- Accade
per caso, forse per uno strano caso, ma una notte ti
svegli e non c'è più nulla che voglia
stare al suo posto. Tutto intorno a te ha mantenuto la
sua posizione, precisa, statica, immobile, tutto
intriso di fissità e spalmato di silenzio,
tutto, o meglio, quasi tutto. Uno sguardo oltre. Di
lato alla tua vita, dentro di te, non c'è
più nulla che voglia stare al suo posto,
pensieri, immagini e i sogni, neppure quelli sembrano
più aver voglia di stare in quel posto in cui
tu li avevi messi pensando che fosse il loro. E
giocano a perdere la loro posizione. Accadde per caso,
forse un caso davvero strano, ma una notte mi svegliai
e non c'era più niente che volesse stare al suo
posto. Così restai sveglia a veder passare i
miei pensieri, le mie immagini ed anche i miei sogni.
Loro, i miei sogni finiscono sempre per confondermi,
mi nascondono e poi mi perdono, come fumo negli occhi.
Accadde, forse solo questo, accadde. Accadde che un
giorno lo incontrai, lo incontravo spesso a dire il
vero, ma forse, quel giorno, i miei pensieri si
stavano posando chissà dove, lontano da me
lasciando un po' di spazio in più a me stessa,
come durante un'eclissi. Non ricordo come me lo
ritrovai seduto davanti, nel sole pallido d'inverno. I
capelli sugli occhi e il naso puntato sempre verso
qualcosa, come se fosse un mirino, la sua bussola,
come se cercando un qualcosa che di continuo gli
sfuggiva, decidesse in ogni istante di cercarlo
là, alla fine del suo naso, nella direzione che
lui gli suggeriva, come una specie di rabdomante.
Parlava, forse con me. Forse, perché i suoi
occhi anche se diretti verso il mio viso, non
guardavano propriamente me, era come se stessero
guardando dentro se stessi. Lui non stava guardando
me, ma l'immagine di me che aveva dietro ai suoi
occhi. Così il suo sguardo sembrava rimanere
sospeso, sembrava non posarsi mai, sembrava finire con
il finire dei suoi occhi. Parlava, ma di ciò
che stava dicendo adesso ho solo un ricordo confuso e
intermittente, parlava di poesia. "Scrivere è
uno stare soli oltre che un essere da soli... scrivere
è l'unico modo che ho per fissarmi negli occhi,
per dare colore e suono al mio sguardo nudo, dare
colore e suono con le parole... ah, poter chiudere gli
occhi e sognare, ci sono pensieri che crediamo
impossibili, senza considerare che
l'impossibilità è incredibile solo
perché non è creduta, e che la
realtà è credibile solo perché
tutti ci credono, basterebbe sforzarsi un po' di
più per credere alle cose impossibili, per
renderle reali, perlomeno nel pensiero...". Parlava,
ma io non ascoltavo le sue parole, le vedevo, il mio
sguardo fisso sulle lame bianche dei suoi denti, le
guardavo tagliare l'aria, affacciarsi e sparire dietro
la voce, precise e matematiche, come un metronomo. La
sua voce mi arrivava come un suono, impastata come il
rumore di qualcosa che non riconoscevo. Nella memoria
di infiniti rumori e suoni cercavo l'immagine che mi
avrebbe permesso di dare un nome anche a quel suono, e
forse al buio l'avrei trovata, ma alla luce di quel
sole, con quel metronomo davanti agli occhi, i miei
pensieri faticavano ad aggrapparsi a qualsiasi
immagine. Non so di preciso per quanto tempo restai
immobile nella assoluta consapevolezza di non riuscire
a dare un'immagine ed un nome a quel suono, e non so
quanto questo mi facesse rabbia, infine stanche, la
mia mente ed io, smettemmo di cercare. Strano, forse
il termine giusto non lo troverò mai, neppure
nella pesante saggezza del mio vocabolario
etimologico, esterno, estremo, violento, estraneo, no,
non estraneo, forse solo strano. Fece un gesto, uno
qualsiasi, uno di quelli che si fanno per caso,
così senza pensarci, per questo necessari e
veri. Portò la sua mano attraverso il viso fin
sui capelli, impedendomi per un attimo di scorgere il
tagliare lento delle lame bianche del suo metronomo,
poi le sue dita si appesero ai capelli tirandoli fin
dietro alle orecchie, un secondo in tutto. Un gesto
stupido e banale, un secondo e i miei occhi non si
staccarono più dalle sue mani, dal loro
movimento estremo, violento, esterno... forse solo
strano. Ormai avevo perso troppe parole di ciò
che diceva, impossibile trovare il filo, per cui
lasciai il metronomo dove era, smisi di correre dietro
