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               NON
               PIOVERA' PER SEMPRE
Quando
               faticosamente riaprii gli occhi un fascio di luce
               chiara accolse il mio sguardo. Sentivo le palpebre
               pesanti dischiudersi lentamente, le stesse che fino a
               poco prima mi celavano alla vita, accoglievano
               nuovamente forme e colori, mi apprestavo a ritornare a
               vivere, ad assaporare il mondo. Dapprima la vista
               faticava, probabilmente anche perché la mia
               testa era appesantita da una leggera emicrania, mi
               sentivo come intontito, uno stato di confusione
               aleggiava nella mia mente. Mi sentivo inerme. Il corpo
               era attraversato da un fastidioso formicolio ed ero
               parzialmente impedito nei movimenti. Pensai che forse
               avevo l'influenza, così tentai di portare la
               mano alla fronte in modo da costatare la temperatura
               corporea, un gesto meccanico che, in un periodo
               normale, avrei compiuto con facilità, mi
               sembrò, invece, una delle dodici fatiche di
               Ercole. Solo nel compiere quel movimento, mi resi
               conto di avere dei tubicini che mi impedivano un
               movimento lineare. L'altra invece era tenuta stretta
               da una mano grassoccia e sudaticcia, leggermente dura
               e callosa, era sicuramente quella di mia madre, la
               riconoscevo dai segni di fatica che sulle mani,
               più che mai, testimoniavano quanto lei fosse
               una donna sacrificata al lavoro e alla fatica per i
               suoi figli. Non mi meravigliavo della sua presenza,
               lei era sempre stata per me come una presenza costante
               non invadente ma sempre vicina nei momenti difficili.
               Quel che mi chiedevo era: Cosa mai ci facevo in quelle
               condizioni? Dove mai mi trovavo? Guardai, finalmente,
               con attenzione l' ambiente in cui ero, mi accorsi di
               avere intorno a me molte macchine che misuravano la
               pressione e battito cardiaco, altre ancora il cui
               scopo ignoravo. Avvertii in quel momento il suono
               stridulo del classico "bip" che segnala il battito del
               mio cuore. Mi trovavo in una sala di un ospedale, di
               quelle classiche che tante volte avevo visto in E.R.
               Una camera spoglia, un letto scomodo, pochi elementi
               di arredamento, molti macchinari strani da film di
               fantascienza. Man mano riacquistavo il controllo dei
               sensi, così avvertivo particolari nuovi. Sentii
               l'odore pungente e tradizionale, quello che si
               insinua, spiacevolmente, nelle narici, quando si entra
               in una struttura sanitaria, quella mistura di
               medicinali, disinfettanti e sterilizzanti. 
               Mi ero svegliata da un lungo sonno, ero come rinato a
               nuova vita, consapevole di avere un passato confuso,
               disordinato, scosso e vago, un passato da cui
               pretendevo nitidezza nei particolari, da cui
               pretendevo una spiegazione plausibile alla mia
               situazione precaria, e il fatto che non ero capace di
               chiarire i miei pensieri mi innervosiva ancora di
               più.Tentai
               di alzarmi a mezzo busto, ma sentii come una spada
               conficcarsi violentemente nel petto; una scossa
               fulminante, che per un attimo mi stroncò il
               respiro. Mi abbattei supino e affannato sul letto,
               mentre mia madre di soprassalto si destò. Con
               voce ansiosa mi chiese dell'accaduto, ma io non potevo
               far altro che stringere i denti, mentre con il respiro
               affannoso, tentavo di resistere a quel dolore, che
               allucinante e inimmaginabile mi affliggeva il petto.
