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               ...Hai
               sentito?La
               palpebra si aprì, si chiuse. Poi di nuovo fu
               aperta... poi chiusa.Ma
               era davvero quella una parola dal suono dolce e
               ridondante in quella bolla in cui i rumori
               rimbalzavano e nessuno a parte lui li sentiva? Nessuno
               li ascoltava.	Per
               nessuno esistevano.	Più
               volte si era chiesto se aveva senso continuare a
               produrre quel rumore, più volte si era trovato
               incompreso da chi comprende e solo fra tanti, ma mai
               come quando emetteva quel suono.	Felicità
               intorno a sé. La vita porta felicità,
               nel momento in cui diviene vita, nel momento in cui
               non lo è ancora, nel momento in cui la si
               attende: la vita porta felicità.Così,
               quel giorno, dopo nove mesi, la vita riserbava un
               pizzico di felicità piccolo quanto un bambino
               appena nato, grande quanto un bambino la cui vita
               è appena scaturita dall'immenso
               vuoto.	Riaprì
               la palpebra, la richiuse.Ancora.
               Poi smise. O almeno credo che smise, perché non
               lo sentii più, per molto tempo, quel rumore,
               quel suono, quello spostamento d'aria che causava un
               rimbalzo di tutti i fruscii, un ribaltamento di chi
               ascoltava e di nuovo un rimbalzo per trovarsi nel
               centro di qualcosa che non sentiva, che non si
               sentiva.Forse
               non lo sentii...O
               non ascoltai.Di
               certo per il mondo la differenza era poca, se nessuno
               sente, niente esiste. Eppure a volte qualcosa continua
               a esistere, solo per qualcuno. Per lui.	Vide
               il buio, o forse non lo vide, non vide niente, visto
               che quando si vede il buio non si vede niente e quando
               non si vede niente è come se niente esistesse.
               Non vide dunque.Ma
               la palpebra si era aperta, e poi chiusa.	Ecco,
               aveva avuto paura di non poter notare la differenza
               dalla chiusura all'apertura e infatti non
               c'era!Forse
               smise di farlo perché la differenza non c'era,
               perché nessuno sentiva, e allora non esisteva,
               il suo rumore; non esisteva, niente.	E
               intanto fuori c'era la luce, c'erano i colori, c'era
               il sole e il fuoco, c'era la luna e la notte non
               c'era, perché tutti dormivano quando c'era la
               notte, e dunque per nessuno esisteva. Tuttavia
               qualcuno capiva e pensava ogni tanto a come fosse
               assurdo dover dimenticare qualcosa solo perché
               non la si vede o non la si percepisce, o, nel modo
               peggiore, non la si capisce. Tra tanti c'ero io, io
               che mi domandavo, che mi rispondevo e che mi ponevo
               altre domande, e ci sono ancora, sempre lì, tra
               tanti; uno, io, in braccio a qualcuno, impaurito da
               troppi sguardi impertinenti.	Certo,
               allora non conoscevo la verità, piangevo,
               ridevo, ma non soffrivo, perché non la
               conoscevo ancora, la verità, e non ci credevo
               che esistesse veramente questo mostro tanto potente e
               superiore a qualunque cosa che fosse incapace di non
               esistere, non ci credevo che tra tante cose ci fosse,
               non ce la facevo a credere in un mondo che non
               c'è solo perché non si vede, non ci
               credevo ancora che tra tanti, c'era la verità.
               Molti me l'avevano descritta come una candela, come un
               fuoco, come una luce, ma io avevo sempre rifiutato
               queste teorie, perché sapevo che la candela
               brucia, illumina, scalda e si consuma, e finisce,
               lascia niente; sapevo che il fuoco arde, che dona
               calore, sapevo che il fuoco illumina, ma illumina il
               buio, sapevo che dopo la luce c'è il buio e che
               dopo il buio non c'è la luce, ma ancora il
               buio.E
               ancora per me il buio era niente, non lo capivo, il
               silenzio era tacere, non lo sentivo, il niente era
               niente, non lo percepivo, non l'ascoltavo, non lo
               vedevo...Forse
               per questo vivevo, perché non guardavo, non
               ascoltavo, non capivo, perché ero immersa in
               una luce di "niente", abbagliata da un calore
               inconsistente, accecata da un rumore inesistente,
               stordita da un urlo anelante, eppure tanto inutile.