al significato singolo delle sue parole, scelsi di
ascoltarne solo il suono e di guardare lo strano
fenomeno del muoversi delle sue mani. Propriamente
è sbagliato dire che lui muoveva le mani, di
fatto non le muoveva, le spostava. Di continuo, da una
posizione ad un'altra, da un luogo ad un altro, come
se avesse saputo da sempre dove dovevano andare e
quale posizione raggiungere per ripartire nuovamente
per. E le spostava con necessità, come se solo
così avessero potuto muoversi, non c'erano
movimenti inutili, le sue mani si spostavano, si
fermavano, ripartivano guidate solo dalla
necessità di farlo. Aveva qualcosa di ipnotico,
di magico forse, nello spostare le mani, nel toccare
tutto con una certa indeterminatezza, ora
leggerissima, a volte violenta, come se non riuscisse
a trattenerle, vibravano lente e velocissime,
facendosi spazio in mezzo all'aria. Mi tirai un po'
indietro appoggiandomi allo schienale della sedia,
sprofondando un po' in essa e un po' in me. Questo mi
permise di vederlo, forse per la prima volta per
intero. Mi accorsi del modo insolito di stare su una
sedia, la sua postura decisamente bizzarra, gli
impediva di stare seduto in maniera vera e propria,
più che seduto si sarebbe detto che era appena
appena appoggiato, solo in due punti il suo corpo
toccava la sedia rispettivamente agli estremi della
seduta e dello schienale. Lo avresti detto in bilico
se non fosse stato così leggero in quella
posizione, con la schiena curvata in maniera strana,
come se stesse tirando indietro il cuore, e tutto il
resto disteso come i fili della biancheria ad
asciugare, e proprio come se fosse in balia del vento
sembrava vibrare di un'energia mal controllata, tutto
proiettato in avanti, solo il cuore restava indietro
come a fargli da contrappeso. Le gambe invece
sembravano non appartenergli affatto, erano fisse,
immobili, non vibravano come tutto il resto, come se
sulle sue gambe avesse avuto un gattino da non
svegliare. La prima cosa che noti, in un uomo
così è che le mani ce l'ha dappertutto,
o meglio, ovunque, e per ogni ovunque delle sue mani
lui sapeva il tempo, il ritmo, la posizione da
eseguire, come una sinfonia. Parlava ed io avevo ormai
smesso di ascoltarlo da un sacco di tempo, ma avrei
voluto che parlasse in eterno, per poter continuare a
guardarlo, assolutamente legata all'immagine di lui di
fronte a me. Poi successe qualcosa, qualcosa a cui io
non avevo pensato, in un istante il suono si era
interrotto, non so per quanto tempo siamo stati con
quel silenzio lì in mezzo fra me e lui. Si
fermò il metronomo, tutto in lui si
fermò, ed io non avevo mai ascoltato un
silenzio così, non esiste un silenzio
più forte di quando viene creato, e lui lo
creò, fermando il metronomo, fermando le mani e
la vibrazione del suo corpo, allo stesso modo di come
creava una sorta di musica nel vivere, così
creò un silenzio semplicemente
fermandosi.
- Improvvisamente
mi ritrovai il suo silenzio di fronte, di fianco,
addosso e dentro, soprattutto dentro. Era come
rimanere sospesi con i piedi oltre l'orlo di un
precipizio, si può cadere o rimanere
così in eterno, senza mai scendere. Lo vidi
chiudere, riaprire, chiudere le palpebre, con una
lentezza impropria, aveva lasciato la sua bocca
lì, quasi chiusa, e attraverso quel quasi
intravedevo le lame bianche del suo metronomo, ferme,
nell'assurda fissità di un orologio a pendolo
lasciato scarico. Tutto sospeso, lui, me, e tutto
quanto può starci lì in mezzo, anche un
sogno, anche due occhi.
- Lo
incontrai per caso, forse davvero solo per caso, nel
buio di occhi chiusi, nel rumore di occhi chiusi
forte, nel silenzio, di notte, come quando di notte
chiudi forte gli occhi, per lasciare fuori il resto,
per abbandonarlo, per non ricordare quello che
c'è, che vive al di là delle palpebre,
intorno alle ciglia.
- Accadde
per caso, accade sempre e solo per caso, che il
silenzio diventa indispensabile per riuscire ad
ascoltare. In un momento ho chiuso gli occhi forte, ne
ho sentito il suono, allo stesso modo in cui un
pittore sordo dipinge il rumore delle stelle, allo
stesso modo in cui uno scrittore cieco vede i suoni
del tramonto e dell'alba, allo stesso modo in cui ho
sentito il battito del mio cuore, lo sbattere delle
palpebre ed il rumore dei miei occhi chiusi
forte.