               Avevo la sensazione che il cuore fosse straziato da
               una stretta lancinante. Quasi come per appurare che il
               mio pensiero non fosse esatto, portai il palmo della
               mano al petto e sentii al tatto una medicazione
               spessa. Mia madre, che non riceveva da me altra
               risposta che gemiti sofferti e respiri affannosi,
               allarmata dal mio comportamento e dal "bip", del
               macchinario che controllava i battiti, che diveniva
               sempre più incalzante, chiamò subito gli
               infermieri che simultaneamente accorsero poiché
               credevano fossi preda di una crisi
               cardiaca.In
               quei minuti lacerati dal dolore, in cui ogni secondo
               mi appariva un'eternità, ebbi d'improvviso uno
               sprazzo di memoriaRicordai
               quella sensazione di solitudine e di abbandono di
               quella sera, una sensazione di vuoto incolmabile, che
               tentai di riempire con bicchieri di drink, che uno
               dopo l'altro si susseguivano ininterrottamente.
               Speravo di affogare le mie preoccupazioni nell'alcol.
               Ricordai quella sensazione di benessere, quando
               finalmente fui sollevato dalle mie sofferenze, quando
               ebbi dimenticato i pensieri angoscianti che mi
               affliggevano, o meglio quando furono offuscati
               dall'alcol, quando mi sfuggì il controllo di me
               stesso e delle mie azioni. Poi,
               quando l'alcol perse il suo effetto di illusorio
               appagamento psicofisico e mi scaraventò in un
               impressionante vortice di malessere, i cui effetti
               nauseabondi influirono sul mio umore tanto da far
               scomparire sia il sorriso, sia l'atteggiamento
               canzonatorio verso il mondo, che la sfrontata
               sicurezza in me stesso, capii, allora, che era meglio
               far ritorno nel focolare domestico, dove le amorevoli
               cure di mia madre mi attendevano.Non
               ero sicuramente nelle condizioni ideali per guidare,
               ma non mi interessava, ormai, nulla del mondo, delle
               sue regole, né di me stesso, che sapevo di
               esporre a un pericolo, ignorai i segnali e i
               suggerimenti della mia coscienza e mi misi alla guida,
               poiché l'importante era trovare sollievo ai
               miei dolori e in alternativa all'alcol vedevo
               solamente l'amore materno.Sfrecciavo
               ad alta velocità sull'autostrada. Mi sentivo
               galvanizzato dal rombo del potente motore, che udivo
               diffondersi alle mie spalle. Credevo di essere il
               padrone dell'asfalto, mentre, elettrizzato e
               orgoglioso del mio esibizionismo, non mi accorgevo di
               quanto la macchina sbandasse, accompagnata da un
               ripetersi di stridule sgommate, che allarmavano gli
               altri guidatori e i loro passeggeri, i cui richiami
               fingevo di ignorare. Sapevo di sbagliare, ma un
               istinto suicida mi induceva ad aumentare la
               velocità, una vocina maleficamente tentatrice
               mi suggeriva di annullare i sensi di colpa e le paure
               e di superarle sull'asfalto. D'improvviso,
               però, ebbi un violento capogiro, un vertiginoso
               senso di sbandamento ed una sensazione di nausea,
               sentivo le forze abbandonarmi e avevo la percezione di
               essere sul punto di svenire. Per quanto costringessi i
               miei occhi a rimanere aperti e la mia attenzione a
               rimanere costante, la vista mi si offuscò per
               qualche secondo, mi sfuggì il controllo
               dell'auto, che finì irrimediabilmente nella
               corsia opposta. Un fascio di luce mi accecò, un
               suono assordante di clacson mi assordò, tentai
               di evitare quell'indistinta forma quasi
               istintivamente, ma i miei tentativi furono certamente
               vani poiché dopo un gigantesco rimbombo e una
               sensazione di terrore che mi assalì, non
               ricordai più nulla.
