Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Diana Dalsgaard
Con questo racconto ha vinto il decimo premio all'edizione 2007 del Premio Marguerite Yourcenar.



Signor D.


"Tu non vieni più a dormire?" La voce suonava timida e stanca.
"Lasciami stare, che cavolo, non vedi quanto lavoro ho ancora da fare? Tu vai a letto, io resto qui."
"Va bene, allora vieni quando avrai finito. Buona notte!"
 
Brontolava indisposto, seppellito in un mare di carte sparpagliate sulla scrivania, cadute sul tappeto, mischiate tra le pagine dei libri aperti, con i fogli usati dallo sfogliare in continuazione.
D'estate o d'inverno, l'appartamento puzzava sempre di aglio e di fumo di sigaretta. I bambini erano andati a letto da parecchio tempo, il chiasso dei vicini aveva cessato di farsi sentire tra i muri sottili. Non gli rimaneva nient'altro da fare che uscire sul balcone, con gli occhi alle stelle, con il beretto di lana in testa, per fumare l'ultimo mozzicone prima di coricarsi. Con i gomiti appoggiati alla ringhiera arrugginita, dove i piccoli appena arrivavano col mento, seguiva il suo rito giornaliero, studiava il cielo, tossiva, guardava a destra, poi a sinistra, in giù, verso il tiglio tra i cui rami le cornacchie si erano fatte il nido con quello che era rimasto da un maglia di cotone e i frammenti di una busta di plastica strappata dal vento.
Le cose erano abbastanza semplici per il Signor D. Doveva scoprire il meccanismo di questa equazione, vincere l'aspettata borsa di studi a Parigi, guadagnare un po'meglio, finire di zappare il pezzo di giardino dalla periferia della città, il terreno che aveva acquistato impulsivamente per l'amore dei figli, nel caso dovessero rimanere in questo paese. Come si impostavano le cose ora, non era più facile vivere. Il natale non era più natale, la pasqua non era più pasqua, la macchina vecchia ormai da quattordici anni le creava problemi, le vacanze trascorse al mare costavano più che le bollette della luce per un anno. Anche la salute iniziava a guastarsi, il cuore batteva più raro, estenuato, si stancava di colpo e il naso aveva iniziato ad assottigliarsi verso la punta. I capelli erano diventati più bianchi in un anno che non nei cinque di prima, sembrava gonfio, teso, sempre pronto a prendersela con tutti. Bastava un infime pretesto per farlo innervosire e si scaricava con tutti quelli che gli stavano accanto:
" Dove mi avete messo le penne che avevo sopra la scrivania? Non riesco a trovare più niente in questa casa! Ma quante volte vi devo dire di badare alle vostre cose e di non toccare più le mie!"
" Lascia stare per questa volta, prendine una dalla mia borsa", rispondeva Emilia, attenta ai compiti che doveva correggere.
" Non si può andare avanti così, perché ti rifiuti di capire?" gridava. "Se li lasci giocare tutta la giornata e di mettere mano su cose che non sono loro, li rovinerai completamente! Questi non hanno già nessun rispetto per me, che sono loro padre! Che diavolo, li stai insegnando a mettersi contro di me! A diavolo con questa democrazia, che le è salita in testa! Io quando avevo la loro età, non osavo alzare lo sguardo di fronte al babbo, figuriamoci frugare tra le cose che non erano mie...
 
E questo era vero. Da giovane era cosi premuroso a non toccare cose che non erano sue, personali, che da quando aveva iniziato a portare i cavalli a pascolare non si prendeva il bastone del vecchio, anche se forse con questo gli sarebbe venuto più facile frenare la corsa delle bestie, mettendolo di fronte al petto e sbarrandole la via quando se la davano a gambe, gridandole nelle orecchie di fermarsi. Invece li lasciava liberi di andarsene ovunque volevano ed i cavalli sapevano apprezzarlo, tornavano correndo con le code al vento la sera, quando finivano di giocare e di mangiare. Venivano con lo stomaco pieno, gonfiato dall'erba, e lo trovavano chinato su se stesso, graffiando la terra con una verga, intento a risolvere alcuni problemi di matematica dal grosso libro che portava sempre con sé. Anche da allora non sapeva nient'altro all'infuori della scuola e scappava ogni tanto in città per passare di nascosto gli esami, con la paura che il vecchio l'avrebbe scoperto un giorno.
 
