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PAOLO ROVERSI, Musica per vagabondi
ed. Montedit, Melegnano, pp. 64 (12X17), Lit. 8.500, ISBN88-86039-94-8


Dal volume Musica per vagabondi di Paolo Roversi pubblichiamo il racconto

Sul lungolago dei Gonzaga

Le vie di Mantova erano annegate di nebbia ed il gelo picchiava duro sulle forme indistinte d'uomini che vi si districavano all'interno. Quella era l'ora in cui la gente se ne tornava a casa dopo una giornata di lavoro e le saracinesche dei negozi stavano per essere abbassate. I clacson delle auto bloccate ai semafori urlavano nel buio e le televisioni cominciavano a trasmettere i primi telegiornali.
Un'altra sera d'inverno stava scendendo a spegnere tutti i colori.
Horace si fermò un attimo per dare fuoco ad una sigaretta dopodiché riprese a camminare svelto col bavero del soprabito alzato e con le mani, tra una boccata di fumo e l'altra, ben nascoste in fondo alle tasche.
Il marciapiede era viscido, bagnato come dopo un temporale anche se erano giorni che non cadeva una sola goccia d'acqua.
Dopo pochi passi gettò la sigaretta ancora quasi intera in una pozzanghera e si tirò nervosamente il berretto di lana verde sulle orecchie. Era decisamente una serataccia.
Sull'altro lato della strada un vecchio infagottato dentro a un cappotto color cammello si faceva trascinare dal cane mentre, poco più avanti, un paio d'impiegati di banca, con la valigetta in mano e il soprabito aperto, si attardavano a discutere nei pressi della loro bella agenzia.
Horace non prestò attenzione a quella gente; era troppo impegnato a rimuginare su quello che stava facendo. E vi posso assicurare che non era certo per colpa di quel tempo così inclemente che gli frustava le orecchie e che gli arrossava la faccia se lui era nervoso. Il problema era un altro. Horace non capiva, e in effetti non lo seppe mai con certezza nemmeno in seguito, perché stava andando dove stava andando
Qualche minuto ancora e davanti a lui si presentarono le porte pesanti dell'ospedale "Carlo Poma": era arrivato a destinazione.
Horace emise un sospiro profondo, si ficcò in tasca il berretto, allentò la presa della sciarpa alla gola e poi, con le gambe ancora irrigidite dal freddo, varcò la soglia del nosocomio.
Quando fu dentro si dispose immediatamente alla ricerca di qualcuno con indosso un camice bianco per avere notizie di un certo Bonelli Marco.
Attese per un buon quarto d'ora finché dal fondo del corridoio vide spuntare un'infermiera grassa e irsuta, col camice sudicio e i capelli arruffati.
La donnona si avvicinò a grandi passi all'uomo e lo fissò storto. Quando fu abbastanza vicina Horace le chiese del ragazzo.
"L'orario di visita non è ancora cominciato!", barrì lei sprezzante.
"D'accordo ma come sta?", insistette lui spazientito.
Quella però non disse più nulla. Si limitò a fissarlo ancora per un istante con quei suoi occhietti piccoli e scuri, poi scrollò le spalle e, destreggiandosi abilmente sui grossi piedi gommosi, scomparve dietro ad una porta su cui troneggiava, in bell'evidenza, il cartello "VIETATO L'ACCESSO AI NON ADDETTI".
Horace sbuffò, poi raggiunse una sedia e vi si lasciò cadere stanco.
L'aria asettica dell'ambiente gli pungeva il respiro e il caldo soffocante lo aveva costretto ad aprire il soprabito. Mentre attendeva s'infilò un'altra sigaretta in bocca e lanciò in giro un'occhiata furtiva. Alla fine decise di correre il rischio d'accenderla.
"Tanto chi è che non fuma in ospedale ormai?", si era domandato dentro di sé, come per ottenere una specie di consenso, mentre cercava di reperire l'accendino dal fondo della tasca. Alla fine riuscì a trovarlo e mentre lo tirava fuori fece girare la rondella. Poi aspirò il tabacco infuocato, chiuse gli occhi, appoggiò la testa alla parete e si mise a ripensare a che giornata intensa era stata quella.