               "Un paziente dalle condizioni così precarie non
               può assolutamente affaticarsi, soprattutto dopo
               un intervento tanto delicato e pericoloso quanto
               quello di sostituzione di un organo vitale come il
               cuore, bisogna che lei resti pazientemente a riposo
               finché la situazione non si sarà
               assestata e avrà ripreso le sue condizioni di
               salute ottimali." I
               miei ricordi furono interrotti dalla voce acre, acuta
               e penetrante, di un dottore di piccola statura,
               grassoccio e buffo, che con gli occhialini bassi sul
               naso aquilino, leggeva silenziosamente la mia scheda
               medica, scuotendo il capo con fare
               saccente.Quando,
               finalmente, potei allontanare la mano dalla
               fasciatura, poiché il dolore era finalmente
               degradato di intensità, fino a diventare un
               semplice fastidio, ritornai alla situazione iniziale
               di stanchezza diffusa per tutto il corpo e di
               irritante stordimento.Guardai
               il dottore con aria interrogativa, poiché avevo
               compreso cosa mi era accaduto, una bravata mi era
               quasi costata la vita, avrei potuto non vedere
               più i colori vivaci di un prato in fiore, avrei
               potuto non annusare più l'odore intenso di
               salinità in prossimità del mare, avrei
               potuto non assaporare più la dolcezza di un
               bacio, o semplicemente non avrei più potuto
               vedere la luce del sole.Era
               questa, dunque, la sconvolgente spiegazione della mia
               situazione. Quelle parole, dette con una tale
               semplicità e leggerezza, mi spiazzarono, sentii
               dentro di me come un'infrangersi fragoroso della mia
               anima, nella mente, stanca, echeggiavano quei suoni
               mentre dentro di me dominavano sovrumani silenzi.
               Ormai consapevole, socchiusi gli occhi e riportai la
               mano al petto nel tentativo di udire l'esile voce di
               quel cuore, che sapevo, non essere più il mio.
               In silenzio guardavo nel vuoto, ignorando i presenti e
               le loro domande. Il contesto fu come oscurato; le
               voci, i suoni, gli odori e le figure che pochi secondi
               prima avevo temuto di non poter più godere, mi
               parvero indifferenti. Immobile, ascoltavo la voce dei
               miei pensieri, che lenti e inesorabili scorrevano come
               per imprimere dentro di me quelle parole, come per
               convincermene poiché quasi non ci credevo.
               Mi
               imponevo di non incolparmi, ma una parte di me si
               distaccava dalla mia entità e con voce gelida e
               distaccata, sembrava godere nel vedermi soffrire, ogni
               qualvolta mi sussurrava qualche frase semplicemente
               distruttiva per il mio ego. Mi bisbigliava quanto il
               mio sfuggire ai problemi, quanto la mia testarda
               pusillanimità non avesse portato che a ledere
               gli altri e me stesso, fino a condurmi a perdere una
               parte di me, fino ad accompagnarmi lungo la strada del
               declino. Temevo, infatti, che quello era l'inizio di
               un'irrimediabile discesa, ed era questa la cosa
               più grave, poiché tante volte,
               sfogliando annoiatamente riviste e giornali, avevo
               letto sommariamente di vicende di giovani e bambini
               che attendevano da anni l'occasione di un trapianto di
               organi, la possibilità, anche se lontana, di
               intraprendere una nuova vita. Avevo vilmente privato,
               anche se involontariamente, una di quelle anime
               sofferenti della gioia di una vita sana, avevo
               estirpato un sorriso dalle loro labbra.Nei
               giorni successivi preferii vivere nel silenzio,
               nell'attesa di scorgere una luce che mi conducesse
               alla speranza, avevo, in fatti, perso la stima di me
               stesso.Quando
               mi fui finalmente ripreso, potei tornare a casa. I
               medici mi strinsero la mano con affetto, dopo i giorni
               difficili che avevo passato lì tutti si erano
               affezionati a me, ed io a loro. Prima di andarmene mi
               consigliarono di prendere un taxi e di rimanere
               comunque a riposo, ma io preferii fare una lunga
               passeggiata, sorretto e accompagnato da mia madre.
               Scelsi di camminare per avere un primo contatto con il
               mondo dopo i giorni interminabili trascorsi in
               ospedale, almeno era questa la versione data a mia
               madre, in realtà, inconsciamente, volevo
               evitare un qualsiasi contatto con un'auto, temevo,
               quella che io giudicavo, una macchina infernale.
