp.56 -L. 11.000 -
Euro 5,68
- ISBN
88-8356-104-X (2° nel concorso "Age Bassi
1999")
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Prefazione
C'era
una volta il cantastorie. Girava per le piazze di
piccole città (rispetto ai parametri
contemporanei un tempo tutte le città, anche
quelle grandi, erano piccine) e paesi con un carretto
e una sacca piena di fondali sommariamente disegnati,
dove l'imprecisione del particolare veniva compensata
dalla fantasia di chi raccontava; era poveramente
vestito, perché certo il suo non era mestiere
che facesse guadagnare più di quel che gli
abitanti del borgo potevano offrire, sottraendo le
offerte ai loro già magri raccolti: ma aveva un
tesoro inesauribile di parole che donava agli
ascoltatori con voce ora suadente ora roboante,
accompagnandosi con gesti e mimica eloquenti. Quando
arrivava i bambini del paese andavano per le strade,
felici, gridando "è arrivato", e tutti
correvano verso la piazza, raggiungevano il carretto e
ansiosi domandavano "oggi cosa ci racconterai?" e poi
lo interrompevano spesso con esclamazioni, applausi,
"oh" di stupore. Lui, il cantastorie, dirigeva il
pubblico come un sapiente direttore d'orchestra,
alternando le risate alle lacrime, la gioia alla
mestizia; era, in quei momenti, come una levatrice: ma
di emozioni, non di bimbi. Alla fine rimetteva tutto
nella sua borsa e ripartiva verso altre strade e altre
piazze, mentre l'aria del paese risuonava ancora delle
sue storie antiche e nuove, della sua voce cangiante;
e col tramonto tutto tornava come prima, fino alla
prossima visita.
I
cantastorie non esistono più. Ora ci sono il
cinema, la televisione e quant'altro a soddisfare i
bisogni dell'immaginario collettivo della gente, primo
fra tutti il bisogno della narrazione: che è
forse altrettanto primario di quello del cibo, a
giudicare dall'immutata voracità con cui il
pubblico si getta sulle storie, che peraltro
presentano tempi di metabolizzazione e digestione
vorticosamente diminuiti rispetto al passato. Le
storie vengono raccontate e dimenticate in tempi
(drammaticamente) brevi, e l'eco delle emozioni
suscitate si spegne ben prima del tramonto; del resto,
le storie stesse sono sempre più stereotipate,
meccanismi ripetitivi che, lungi dal provocare
risonanze emotive autentiche, si esauriscono
rapidamente in se stesse.
Richiamare
l'idea del "cantastorie", scegliendola addirittura
come titolo di una raccolta poetica, è dunque
un atto di coraggio e al tempo stesso di protesta. Di
coraggio perché significa richiamare alla luce
l'antico ruolo del cantastorie come depositario degli
archetipi che fanno muovere le fantasie della gente,
con tutto quel che comporta in termini di
coinvolgimento degli ascoltatori e di
responsabilità del narratore, che si assume in
prima persona l'onore e l'onere della materia narrata;
di protesta perché vuol dire andare
controcorrente rispetto ai canali di trasmissione
imperanti, recuperando una diversa modalità di
comunicazione, più diretta e (forse)
autentica.
Ed
eccoci allora di fronte alle mini storie di
Massimiliano Bianchi; il quale, salito su un
metaforico carretto e ripresa l'abitudine a raccontare
in poesia - non si dimenticherà che i
cantastorie usavano parlare in versi per far sì
che le loro storie potessero essere più
facilmente memorizzate - ci presenta una silloge dove
la tradizione del cantastorie si fonde a un discorso
poetico che tiene conto di ciò che la poesia
moderna non può più ignorare, ossia il
verso libero e l'andamento lirico, profondamente
emotivo del dettato.
Così
il contenuto delle "storie" (diremo tra un momento
perché l'uso delle virgolette si impone),
anziché legarsi a un andamento più
propriamente narrativo, sceglie la via più
impervia della sollecitazione di sensi ed emozioni,
abbandonando nessi temporali e causali per affondare
nell'immaginario che ciascuno porta in sé.
è significativo, in questo senso, che la poesia
d'apertura - "Cantastorie", appunto - abbia un tono
disteso e colloquiale e crei immediatamente un legame
tra il poeta e gli ascoltatori-lettori (in questo caso
legame di identità, sottolineato
dall'iterazione della prima persona plurale del verbo
essere: "siamo tutti cantastorie, siamo solo
cantastorie") mentre quella immediatamente successiva,
"Di uomini e poeti", si presenti già come una
suggestiva somma di emozioni, legate sia all'atto del
narrare che a quello dell'ideare le storie,
metaforizzate nel velocissimo accostamento di immagini
come luce, acqua, inchiostro, carta; e, sia detto per
inciso, non è questo l'unico caso in cui il
lettore si trova di fronte un'immagine fortemente
connotativa come quella del mare. Sembra dunque che le
"storie" di Bianchi siano tali perché,
indubbiamente, raccontano: ma la materia del racconto
è sciolta in una serie di illuminazioni
successive (non a caso l'autore parla di "fendenti di
luce") che si rapprendono in disegni che a volte
abbracciano in un attimo grandezze infinite ("Venti di
guerra", "Confini"), altre si concentrano su
particolari minuti, su oggetti concreti, facendoli
diventare emblemi di una condizione esistenziale
universale ("Montebello", "Lupi", "Un passero") di
stupore e attesa. Che è ciò che accade
anche nelle ultime liriche - quelle della sezione
"Storie di Romagna" - dedicate alla celebre figura del
Passator cortese, brigante passato alla storia
popolare come un generoso Robin Hood: qui, più
apertamente che in altri luoghi della raccolta, viene
recuperata la dimensione narrativa; ci troviamo di
fronte a una piccola epos contadino e nostrano, dove
la natura mostra in cifra i segni delle avventure e
della fine del Passatore. E qui davvero possiamo
immaginare Massimiliano Bianchi nella piazza di
Consandolo, o di un altro paese di Romagna, cantare le
storie del Passatore, facendo "rivivere leggende
forgiate dai vecchi, giullari di bimbi ansiosi". Altro
che televisione.
Bianca
Cerulli
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