Tutto era cominciato come la solito. Certo, come al solito per quelli come lui.
Nel cuore della notte una telefonata lo aveva tirato giù dal letto per un incidente sulla provinciale, lì, appena dopo Cerese, praticamente alle porte della città. Horace aveva raccattato il notes dalla scrivania, la Canon, qualche rullino in bianco e nero, e poi si era precipitato in tutta fretta giù per le scale con le brache del pigiama infilate sotto ai pantaloni, i capelli grigi arruffati nel berretto ed il sapore amaro della notte ancora in bocca.
Aveva capito subito che si trattava d'un brutto affare. Una di quelle storie che il giorno dopo vengono sbattute in prima pagina sul giornale e sono immancabilmente descritte con parole crude come "tragedia" o "disgrazia".
Parole che Horace aveva usato tanto spesso in passato e che sicuramente avrebbe continuato ad adoperare anche in futuro nei sui pezzi.
Ma non poteva farci nulla, non sono cose che si possono scegliere quelle, si diceva; ognuno fa il mestiere che fa.
Con questi pensieri in testa era saltato in sella alla sua Vespa ed era partito a tutta velocità, battendo i denti per il freddo, diretto verso il luogo dell'incidente.
"È un frontale", gli avevano annunciato dalla redazione "Un ragazzo ha sbandato e l'auto che arrivava dall'altra corsia non ha fatto in tempo a frenare". Bum.
Quando giunse sul posto i vetri frantumati dei parabrezza erano ancora sparsi attorno alle auto e dagli abitacoli non usciva che un silenzio carico di cattivi presagi. A quel punto Horace aveva già caricato il primo rullino e si era messo a fotografare il sangue sull'asfalto, le auto schiacciate, i sedili squarciati. Tutta la scena del massacro, insomma. Ecco "massacro" era un'altra parola che andava bene per il titolo dell'articolo, si disse ricaricando la macchina.
Poi le luci blu dei Carabinieri e delle lettighe avevano lampeggiato ad intermittenza attorno alle auto distrutte mentre i volontari della Croce Rossa s'affrettavano a caricare un ragazzo, con un buco in pancia e vent'anni nel corpo, sull'ambulanza.
Per quelli dell'altra macchina, invece, si poteva fare ben poco. L'urto violentissimo aveva schiacciato il cofano contro i sedili anteriori dell'abitacolo e per i due coniugi non c'era stata nessuna via di scampo. "Cordoglio", era la parola da usare.
Quando ebbe terminato di scattare le fotografie, Horace, si avvicinò ai militari ostentando il suo taccuino sgualcito e predisponendosi a sfoderare le fatidiche domande. Le stesse che t'insegnano sin dalle scuole medie e che si trovano su tutti i manuali, i cinque capisaldi del giornalismo classico, i cinque W: Chi, come, quando, dove, perché. Lineare, facile, immediato.
Al solito tutte le bocche erano cucite e nessuno sembrava sapere niente. Bisognava attendere il comunicato dei tecnici e certamente nell'articolo che avrebbe redatto per "TuttoMantova" si sarebbe dovuto affidare alla solita e collaudata formula del "in circostanze ancora da chiarire" che tagliava sempre la testa al toro.