               Stavolta non volevo assolutamente nuocere a nessuno,
               né a me stesso, ma soprattutto a mia madre che
               era la mia unica parente e la mia unica vera amica.
               Mio padre ci aveva abbandonato pochi mesi prima per
               un'altra donna, non era nemmeno venuto ad accertarsi
               delle mie condizioni, vivo o morto per lui sapevo di
               essere un peso. Dal suo ignobile gesto il mio rapporto
               con mia madre si era fortificato sempre di più.
               Il tragitto, anche se breve, mi riservò non
               poche sorprese. Camminando lentamente, incrociai lo
               sguardo di molti conoscenti, molti dei quali evitarono
               il mio sguardo, altri, i più sfrontati, lo
               affrontarono con tenacia e spudoratamente rifiutarono
               il mio saluto. Essendo, questi, giovani compagni di
               serate all'insegna del divertimento, pensai che forse
               erano rimasti scossi dalla mia vicenda e che non
               sapendo cosa dire, mi avessero evitato. Mi sbagliavo e
               la conferma dei miei sospetti mi fu fornita in
               prossimità delle soglia di casa, dove incontrai
               la mia vecchia vicina. Un'anziana signora, dal viso
               aspro e rugoso, dai vestiti fiorati e dal carattere
               particolare, che io amavo, prima dell'incidente,
               deliziare con delle letture. Confidavo nel suo
               caloroso benvenuto, ma fui deluso, poiché
               guardandomi dritto negli occhi e spegnendo il mio
               sorriso, mi sibilò: "Assassino".Paralizzato
               da una parola tanto inadeguata quanto crudele, non
               seppi dare alcuna giustificazione, guardai solamente
               mia madre che compassionevole mi carezzò i
               capelli, e mi indusse ad entrare.Un'altra
               notizia sconvolgente mi attendeva
               meschina.Con
               la sua solita premura lei mi fece accomodare sulla
               poltroncina nel modesto salottino, prese da un
               cassetto un gruppetto di ritagli di giornale e mi
               pregò, avvicinandosi, di respirare
               profondamente e di non agitarmi. Affermazioni, che
               invece di calmare il mio, già nervoso, stato
               d'animo non fecero altro che aumentare l'ansia e
               l'apprensione che mi stringevano il cuore.
               Mi
               porse lentamente gli articoli di giornale, che aveva
               accuratamente ritagliato sperando di avere un giorno
               il coraggio di mostrarmeli, quel giorno era arrivato
               fin troppo repentinamente, aveva stroncato le sue
               speranze di evitarmi questo dolore.Quei
               frammenti di pagine mi dipingevano come un sanguinario
               pirata della strada, alcolista e amante del sesso
               facile, che aveva volontariamente provocato un
               incidente mortale su un'autostrada di notte. A
               rimetterci la vita non quell'incosciente giovane
               teppista, ma un'innocente sedicenne, che vittima
               dell'ironia della sorte dopo poche ore dalla tragedia,
               si rivelava il generoso donatore che avrebbe salvato
               la vita a me, giudicato disgraziato
               mentecatto."ASSASSINO"
               "DISGRAZIATO SANGUINARIO"
               Quante frasi infondate tempestavano la mia mente,
               quante parole crudeli affliggevano la mia anima,
               quante colpe pesavano sulla mia coscienza.Senza
               accorgermene le lacrime, lente e inesorabili, mi
               tagliarono il viso, mentre il mio cuore disperatamente
               rimpiangeva il suo proprietario. Sul mio capo pesava
               una colpa ben più grave di quelle che mi ero
               attribuito, non avevo solo moralmente privato della
               speranza un bisognoso di trapianto, ma avevo
               concretamente stroncato la vita a un giovane colmo di
               progetti per il futuro. Quante cose avrebbe potuto
               fare nella vita se solo io ignobile e disgraziato non
               gli avessi tagliato la vita, se solo io non gli avessi
               troncato il respiro. Mi sentivo sporco, meschino,
               irrimediabilmente compromesso nella purezza del mio
               animo. Mi immedesimavo perfettamente nelle parole con
