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               Sapori
               dal passato
 La tormenta, quella notte, aveva sorpreso Maurice, il
               vecchio trovarobe, ancora lontano dal paese di
               Saint-Paul, in cui contava di rifugiarsi. Tutti lo
               conoscevano, nella vallata, ma nessuno poteva
               aiutarlo, ora, così, solo, in mezzo al bosco.
               Sentiva i lupi ululare in lontananza, e il buio che lo
               circondava sembrava così fitto da produrre in
               lui una sensazione di estraniazione ed un dolore quasi
               fisico. Si era perso, e probabilmente sarebbe morto, e
               qualcuno lo avrebbe trovato fra trentamila anni,
               proprio come l'uomo di Similaun. Chissà quali
               studi ci avrebbero fatto. Forse, si diceva, la sua
               esistenza, che vedeva fin qui senza scopo, avrebbe
               potuto almeno contribuire, in un futuro lontano, al
               progresso della scienza.
La
               neve cadeva sempre più fitta, e il freddo
               avanzava implacabile. Ogni particella del suo corpo
               sembrava gridare sull'orlo dell'assideramento, le sue
               cellule, i suoi atomi e le sue molecole sembravano
               evaporare in un processo di lento ma inevitabile
               dissolvimento, nel quale si stava perdendo lentamente
               anche la sua coscienza. Era
               una vita che il vecchio Maurice andava in cerca di
               tutto per le plaghe più impensate, raccogliendo
               e rivendendo brandelli di cose insieme a pezzi della
               sua anima. Era facile, per lui, affezionarsi alle cose
               che trovava, oggetti impregnati dei pensieri e dei
               ricordi di chi li aveva posseduti, e che gli si
               aggrappavano come all'ultima speranza. Ed era sempre
               doloroso, poi, disfarsene. In fondo aveva sempre
               vissuto di riflesso, sempre di passaggio, senza un
               punto fisso, un'ancora che lo trattenesse dai gorghi
               dell'esistenza. Era un continuo frugare nelle vite
               degli altri, come un ladro, come un pirata, attraverso
               i racconti delle loro cose, che vivevano la loro
               giovinezza coi loro padroni, e si adagiavano su di lui
               quando, ormai vecchie e stanche, quasi non servivano
               più. E lui era lì, a cercare di
               ripulirle, lucidarle, quasi a ridonar loro quella
               giovinezza che mai più avrebbero posseduto,
               sforzandosi di liberarle ossessivamente dalla patina
               del tempo e dal peso degli anni. La
               neve continuava a cadere, sempre più densa,
               coltre bianca pronta a stendere l'ultimo velo sulla
               sua esistenza raminga, volta sempre a cercare oltre
               l'orizzonte, incapace di soste troppo lunghe. Era
               stanco. Pensava che, in fondo, era anche un buon modo
               di morire, lasciarsi andare lentamente
               nell'incoscienza, cessare pian piano quelle funzioni
               cerebrali superiori che spesso sono anche fonte di
               tormento, addormentarsi dolcemente tra le braccia
               della pace finale promessa dall'elegante signora che
               paziente attende. Sarebbe passato via via dal dolore e
               dalla sofferenza attuale all'oblio, a quello stato
               graduale di sospensione della coscienza  e poi,
               infine, a quella pace ristoratrice che ci accoglie
               senza niente chiedere.Ogni
               tanto, mentre con la forza della disperazione
               continuava ad avanzare, aveva qualche flash della sua
               vita, un volto, una storia, un sentimento. Non dicono
               che accade davvero? Non è questo, forse, uno
               degli eventi che precedono il grande passo? E gli
               pareva, ora, di vedere, là, in lontananza,
               l'unico punto stabile della sua esistenza, la casa in
               cui, da bambino, era cresciuto, con i suoi aromi e i
               suoi sapori, e gli sembrava di vedere ancora sua madre
               col grembiule, candido come la neve che adesso lo
               circondava, mentre preparava quella pasta e fagioli al
               curry che tanto amava e che non aveva mai più
               assaporato. Lì,
               mentre avanzava nella tormenta, gli pareva di vederla,
               la sua mamma, mentre prendeva i fagiolini cannellini
               fatti ammollare per tutta la notte, li cuoceva sul
               camino fino a far sì che quasi si sciogliessero
               in bocca in un processo da cui la fretta doveva essere
               aliena, poi ne pestava la metà in un mortaio
               fino ad ottenere una poltiglia. E poi... Le idee
               cominciavano ad annebbiarsi,  ma si sforzò di
               continuare, quasi il ricordo potesse trasmettergli un
               po' di quel calore che lo avvolgeva da bambino. E poi
               i pomodorini, appena colti, il basilico odoroso,
               tritati insieme e messi nell'olio di oliva nel tegame
               di terracotta insieme ai fagioli rimasti interi ed a
               quelli pestati. La cottura lenta e il suo tocco da
               maestra, quella spruzzata generosa di curry che doveva
               conferire quel sapore unico, di terre lontane, alle
               orecchiette preparate a mano. Il
               calore della pasta si sposava a quello offerto
               spontaneamente dal curry nella sua memoria, e il suo
               corpo quasi si sforzava di trarre ogni stilla, da quel
               ricordo, quasi che il passato potesse rifluire nel
               presente con la sua energia ristoratrice, con la forza
               dell'amore che  sua madre metteva in ogni movimento e
               fase nella preparazione di quella ricetta. 
               E
               gli pareva di avvertirlo davvero, anche ora, quel
               calore diffondersi pian piano nel suo corpo, arrivare
               fino ai più piccoli ed immateriali costituenti
               del suo essere, là, in mezzo a quel gelo e al
               freddo che pian piano cominciavano a pervadere i
               meandri più nascosti della sua anima.
               Si
               lasciò scivolare nella neve, dolcemente, mentre
               il velo nero dell'incoscienza si impadroniva delle sue
               capacità mentali, della sua consapevolezza di
               esistere. Giù, piano, piano, quasi senza
               accorgersene, verso l'oblio finale. Fu
               così che, qualche ora dopo, lo ritrovarono, in
               posizione fetale, gli uomini del soccorso alpino.
               Corsa frenetica verso il più vicino ospedale,
               l'eliambulanza che lo portava verso il centro di
               rianimazione, ed una flebile speranza di vita.
               Si
               risvegliò lentamente, ed accanto a lui i
               dottori parlavano di tecnologie avanzate, di farmaci
               mirabolanti, di circolazione extracorporea, che
               avevano pian piano restituito al suo sangue il calore
               vitale al quale il suo organismo si era aggrappato
               disperatamente e tenacemente, con tutte le sue forze.
               Ma
               il vecchio Maurice ci credette solo in parte. Le rughe
               del suo viso di cuoio si spianarono per un attimo in
               quello che ai presenti sembrò l'abbozzo di un
               sorriso, mentre, fugacemente, gli passò per la
               mente che il vero calore che lo aveva tenuto in vita
               arrivava da ben più lontano, da quei sapori che
               venivano dal passato e che quella figura evanescente,
               là, in lontananza, aveva, ancora una volta,
               voluto preparare per lui.
               
               
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