La vista del sangue, ormai, non lo colpiva più. Adesso gli era quasi indifferente assistere a scene del genere mentre vent'anni prima, quando non era che un novellino del nero e si beccava si e no il rimborso spese, le cose giravano in modo ben diverso.
La notte scorsa aveva risvegliato un vortice di ricordi dentro di lui.
In particolare, gli era tornata in mente la sua prima uscita come cronista di nera. Anche quella volta era notte ed anche in quell'occasione l'asfalto era bagnato dal sangue; il cielo, invece, era spazzato di stelle. Un'immensa distesa di luci sopra quella scena. Vivido particolare nel suo ricordo.
La vicenda risaliva al periodo in cui lui muoveva ancora i primi passi nella professione e più che affaccendarsi a stilare servizi seri o cronache a sei colonne d'avvenimenti politici, era impegnatissimo nella trafila infinita dei caffè portati a redattori, vicedirettori e a quanti altri lavoravano stabilmente nella redazione del giornale.
La sua porta si aprì sul mondo della nera nel caldo asfissiante dell'estate, complici le ferie dei colleghi.
Quella sera, con i televisori impegnati a trasmettere le olimpiadi del '70, al giornale, oltre alla redazione sportiva, non erano rimasti che lui e Malone.
Gustavo Malone, d'origine inglese da parte di madre, era un ciccione bestiale, perennemente occupato ad asciugarsi la fronte col fazzoletto e a stringersi le bretelle perché non gli cadessero le brache. Lavorava alla testata da sempre ed apparteneva allo stampo dei cronisti vecchia maniera. Un misoneista, per intenderci.
Quella sera Malone, vuoi perché lo avevano piantato da solo in redazione a difendersi dalle zanzare e dai televisori sintonizzati sulle gare di tiro al piattello o vuoi perché le ferie le aveva dovute consumare in giugno per motivi di famiglia e non poteva andarsene al mare, era di umore nerissimo.
Nel mezzo di quell'idillio era squillato il telefono. Allora c'era stato un po' di trambusto, piccole discussioni. Alla fine si decise di consultare telefonicamente Giacchi, il vicedirettore, che coraggiosamente affidò l'incarico ad Horace e Malone.
In capo ad un paio di minuti, i due si erano già arrampicati sul vecchio e glorioso furgone Ford, che il giornale metteva a disposizione per i servizi esterni, ed erano partiti alla volta di Modena Nord per documentare l'incidente.
L'autostrada quella notte era deserta, neanche un auto da sorpassare; tutto il mondo era fuggito chissà dove per cercare refrigerio.
Poi Malone agitandosi sul sedile, schiacciò la sigaretta nel portacenere.
"Eccoli là", gridò indicando una fila di automobili ferme.
L'incidente era ad un centinaio di metri da loro e i soccorritori si stavano dando da fare per spegnere un piccolo incendio. Poco distante dal fuoco, inoltre, erano impegnati altri pompieri che cercavano di liberare alcuni automobilisti imprigionati nell'abitacolo sfondato di una station wagon.
Le auto coinvolte stavano accartocciate e strette in una forma quasi geometrica. Sembravano tante lattine di birra schiacciate e disposte lì sull'asfalto in un ordine prestabilito, come le pedine di una dama. Come se qualcuno fosse in procinto di giocare una partita di qualche strano gioco.
I due cronisti scesero dal furgone e in tutta fretta si avvicinarono per raccogliere notizie. Stando alle chiacchiere che circolavano, contrariamente a quello che ci si poteva aspettare, sembrava che non ci fossero vittime. Certo, feriti ce n'erano, un sacco anche, gravi anche, ma nessuna vittima.
"Merda", sbottò Malone agitando la sua grossa mole "tutto questo casino e nemmeno un morto!".
Horace lo guardò terrorizzato.
"Ma cosa sta dicendo questo maledetto grassone?", si era domandato dentro di sé sconcertato.
Dopo aver atteso per un po', Malone, imbestialito, era risalito sul furgone pronto per andarsene.
"I feriti non fanno notizia!", aveva ruggito furioso gettando il blocco d'appunti sul cruscotto.
Nel frattempo, Horace, aveva scattato qualche istantanea e stava giusto per seguire l'esempio del compagno quando la sua attenzione venne richiamata dall'improvviso ululato della sirena di un'ambulanza che arrivava a tutta birra.
I due giornalisti si misero all'erta.
L'autolettiga frenò bruscamente e dal portellone posteriore schizzarono fuori le uniformi fosforescenti e le torce luminose dei soccorritori diretti verso una sagoma scura abbandonata nella campagna vicina.
Nessuno di loro due si era accorto che un'auto azzurra era volata fuori dalla carreggiata.
Il ciccione, appena se ne rese conto, sgranò gli occhi e rifilò un gran cazzotto soddisfatto al volante.
"Quelli là dentro non sono certo scampati!", annunciò poi tutto fiero della sua macabra scoperta.
Horace rimase paralizzato dal cinismo spietato di quell'uomo. Immobilizzato sul sedile. Malone, al contrario, con un agilità non certo consueta per uno della sua stazza, s'affrettò a raggiungere i barellieri.
"Avanti", ordinò poi acido ritornando sui suoi passi "vai a fare qualche foto mentre telefono in redazione per farmi tenere una bella pagina interna e un titolo in prima".
Horace saltò giù dal Ford, scavalcò il guardrail e, imbracciata la sua Canon, si avvicinò all'auto per cominciare a scattare.
L'obbiettivo era spianato sulla scena.
Due pompieri estrassero dalle lamiere contorte il corpo esanime di una ragazza bionda.
Horace abbassò l'obbiettivo.
Due occhi azzurri sbarrati di terrore e ancora fermi al momento in cui era avvenuto lo scontro non gli permisero di continuare. Lui non poteva fotografare quel rivolo di sangue che colava quasi invisibile da un lato della bocca della ragazza; lui non poteva assolutamente sopportare la vista di quelle mani ancora contratte come se avessero voluto afferrare qualcosa.
Il suo stomaco cominciò ad accusare fitte acute di dolore.
"Ma che diavolo fai?", gli urlò Malone dalla strada "Scatta quelle dannate foto!".
Horace però non poteva farlo; non ci riusciva.
"Cristo quella è carne morta!", aveva gridato, scosso dai tremiti.
Il ciccione non lo sentì nemmeno; fece un balzo e gli strappò di mano la macchina.
"Praticanti, puah!" grugnì cominciando a scattare "Solo una gran rottura di scatole!".
Horace non ce la faceva a replicare. Lo stomaco gli si stringeva come una spugna e rigettava dolorosamente ogni cosa.
C'era il cielo stellato quella notte, e il sangue, e le luci dei lampeggianti. E c'era lui, con la sua camicia fuori dalle brache, il suo pizzo da intellettuale e le sue sigarette morbide. Lui, il giovane Horace Radeschi, di professione praticante.