Quando l'ho conosciuto io, gli occhi gli brillavano già come la superficie di una provetta nella luce artificiale del laboratorio. Aveva incominciato a tacere più a lungo, si era rifugiato nel suo mondo. Parlava con se stesso a voce bassa, mormorava delle formule, controllava che fossero corrette, si incrociava gli occhi con la concentrazione durante gli esperimenti. Raramente poteva essere portato via dai commutatori e dagli schemi elettrici. Era diventato anche lui quasi un'onda magnetica, attirava solo dei commenti maliziosi.
"Una vita sprecata", dicevano tutti che lo conoscevano e ad un certo punto avevo cominciato pure io a crederci. Dove erano i risultati straordinari, le scoperte tanto attese, il genio mostrato quanto aveva vinto tutte le olimpiadi internazionali, dove era la speranza dei vecchi professori dall'università, che gli avevano predetto un futuro d'oro quando si era laureato magna cum laudae ventiquattro anni addietro?
 
Quando aveva abbandonato l'insegnamento a favore della ricerca, Emilia l'aveva sostenuto con tutte le sue forze. Ma adesso, le cose non andavano così bene a casa. Con lo stipendio di insegnante, che aveva lei, appena arrivavano a fine mese. I vicini mostravano più rispetto a N., il proprietario di un panificio, con appartamento nella loro stessa scala, al secondo piano e con una macchina dell'ultimo modello nel parcheggio. Nessuno lo interpellava più con 'Egregio professore'. Da quando spendeva la maggior parte del tempo nel laboratorio anche gli studenti facevano finta di non conoscerlo, vendicandosi così per la fama di persecutore che si era costruito anni prima, bocciandoli agli esami con la sua caratteristica severità se non erano abbastanza preparati.
 
Era primavera e sui rami degli alberi sbocciavano le prime foglie. L'aria era carica in attesa di un rovescio veloce, di inizio aprile. L'avevo visto attraversando il cortile della facoltà, diretto verso l'ingresso di dietro. Camminava con grandi passi e in qualche modo appesantito. Nella mano sinistra teneva la solita borsa vecchia, scoppiando di carte e che dondolava toccandogli il cappotto, al quale non aveva ancora rinunciato nonostante la temperatura mite. Da sotto il berretto logoro, indossato per nascondere una bizzarra cicatrice sulla tempia destra, alzò verso di me uno sguardo indifferente, dove intravidi però una breve scintilla quando mi riconobbe.
 
"Ehi, come sta, è da tanto che non ci siamo incontrati! Come va con la 'scuola'?
A quel tempo mi preparavo il dottorato in fisica quantica a Bucarest.
"A posto, prof, non mi posso lamentare. Lei?"
"Al solito, ci sto provando, ho avuto delle difficoltà, ma penso che finalmente sono sulla buona strada. Lo sai, le mie equazioni... Sto dando il meglio, forse riesco a prendere finalmente la borsa a Parigi... l'eterna storia senza fine! Almeno lo faccio per i bimbi, forse loro potranno godersi questa vita meglio, avere altre possibilità. Che ti posso dire?"
"Andiamo, le possibilità ci saranno, non può andare tutto storto", mentivo.
Alzò la mano, seccato, per interrompermi, cominciò a parlarmi di alcuni progetti iniziati tempo fa e abbandonati, ora ripresi con nuove forze. Mi sforzavo di seguirlo, mi affascinava il modo in cui narrava, come i processi che descriveva seguivano un filo logico, impossibile da comprendere per altri. Mentre parlava, aveva iniziato a muovere le mani, le braccia si ruotavano in aria descrivendo semicerchi, tagliandola, le palme cadevano in cadenza su una superficie immaginaria, parlavano nel loro stesso linguaggio con una grazia difficile da indovinare in un corpo così ponderoso come il suo. Mi lasciavo impressionare di nuovo, come ogni volta prima, dalla timidezza che la sua presenza imponeva su di me, intimorito e cosciente della mia inferiorità, dal fatto che non avevo e non avrei mai ottenuto la chiave che D. possedeva senza rendersene conto. La sua straordinaria intuizione faceva sì che anche i più complicati enigmi della scienza sembrassero delle bagattelle, un semplice gioco da bambini.
 
Si fermò bruscamente e mi guardo dritto negli occhi:
"Guarda, vuole sapere una cosa? Lei mi piace. E' da tempo che non ho incontrato qualcuno che riesca a seguire ciò che dico io. Mi sembra che mi capisca. Forse qualche volta potrebbe venire a trovarmi, le mostrerò il giardino."
"Il giardino?" Mi ero distratto per un istante e adesso, sconcertato, ricevevo una proposta che mi sembrava assurda.
"Sissignore, un paio di mesi fa ho comprato un terreno in collina a poca distanza da qui, penso a sette chilometri. Non è un granché, ma adesso che il tempo migliora... Sa come è, io sono cresciuto in campagna. L'abbiamo acquistato con i soldi che ci ha lasciato una zia di mia moglie, mi è sembrato un buon investimento. Non si sa mai. Qualche volta mi rilasso a stare un po' nella natura. Ho piantato anche qualche cosa, due- tre prugni. La sera, quando sono lì, guardo le stelle. Mi faccia sapere prima se viene, così mi prendo il telescopio, vediamo le costellazioni per come si deve. Non cambierei questo per niente al mondo! Lei adesso è impegnato col dottorato, io non esco più dal laboratorio, penso che non ci farebbe male, non è vero?"
 