- Qualcosa
era necessariamente cambiato, ma cosa? Il silenzio
sì, quello prima non c'era, ma non era quello,
forse la luce. Il sole non c'era più da
chissà quanto tempo, al suo posto nuvole nere,
nuvole strane, non erano le nuvole che vedi d'inverno,
me ne accorsi dallo spegnersi della sua immagine
davanti a me, dal rabbuiarsi dei riflessi, immobili i
suoi occhi parevano accendersi della luce sparita,
come del ricordo del sole. Immobili i suoi occhi e me,
mi sentivo cadere, anzi precipitare, un acquazzone
iniziò gocciolando piano e pesante su di lui e
forse, anche su di me. Era inverno e nessuno ci fece
caso, ma quella non era pioggia invernale, per quanto
sia difficile capire come, quello era un temporale
estivo. Ricominciò a parlare, con lo sguardo
fisso sulle immagini dietro agli occhi, con la
precisione del suo scandire di metronomo e il vibrare
di tutto il suo corpo, con l'immobilità delle
sue gambe. Ed io avrei voluto vedere la pioggia dietro
ai suoi occhi, sentire il suono che per lui suonava il
temporale, e intanto l'acqua mi precipitava dentro. I
miei pensieri erano fradici. Pensavo agli aquiloni, a
quelle cose che volano legate ad un filo, unite da
quel filo alla terra, quelle cose apparentemente senza
significato, gli aquiloni sono sogni prigionieri della
realtà, legati ad un filo che li unisce al
cielo, reale ed irreale intrappolati l'uno nell'altro.
Sono un paradosso gli aquiloni, il più grande
paradosso, incatenati sia al cielo che alla terra, non
potendo muoversi se non a metà, riuniscono in
se tutto il possibile, sia in cielo che in terra, sono
in entrambi senza essere in nessuno dei due, gli
aquiloni, forse, sono solo la manifestazione
dell'impossibilità, potendo fare ogni cosa non
possono fare nulla di più che stare a
metà, stare in bilico. Pensavo agli aquiloni
come protuberanze della terra verso il cielo, come
estensione del cielo verso la terra, senza mai
raggiungersi, cielo e terra, si sfiorano solamente
negli aquiloni, nel loro volare silenzioso. Gli
aquiloni sembrano intonare la loro forma all'anima di
chi li guida, quasi fossero un prolungamento del corpo
che permettesse di avvicinarsi un po' al cielo, quasi
l'anima continuasse verso il cielo ed il corpo la
trattenesse a se, alla terra. Pensavo, e desideravo
essere un aquilone legato solo al cielo, senza terra,
in ogni dove, legata solo dal vento. Forse fu una cosa
buffa per chi la vide quel giorno, passando sotto gli
ombrelli, dentro ai cappotti, facendo l'equilibrista
fra una pozzanghera ed un'altra, forse. Perché
forse nessuno ci fa caso a cose come queste, in fondo
eravamo due persone sole, l'uno di fronte all'altra,
con la pioggia in testa e dietro gli occhi la musica e
gli aquiloni, nessuno fa caso alla musica quando
c'è il temporale, e nessuno fa caso agli
aquiloni, nessuno si preoccupa se la pioggia d'estate
cade anche in inverno. Immobile come gli alberi
d'inverno, incantata come un vecchio quarantacinque
giri, la mia anima scivolò nell'umidità
di pioggia, scivolò e si infranse, perdendosi
in una pozzanghera. La mia anima, la persi forse in
quell'istante. E me ne stavo immobile senza cercarla,
a veder uscire musica da quell'uomo, sarà stato
il controluce del sole che si era ritagliato un
posticino tutto suo fra il dissolversi delle nuvole,
saranno stati gli occhi pieni di pioggia, o i pensieri
fradici, ma la vidi. Vidi la musica che gli usciva
dappertutto, gli usciva da dentro, con lo sforzo
minimo con cui una farfalla sbatte le sue ali, lui
suonava chissà quale musica, e per un attimo mi
sembrò di sentirla, dentro la testa, una nota,
la sola che io abbia mai sentito davvero.
- Accadde
per caso, accade sempre per caso, che in un momento
qualsiasi io mi sono ritrovata tutti i miei sogni
davanti, e credevo di averli dimenticati, e invece mi
accorgo che forse erano loro che avevano dimenticato
me. A volte basta una sola nota a incrinare il
silenzio, una nota basta appena ad essere per sempre,
una nota sola è già abbastanza ad essere
per sempre, un silenzio incrinato, a volte basta una
nota ad incrinare il silenzio, un lampo ed il buio
è diviso in due.
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