Poi erano passati gli anni e Horace aveva messo da parte quei sentimenti, seppellendoli accuratamente da qualche parte (se davvero esiste) dell'anima.
Adesso se ne stava lì col suo notes a quadretti a scrivere senza problemi delle disgrazie altrui, sopportando di buon grado anche il freddo omicida di quel mattino. Dopo tutti quegli anni di lavoro lui non pensava nemmeno più a quello che faceva; raccontare sciagure, ormai, era diventata per lui un'azione meccanica come lavarsi la faccia al mattino o ingranare la prima per partire. Ora, quando arrivava sul posto dell'incidente, afferrava il taccuino e attaccava a scrivere con la stessa naturalezza con la quale, quando ci si siede a tavola, si afferra la forchetta e si comincia a mangiare.
Ma quella non era vita, si diceva sempre Horace. Almeno non quella che lui aveva sognato quando fresco di laurea aveva iniziato ad aggirarsi fra le scrivanie disordinate dei giornalisti. In quei giorni sognava di redigere editoriali, di intervistare capi di stato, di essere inviato come corrispondente da Parigi o da New York. Invece era ancora lì, sulla stessa strada dalla quale aveva cominciato.
Per questa ragione Horace era un uomo triste; un uomo che non aveva né gioie né emozioni improvvise a scoppiargli in cuore. Un disilluso cronico che però coltivava un amore grande, una passione forte come il giornalismo: il cinema di Eastwood. Già, perché al vecchio Horace facevano letteralmente impazzire i western cosparsi di cattivi modello "Per qualche dollaro in più" o le indagini-sparatoria dell'ispettore Challagan. Era il massimo per lui potersi godere in Tv i film del vecchio Clint.