               cui mi descrivevano i giornali, ero indegno di vivere
               non sentendomi più uomo ma un
               individuo.Lasciai
               gli articoli sul comò e poi lentamente mi
               incamminai verso l'uscita, domato dalle emozioni
               negative che stagnavano nella mia mente, mi lasciai
               guidare dall'istinto e senza meta né obiettivo
               mi trascinai in strada. Mia madre mi implorava di
               restare calmo e con gli occhi colmi di tenere lacrime
               tentava di fermarmi, ma dentro di sé sapeva che
               io dovevo andare, dovevo sfogare le mie emozioni,
               pertanto restava immobile senza tentare di bloccarmi
               materialmente, sapeva infondo che non c'erano parole,
               lacrime di comprensione o gesti che potessero
               risollevare la mia anima da quel baratro. Vagai a
               lungo poi quasi senza accorgermene mi ritrovai davanti
               all'austera entrata in ferro del cimitero, dove
               mausolei e cappelle si perdevano a vista d'occhio. Ero
               degno di entrare in un tale luogo sacro? Sapevo di non
               esserlo, ma dentro di me avevo il bisogno di esprimere
               il dolore che sentivo e la disperata gratitudine verso
               quell'angelico giovane che aveva soffiato dentro di me
               un alito di vita.Quasi
               come guidato da una potenza celestiale mi diressi
               involontariamente in uno degli anfratti nascosti di
               quel luogo colmo di silenzi. Modestamente sepolto
               giaceva il mio salvatore, accarezzai il marmo freddo e
               una sensazione di refrigerio mi attraversò il
               corpo, mai avevo avvertito una sensazione di tale
               abbandono, dentro di me il vuoto più totale, il
               freddo e il gelo, il nulla di una vita insignificante
               non mi dava motivi per sostenermi. Perché
               lottare quando nessuno ti da un minimo segnale che
               vale la pena di vivere? Perché non lasciarsi
               trasportare dagli istinti suicidi quando nel
               nell'oceano della vita si è abbandonati senza
               nessun appiglio, perché continuare a opporsi
               alle onde increspate che incessantemente ci attirano
               verso i fondali? Quanta
               solitudine leggevo negli occhi della rara gente di cui
               incontravo lo sguardo, ne indovinavo le vicende, ne
               immaginavo i sorrisi, ma perché nessuno leggeva
               nel mio sguardo il dolore che mi affliggeva.
               Inginocchiato, poi prostrato rendevo omaggio a quel
               sorriso forzato e a quegli occhi vispi ritratti nella
               foto nitida che affiancava il nome e i pochi dati
               scritti a caratteri cubitali, tristemente scuri
               suggerivano il dolore di una perdita avvenuta
               inaspettatamente e ben troppo velocemente. Quanta
               indescrivibile gratitudine unita a tanta sofferenza,
               mi meravigliava provare tante sensazioni per una
               persona di cui conoscevo solamente un nome. Mi
               chiedevo perché ero sopravvissuto io e non lui
               che aveva certamente molti più ideali, che era
               certamente più meritevole di me che maligno
               peccatore avevo provocato la sua morte. Quanto
               è ingiusta la sorte, quanto è triste la
               vita. D'improvviso una voce sopraggiunse alle mie
               spalle:"Come
               osi deturpare con la sua presenza il sonno di Manuel.
               Bastardo, non ti è bastato ciò che gli
               hai fatto?"Cosa
               avrei risposto a quella voce maschile tanto dura e
               tanto sofferta? Mi voltai solamente, per poter
               guardare l'uomo negli occhi, non per giustificarmi,
               né per implorare il suo perdono, né per
               suscitare in lui pietà esponendogli la mia
               angoscia, ma solamente per poter guardare il viso
               della persona che aveva tradotto in parole ciò
               che io nei miei pensieri silenziosamente mi
               ripetevo.Avvolto
               in un vestito scuro, con il viso drammaticamente
               contratto, irto in una posizione austera, si ergeva
               mio padre, che ingiuriava contro di me, suo figlio.