"Sicuramente no, signore. Accetto con piacere il suo invito. Però, per adesso ho alcuni capitoli che devo assolutamente finire, forse dopo la consegna... "
"Certo, l'aspetto con tanto piacere. Ma non si deve dimenticare di chiamare prima. Mi fa piacere che lei è una persona di parola. La saluto, tante cose!"
Che cosa l'aveva spinto a invitarmi adesso, mi sforzavo a capire. Avevo tanto lavoro, studiavo giorno e notte, mi preparavo per l'esame finale. Mi ero quasi scordato della promessa fatta, ma l'invito non ha, comunque, trovato l'occasione per materializzarsi.
 
A fine maggio stavo mettendo in ordine alcuni scaffali impolverati nella sezione di fisica atomica della facoltà. Stavo scegliendo delle riviste di specialità che dovevano essere cestinate, in quanto non più attuali. Una di queste attirò la mi attenzione. Penso fosse una delle prime ad aver pubblicato alcuni articoli di D. Mi capitò semplicemente tra le mani e, senza capire il perché, non mi veniva di metterla da parte.
Avevo iniziato a sfogliarla, ero completamente assorto nel leggere uno schema su una pagina quando, dalle pagine ingiallite, una busta intestata cadde sul tappeto. La presi e, aprendola, sentii il cuore che iniziava a battermi più forte. Era indirizzata a D.
In corsivo, c'era scritto, tra altro:
 
"Per i risultati eccezionali ottenuti nella Sua ricerca e per il valore e l'unicità delle pubblicazioni inviateci, così come mostrato dalla abbondante documentazione che avete allegato alla lettera in cui ci richiedevate il posto, siamo onorati ad invitarvi a far parte dello staff di ricerca del nostro istituto. In allegato vi inviamo i moduli riguardanti il rimborso delle spese di viaggio, l'alloggio e tutti gli altri aspetti finanziari assieme alle previsioni del suo contratto, che pregasi compilare e ritornare al più presto per conferma definitiva... ".
 
Tanti saluti, eccetera... La borsa di studi a Parigi si era trasformata in un impiego approvato tanti anni prima. Perché non l'aveva accettata e che cosa gli aveva impedito di trasferirsi, di aprire una strada per se e per la sua famiglia? Perché aveva mentito se stesso per tanto tempo?
Il terreno era l'unica spiegazione che mi veniva in mente. La terra sulla quale si stendeva, con la mano sotto la testa, a seguire il cammino delle stelle.
 
Non mi ricordo che cosa ho fatto per il resto del pomeriggio. Non mi ricordo l'estate successiva. In autunno, ho ottenuto il titolo di dottore. Ma non ho rivisto mai il Sig. D.
Penso che non avrò mai un risposta concreta.
Lo abbiamo perso in una giornata piovosa di settembre. Si era sentito male ultimamente, sembrava di aver avvertito qualcosa. Si stancava ancora più spesso, non vedeva bene. Sono venuto a sapere, tramite un conoscente, che si era riconciliato con persone con le quali aveva litigato da anni, due giorni prima di quello che sarebbe accaduto.
Quella mattina, tutto era strano. Emilia stava preparando il caffé dentro la cucina, quando notò che i fogli del piccolo ibisco che D. aveva curato per due anni si erano di colpo ingiallite ed erano incominciate a cadere come delle ali fredde nel vaso dove questo era piantato. Si era voltata parlando stupefatta a voce alta per svegliarlo e raccontargli il fatto, ma lui già non c'era più. Il viso tirato e impallidito da una sofferenza che gli aveva fatto esplodere i vasi delicati del cuore in mille pezzi assomigliava uno di quei fogli stropicciati, appassiti prematuramente.
 
Non sono andato al funerale, ma mi è stato detto cha al cimitero quella espressione gli si era cancellata dal viso. Mostrava invece un' incanto e una serenità con le quali sorrideva alla terra che inghiottiva affamata e accogliente l'uomo che una volta le aveva incrostato sulla superficie le sue equazioni con una verga. Da qualche parte, anche i cavalli e il vecchio, andati tanto tempo prima, lo aspettavano.
 
Ulteriormente la famiglia si è trasferita in un'altra città. Emilia ha venduto il terreno.
 
Ogni qual volta passo dalla periferia, accanto al cimitero, è sera. Sul cielo scuro le stelle brillano.


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 Ins. 30-11-2007