"Che fai Radeschi; prendi il fresco?", chiese una voce fuori campo interrompendo il flusso dei suoi pensieri.
Era Maraldi, il cronista dell'altro giornale cittadino, il "Mantova Città".
"Già", rispose Horace "Me ne sto qui a godermi 'sto dannato freddo!".
Maraldi ridacchiò coi suoi denti gialli di nicotina e di pastiglie. Poi tossì rumorosamente come se qualcuno grattasse con le unghie dentro di lui.
Era un vecchio Maraldi, molto più di lui, molto più di qualsiasi giornalista in attività lì nel mantovano e forse, azzardava Horace, nell'intero ordine.
"Un giorno o l'altro mi devo decidere a mollare questo lavoro infame e ad andarmene in pensione", disse l'anziano cronista come se gli avesse letto nel pensiero.
Quella era una vecchia storia; proprio come lui, Vinicio Maraldi, il vedovo.
Ma del resto che cosa gli restava a quell'uomo se non la passione per il suo lavoro? Sua moglie era morta da dieci anni e l'unica cosa che lo teneva ancora in vita era la cronaca, la strada. Horace si era domandato un sacco di volte perché, se proprio dovevano tenerlo a lavorare, almeno non lo mettessero dietro ad una scrivania o roba del genere, anziché sbatterlo per la strada in piena notte e, per giunta, con quel freddo tremendo.
"Dai Vinicio", propose dopo aver annotato ogni cosa sul suo taccuino "Ti offro un caffè giù al lago".
Il vecchio annuì e si ficcò in tasca il blocco degli appunti. Era troppo tardi per mandare in macchina l'articolo e le foto. Sarebbe stato per il giorno dopo e, per quello, c'era tempo.

Il bar Benzi si affacciava sul lago di mezzo e rimaneva aperto per tutta la notte. Quel posto era il ritrovo preferito degli ubriachi, delle battone e dei giornalisti di cronaca nera. Gente che dalla società non si aspettava più nulla ma che aveva abbastanza soldi perché il vecchio Benzi facesse affari d'oro sulle loro disgrazie.
"Lo conoscevi?", chiese Horace posando la tazzina vuota.
"Diavolo non è ancora morto!" replicò Vinicio seccato.
"Be'", valutò Horace corrugando la fronte "non mi pareva ci fossero grandi speranze".
Il vecchio finì il caffè e non rispose. Si limitò ad emettere un grugnito e si voltò a scrutare la strada vuota che costeggiava il lago. Il Lungolago dei Gonzaga.
Seguì una lunga pausa.
"Che cazzo di vita che facciamo!", sbottò Horace alla fine "Andiamocene a letto, va'".
Maraldi sbadigliò e si infilò il suo cappotto grigio e sciupato.
Poi i due si levarono di là e presero la via delle rispettive abitazioni senza pensare assolutamente di infilarsi a letto. Vigliacchi com'erano avrebbero redatto l'articolo lì in quattro e quattr'otto e poi sarebbero corsi a portarlo al giornale insieme al rullino da sviluppare.
E così fu.

Erano quasi le sette quando Horace ritornò finalmente a casa col sonno incollato addosso. Dopo aver fumato una sigaretta, si fece una doccia e se ne andò a letto.
Ma qualcosa non andava; gli era rimasta la frase di Maraldi lì a mezz'aria nella testa "Diavolo non è ancora morto!".
Una frase che teneva ancora sveglio Horace, disteso nel buio della camera, mentre il sole doveva essere già sorto da un pezzo.
Poi cominciarono anche a levarsi i primi rumori dal mondo esterno. I segnali che inauguravano un nuovo giorno. I pensieri di Horace cominciarono a sciamare.
Giù in strada, intanto, le auto iniziavano a darsi da fare con le frenate e i clacson. La città, coi suoi tram arancioni e i suoi camini neri si stava svegliando; le persone normali se ne andavano al lavoro dopo un meritato riposo notturno.
Horace si ficcò i tappi nelle orecchie e s'impose di dormire.