               Ancora nessuno aveva trovato risposta al perché
               "L'urlo" di Munch fosse così assordante eppure
               muto, al perché "la siepe" del Leopardi fosse
               così ostacolante e massiccia eppure invisibile,
               al perché qualcuno camminasse eppure nessuno
               avvertisse il suo avvicinarsi, al perché
               qualcuno guardasse, se nessuno illuminasse: per questo
               la prima volta che Lo vidi, ne rimasi stordita,
               accecata, abbagliata.	Era
               lì, si apriva, si chiudeva, non faceva rumore,
               non vedeva, non camminava, non.	Era
               niente, nessuno lo percepiva, lo avvertiva, lo
               sentiva, lo guardava o lo capiva, eppure mi accorsi
               che c'era.	Presi
               un pennello, lo dipinsi, volevo che ci fosse,
               così lo colorai, non ne disegnai i tratti, i
               lineamenti i contorni, né presi una tela, ma
               dipinsi il mare, perché sapevo che il mare era
               infinito, e non volevo dare limiti al mio niente:
               volevo che diventasse tutto, che gli altri potessero
               guardarlo e non stare senza parlare, che gli altri
               potessero gridarlo e non stare a bocca chiusa, che gli
               altri potessero dipingerlo e non stare senza pennello,
               né tela, volevo che gli altri lo colorassero; e
               che fosse rosso. In quel mare colorai i monti, le
               pianure, colorai i sorrisi e i pianti delle persone,
               colorai il mare, con l'acqua lo colorai e colorai
               persino me stessa, non volevo lasciarmi senza colore,
               non volevo essere disegnata, mi colorai.	Potei
               guardare dentro a quel colore e ci vidi... Non ci vidi
               la luce, non il fuoco, né una candela, non ci
               vidi l'alfabeto, né le note musicali, non ci
               vidi i colori, non il buio, non ci vidi, che il
               niente.	Allora
               sorrisi, l'avevo visto.	Ma
               ero sola, desideravo, sognavo, nuotavo e speravo, e
               capivo che tutto quello che facevo era niente e lo
               stavo facendo nel nulla, forse per nulla, per nessuno,
               forse nemmeno per la vita stessa. Fu bello, in quel
               nulla non essere delusa, che da niente, non piangere,
               che per niente, non conoscere il niente, non soffrire
               che per niente, non amare nulla, non essere privata
               che di nulla.	Ma
               non capii che anche il mio sorridere, era per nessuno,
               anche l'essere felice, era nulla, là c'era solo
               il niente. Solo. Non penso che fosse poco, ma era da
               solo, con nessuno, a parte il niente, e con
               me.	E
               io navigavo nel mio niente, l'avevo colorato, ne ero
               fiera, l'avevo dipinto senza limiti, senza sentimenti,
               senza tristezza, l'avevo dipinto di niente sentendoci
               tutto, l'avevo dipinto di tutto, non creando, che il
               niente. Là io potevo urlare, potevo cantare,
               potevo ridere, potevo soffrire, nessuno mi avrebbe
               sentito, perché nessuno mi avrebbe ascoltato,
               visto, come io prima facevo, fra tutti. Molto spesso
               mi avevano chiesto chi ero e io mi ero presentata
               dicendo il mio nome, molto spesso mi avevano chiesto
               di cantare e io avevo cantato una canzone, molto
               spesso mi avevano domandato di gridare e io avevo
               detto qualcosa ad alta voce, ma mai ero riuscita a
               capire cosa significasse gridare spaccando qualsiasi
               limite di spazio e di tempo, varcando l'oceano, il
               cielo, l'infinito, superando il sole, il tramonto,
               l'alba, le stagioni, strappando le nuvole e
               dividendole in figure da scegliere; mai avevo capito