               Dopo anni che avevo imparato a convivere con la sua
               assenza, ora ripiombava nella mia vita urlandomi
               contro la dura verità.Balbettai
               solamente: "Papà"Lui
               imperterrito, con gli occhi gonfi di lacrime amare,
               continuava ad urlarmi contro la sua accusa straziante:
               "Vergognati, assassino! Hai ucciso tuo fratello,
               Caino!"Il
               cielo si squarciò, un rombo di un tono mi
               rimbombò nelle meningi, le gocce cominciarono a
               scrosciare violentemente sulle sue parole.
               "Hai
               ucciso mio figlio, farabutto!" urlava con impeto
               mentre io immobile, paralizzato, ero come assente,
               come se la mia anima ormai troppo carica di dolore
               fosse sfuggita al mio corpo.Cominciò
               a spintonarmi, mentre col viso sconvolto e arrossato,
               si disperava per la perdita dell'unico figlio che
               avesse mai amato.Cominciai
               a correre disperato, gli occhi chiusi, la bocca
               serrata, deciso a scomparire per sempre, deciso a dar
               sfogo al mio istinto suicida, non ero più degno
               di vivere, soprattutto col cuore di mio fratello che
               mi batteva dentro, che a ogni battito mi ricordava il
               suo sacrificio, mi ricordava le mie colpe. Volevo
               solamente morire, per liberare il mondo di una piaga
               sociale, svanire nel nulla, senza tracce, credevo
               così di liberarmi dalle mie colpe. L'angoscia
               mi spingeva a correre verso l'oblio.D'improvviso
               mi scontrai con una figurina esile dagli occhietti
               vispi, che mi guardava con aria stupita e mi
               disse:"C'è
               qualche problema amico?""La
               vita è il mio problema"Avrei
               voluto sorpassare la sua naturale comprensione e
               fuggire via, ma qualcosa mi tratteneva, perché
               mai rispondevo a uno sconosciuto? Come poteva lui
               comprendere con uno sguardo il mio stato d'animo e
               sollevarmi dall'angoscia con un sorrisetto così
               meravigliosamente banale? Mi
               porse una margheritina e mi disse:"Ricorda
               non pioverà per sempre"In
               quel momento la pioggia si fermò come se lui
               avesse ordinato con quelle parole di far tornare il
               sereno, le nubi scomparvero improvvisamente, lasciando
               spazio a uno splendido cielo terso e ad un mozzafiato
               arcobaleno variopinto, come la pioggia anche le mie
               lacrime cessarono, la mia anima fu
               sollevata.Immobile
               osservavo quella misera margherita, un po' sciupata,
               un po' spoglia, ma simbolo di tanta dolce speranza che
               mi scivolava nell'anima come per magia. Alzai il viso
               per ringraziare quel ragazzino dallo sguardo vispo, ma
               lui era come svanito nel nulla. Ricordai il suo viso,
               mi parve di averlo già visto, uno sguardo
               vispo, era questa la prima impressione che ebbi nel
               guardarlo e ricordai di averla avuta anche poco prima.
               Corsi velocemente di nuovo al cimitero, davanti alla
               tomba non c'era nessuno, mio padre era già
               scomparso nuovamente dalla mia vita insieme col suo
               dolore. Trovai un mazzo di margherite identiche alla
               mia, candide, spoglie e magicamente dolci e tenere
               nella loro innocenza, poi guardai la foto di mio
               fratello Manuel e riconobbi in lui lo sguardo vispo di
               poco prima. Dentro di me sentii fiorire un germoglio
               di speranza, sentii crescere dentro di me la voglia di
               vivere, la voglia di gioire di nuovo delle piccole
               cose della vita, di assolvere ai miei sbagli, la
               voglia di sospirare di meraviglia e di piangere di
               dolore, di assaporare la vita attimo per attimo,
               grazie a Manuel che ora vive dentro di me e
               soprattutto perché " Non pioverà per
               sempre..."  |