Adesso era sera e lui se ne stava seduto lì, nella sala d'attesa dell'ospedale, ad aspettare che iniziasse l'orario delle visite. Non sapeva nemmeno bene perché era andato all'ospedale. Lui non era certo il tipo che correva dietro a tutti i casi disperati dei suoi incidenti; lui aveva imparato a non commuoversi più da un mucchio di tempo. Forse c'era andato perché in cuor suo sentiva che il ragazzo ce l'avrebbe fatta o magari perché qualcosa dentro di lui gli diceva che quel Bonelli Marco, 21 anni, avrebbe sconfitto i cattivi; proprio come succedeva sempre nei film del vecchio Eastwood.
Negli occhi del dottore che sbucò dalla porta non c'era niente di tutto questo. Horace si alzò e avvicinò il medico.
"Come sta Bonelli?" chiese impaziente.
"Lei è un familiare?" , domandò il dottore sulla difensiva.
Horace sapeva bene che quando qualcuno risponde ad una domanda con un'altra domanda sta a significare, 99 su 100, cattive notizie.
"No, sono un giornalista", tagliò corto Horace.
"Be'", disse il dottore abbassando il tono "è ridotto davvero male per salvarlo ci vorrebbe un donatore"
"Un donatore?".
"Proprio così", confermò il medico.
"E che cosa dovrebbe donare?", chiese il giornalista cercando di mantenere integra la propria professionalità; come per diritto di cronaca.
"Innanzi tutto sangue" affermò il dottore.
"Sangue?" gridò Horace "Ma se ne arrivano sacche piene ogni giorno!"
"Già, ma attualmente non abbiamo più 0 Rh-! E poi il problema non è solo questo. Quel ragazzo ha bisogno di un fegato nuovo perché le lamiere hanno bucato il suo e non so per quanto tempo ancora potrà resistere in quelle condizioni".
Horace tacque. Il dottore fece un cenno di commiato e si avviò nuovamente verso la porticina.
"Dottore", chiamò Horace mutando il tono.
Il medico girò la testa verso di lui con aria interrogativa.
"Lo dono io il sangue", disse Horace "È del mio stesso gruppo".
Il dottore sorrise e lo accompagnò in un ambulatorio.

Horace si premette il cotone sul braccio. Non aveva mai fatto un gesto simile; non si era mai prodigato per gli altri. Lui scriveva cronaca nera, lui raccontava tragedie; non aveva tempo per donare sangue.
Ma questi ben presto divennero gli ultimi dei suoi pensieri. Si era ricordato che Marco aveva bisogno di un fegato. Un dannato, stramaledetto fegato. Ora c'era il sangue per dargli un po' di respiro ma era questione di ore. Doveva assolutamente saltare fuori un fegato da qualche parte.
Il cronista si gettò all'indietro sul lettino a rimuginare. Si sentiva impotente, inutile. Non si poteva fare nulla. Bisognava aspettare; solo aspettare.
"Cristo", farfugliava fra i denti, come se fosse ritornato indietro di vent'anni, "bisogna attendere che qualcuno crepi per salvarlo!".
Strinse rabbiosamente i pugni. Lo avrebbe dato lui quel fegato, avrebbe donato anche una gamba se fosse servito o un braccio o perfino la mano destra con cui scriveva sul taccuino. E il fatto più sorprendente di tutta la faccenda era che non capiva il perché.
Rimase lì a lungo a guardare le luci gialle sul soffitto dell'infermeria mentre Marco di là lottava col suo corpo per tenerlo in vita.
Il silenzio di quel luogo venne rotto dallo squillo improvviso del suo telefonino. Si era scordato di spegnerlo quel dannato affare. Horace si ficcò una mano in tasca e afferrò l'apparecchio.
"Sì?" rispose brusco.
"Radeschi" disse la voce dall'altra parte "c'è stato un incidente in autostrada; proprio qui all'uscita di Mantova nord.. "
"Ci sono morti?", interruppe Horace rivedendosi paurosamente nella parte di Malone, il ciccione.
"Non so, le notizie sono poche. Sembra siano coinvolte parecchie auto"
"Sai se ci sono donatori là?", chiese Horace seguendo il corso dei suoi pensieri.
"Cosa?", fece stupita la voce dall'altro capo "Che diavolo hai detto?".
"Lascia perdere". Riattaccò e corse in strada a chiamare un taxi. In capo a cinque minuti era già sul posto.