               cosa significasse poter gridare e sentire che nessuno
               ti invita a non gridare la verità, o il falso,
               a tacerlo o a dirlo sottovoce, non capivo cosa
               significasse arrivare ai piedi di una montagna,
               guardarla, toccarla e poter dire di aver portato
               l'infinito in quel monte.	Mai,
               prima di averlo visto quell'infinito. Di certo
               però non mi immaginavo che il mio infinito, o
               meglio, l'infinito comune, fosse come l'insieme dei
               numeri, aperto quindi, ma ugualmente divisibile in due
               metà simmetriche, da una parte i numeri con
               valore maggiore a 0 e dall'altra quelli minori di 0;
               né mai mi ero immaginata come fosse realmente
               quello 0, in fondo era il niente, non aveva nessun
               valore, perché domandarsi che valore avesse il
               niente? Mai avevo pensato che l'infinito, il mio
               infinito, l'infinito comune, era il tutto, il
               niente.	Anzi,
               a volte avevo pensato che il tutto e il niente fossero
               la stessa cosa. Ma di certo ancora non avevo mai
               colorato. Il niente, perché il tutto è
               già stato dipinto. Molto tempo fa.	Quella
               volta ci provai, a colorare il mio niente, il niente
               comune, e quel niente divenne solo mio, come quando ne
               "Il piccolo principe", il bambino addomestica la volpe
               e la fa sua in modo che ogni volta questa sia capace
               di vedere nei girasoli l'oro dei capelli di lui;
               peccato che nel niente non ci fossero girasoli,
               peccato che i miei capelli non fossero color dell'oro,
               peccato che il niente fosse così...
               vuoto.	Allora
               gridai. Così
               gridai, avete sentito?Allora
               avete sentito?No?No,
               il mio grido era niente, in quel mare di vuoto
               assoluto in cui si sperdono i personaggi dell'epica,
               del mito, in quel tempo assoluto per cui la donna
               dell'"Urlo" di Munch continua a gridare.
               Gridai.Ma
               nessuno udì.	In
               fondo solo dopo mi ricordai che un giorno qualcuno mi
               aveva chiesto se avesse senso non produrre rumore, che
               per il niente, per nessuno.	Vidi
               il mio pennello e compresi che quello che avevo
               dipinto era solo un'utopia, un brano di silenzio
               gridato al vento e che si sperde nell'immensità
               di una soffice nuvola densa e gonfia. Presi il mio
               pennello, gettai il colore su di me, mi abbassai,
               sedetti nel mare e andai a fondo, così non feci
               che rovesciarmi e ridere girando nel fondo del mare,
               rotolando sulla sabbia e spargendo il colore su di
               essa, fino a quando non caddi in preda ad un sorriso
               che rianimò le mie guance pallide di un timido
               rossore.	Riemersi
               e vidi il rosso del mio colore sparso nella sabbia e
               sopra il mare.	Domandai.	Aprii
               una palpebra, la chiusi, la riaprii e
               compresi.Compresi
               che tra una montagna e l'altra che avevo dipinto
               d'infinito c'era gente che gridava... Così!
               L'avete sentito?Sì?	Grazie
               di avermelo detto, così potrò continuare
               a vedere il riflesso dell'infinito su tutto il mondo,
               soprattutto su tutte le persone che ne fanno parte e
               che gridano di aver toccato un monte e di aver visto
               subito dopo la propria mano dipinta di
               rosso.	Grazie,
               per gli sguardi impertinenti che insinuate tra le mie
               lenzuola.	Grazie
               per il petto che troppo forte mi stringe a
               sé.	Grazie
               per la vita.	Grazie. |