Quando scese dall'auto si sentiva uno straccio e la sua testa non voleva saperne di fermarsi. Tutto il sangue che gli avevano preso lo aveva provato. Gli avevano tolto un po' di vita ma era bene, si diceva, perché sarebbe servita per far sopravvivere un po' più a lungo un altro uomo.
Si stropicciò gli occhi e concentrò l'attenzione sull'incidente.
Una corriera era finita fuori strada e parecchie auto si erano tamponate nel tentativo di evitarne la coda che intralciava per metà la carreggiata.
"La nebbia", stabilì Horace "Questa volta non c'è bisogno di inventarsi storie la colpevole è lei: la nebbia della bassa".
Fra le forme scure che attorniavano la scena Horace scorse quella ricurva del vecchio Maraldi.
"Feriti?", chiese avvicinandosi.
"Da quando in qua t'interessi dei feriti?", replicò quello stupito.
Horace parve non sentire quell'affermazione e rifece nuovamente la domanda.
"Ci sono o no feriti?". Il suo tono era serio e deciso.
Maraldi la smise con le battute e snocciolò al collega le notizie di cui disponeva.
"I passeggeri della corriera hanno preso soltanto qualche botta", disse "niente di grave. Laggiù invece", e indicò col dito una automezzo che era accartocciato contro il parapetto "hanno appena cavato un paio di ragazzi dall'auto. È questione di poco però", palesò Maraldi amaramente "non scamperanno!"
"Cristo", sbottò Horace "ma non eri tu l'ottimista fra noi due? Non eri tu che non davi mai nessuno per spacciato?".
"Già", convenne il vecchio "ma quelli quando li hanno tirati fuori avevano il corpo dilaniato: le gambe in un posto e il resto da un'altra parte!". Scosse il capo e disse "Non ce la faranno".
Horace sentì raggelarsi il poco sangue che ancora gli era rimasto nelle vene e rimase immobile a fissare l'auto schiacciata dei ragazzi.
Poi si scosse e si mise a correre come un invasato verso l'ambulanza. Un poliziotto cercò di fermarlo ma Horace lo liquidò con una poderosa gomitata al volto.
Arrivò alla lettiga proprio mentre stavano chiudendo la porta per partire.
"C'è un ragazzo", gridò al medico sull'ambulanza "c'è un ragazzo là al "Poma" che ha bisogno di un fegato! C'è un ragazzo che ha un dannato bisogno di un fegato!".
La porta si chiuse sulle sue grida e l'ambulanza partì con le sirene spiegate. Horace rimase stordito e non fece a tempo ad accorgersi di quel che stava accadendo che già qualcuno lo afferrava per le braccia e lo costringeva a piegarsi dal dolore. Sentì il freddo del metallo cingergli i polsi e, prima di svenire, si rese conto di essere stato caricato su una volante della polizia.

Lo tennero in cella tutta la notte e il mattino seguente, dopo aver telefonato al suo avvocato e firmato delle carte, fu libero d'andarsene.
Non aveva mangiato più niente da parecchie ore e per reggersi in piedi soffriva le pene dell'inferno. Camminò faticosamente sino in fondo a via Principe Amedeo e quindi s'infilò in un bar per mettere qualcosa sotto i denti. Ordinò toast e caffè, poi si gettò sfinito su una sedia e rimase lì immobile ad aspettare che gli portassero da mangiare.

Quando finì di masticare diede un'occhiata in giro. Nel bar non c'erano che pochi clienti. Un paio di impiegati al banco, una donna al telefono e, in un tavolo in fondo alla sala, un vecchietto intento a sfogliare il giornale del Maraldi.
Horace ebbe come un lampo negli occhi. Sì alzò di scatto e strappò di mano il quotidiano al vecchietto.
"Hey dico", sbottò l'uomo "le sembra questo"
Ma Horace non lo stava nemmeno a sentire; aveva visto il titolo d'apertura del Maraldi ed aveva cominciato a leggere ad alta voce, al suo piccolo uditorio, un passaggio dell'articolo.
"() Tra le vittime della tragedia anche il trentenne Allegri Marco che però, nella disgrazia, ha potuto salvare la vita ad un altro Marco: il ventunenne Marco Bonelli. Allegri, infatti, era un donatore d'organi e il suo fegato è stato trapiantato nella notte da un'équipe di medici al giovane Bonelli. Al termine dell'intervento, che è durato diverse ore, il dottore F. che ha eseguito l'intervento ha espresso soddisfazione per le condizioni del ragazzo".
La gente lo guardò stupita ma a lui non importava; era rinato dentro di sé. Si sentiva felice.
Riconsegnò il giornale all'incredulo vecchietto, pagò il conto e uscì in strada.
Era una splendida mattina in cui non c'era nebbia ed il sole splendeva luminoso sopra i tetti di Mantova. Horace sorrise e, infilandosi una sigaretta fra le labbra, s'incamminò verso casa.

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