- ...Hai
sentito?
- La
palpebra si aprì, si chiuse. Poi di nuovo fu
aperta... poi chiusa.
- Ma
era davvero quella una parola dal suono dolce e
ridondante in quella bolla in cui i rumori
rimbalzavano e nessuno a parte lui li sentiva? Nessuno
li ascoltava.
- Per
nessuno esistevano.
- Più
volte si era chiesto se aveva senso continuare a
produrre quel rumore, più volte si era trovato
incompreso da chi comprende e solo fra tanti, ma mai
come quando emetteva quel suono.
- Felicità
intorno a sé. La vita porta felicità,
nel momento in cui diviene vita, nel momento in cui
non lo è ancora, nel momento in cui la si
attende: la vita porta felicità.
- Così,
quel giorno, dopo nove mesi, la vita riserbava un
pizzico di felicità piccolo quanto un bambino
appena nato, grande quanto un bambino la cui vita
è appena scaturita dall'immenso
vuoto.
- Riaprì
la palpebra, la richiuse.
- Ancora.
Poi smise. O almeno credo che smise, perché non
lo sentii più, per molto tempo, quel rumore,
quel suono, quello spostamento d'aria che causava un
rimbalzo di tutti i fruscii, un ribaltamento di chi
ascoltava e di nuovo un rimbalzo per trovarsi nel
centro di qualcosa che non sentiva, che non si
sentiva.
- Forse
non lo sentii...
- O
non ascoltai.
- Di
certo per il mondo la differenza era poca, se nessuno
sente, niente esiste. Eppure a volte qualcosa continua
a esistere, solo per qualcuno. Per lui.
- Vide
il buio, o forse non lo vide, non vide niente, visto
che quando si vede il buio non si vede niente e quando
non si vede niente è come se niente esistesse.
Non vide dunque.
- Ma
la palpebra si era aperta, e poi chiusa.
- Ecco,
aveva avuto paura di non poter notare la differenza
dalla chiusura all'apertura e infatti non
c'era!
- Forse
smise di farlo perché la differenza non c'era,
perché nessuno sentiva, e allora non esisteva,
il suo rumore; non esisteva, niente.
- E
intanto fuori c'era la luce, c'erano i colori, c'era
il sole e il fuoco, c'era la luna e la notte non
c'era, perché tutti dormivano quando c'era la
notte, e dunque per nessuno esisteva. Tuttavia
qualcuno capiva e pensava ogni tanto a come fosse
assurdo dover dimenticare qualcosa solo perché
non la si vede o non la si percepisce, o, nel modo
peggiore, non la si capisce. Tra tanti c'ero io, io
che mi domandavo, che mi rispondevo e che mi ponevo
altre domande, e ci sono ancora, sempre lì, tra
tanti; uno, io, in braccio a qualcuno, impaurito da
troppi sguardi impertinenti.
- Certo,
allora non conoscevo la verità, piangevo,
ridevo, ma non soffrivo, perché non la
conoscevo ancora, la verità, e non ci credevo
che esistesse veramente questo mostro tanto potente e
superiore a qualunque cosa che fosse incapace di non
esistere, non ci credevo che tra tante cose ci fosse,
non ce la facevo a credere in un mondo che non
c'è solo perché non si vede, non ci
credevo ancora che tra tanti, c'era la verità.
Molti me l'avevano descritta come una candela, come un
fuoco, come una luce, ma io avevo sempre rifiutato
queste teorie, perché sapevo che la candela
brucia, illumina, scalda e si consuma, e finisce,
lascia niente; sapevo che il fuoco arde, che dona
calore, sapevo che il fuoco illumina, ma illumina il
buio, sapevo che dopo la luce c'è il buio e che
dopo il buio non c'è la luce, ma ancora il
buio.
- E
ancora per me il buio era niente, non lo capivo, il
silenzio era tacere, non lo sentivo, il niente era
niente, non lo percepivo, non l'ascoltavo, non lo
vedevo...
- Forse
per questo vivevo, perché non guardavo, non
ascoltavo, non capivo, perché ero immersa in
una luce di "niente", abbagliata da un calore
inconsistente, accecata da un rumore inesistente,
stordita da un urlo anelante, eppure tanto inutile.
Ancora nessuno aveva trovato risposta al perché
"L'urlo" di Munch fosse così assordante eppure
muto, al perché "la siepe" del Leopardi fosse
così ostacolante e massiccia eppure invisibile,
al perché qualcuno camminasse eppure nessuno
avvertisse il suo avvicinarsi, al perché
qualcuno guardasse, se nessuno illuminasse: per questo
la prima volta che Lo vidi, ne rimasi stordita,
accecata, abbagliata.
- Era
lì, si apriva, si chiudeva, non faceva rumore,
non vedeva, non camminava, non.
- Era
niente, nessuno lo percepiva, lo avvertiva, lo
sentiva, lo guardava o lo capiva, eppure mi accorsi
che c'era.
- Presi
un pennello, lo dipinsi, volevo che ci fosse,
così lo colorai, non ne disegnai i tratti, i
lineamenti i contorni, né presi una tela, ma
dipinsi il mare, perché sapevo che il mare era
infinito, e non volevo dare limiti al mio niente:
volevo che diventasse tutto, che gli altri potessero
guardarlo e non stare senza parlare, che gli altri
potessero gridarlo e non stare a bocca chiusa, che gli
altri potessero dipingerlo e non stare senza pennello,
né tela, volevo che gli altri lo colorassero; e
che fosse rosso. In quel mare colorai i monti, le
pianure, colorai i sorrisi e i pianti delle persone,
colorai il mare, con l'acqua lo colorai e colorai
persino me stessa, non volevo lasciarmi senza colore,
non volevo essere disegnata, mi colorai.
- Potei
guardare dentro a quel colore e ci vidi... Non ci vidi
la luce, non il fuoco, né una candela, non ci
vidi l'alfabeto, né le note musicali, non ci
vidi i colori, non il buio, non ci vidi, che il
niente.
- Allora
sorrisi, l'avevo visto.
- Ma
ero sola, desideravo, sognavo, nuotavo e speravo, e
capivo che tutto quello che facevo era niente e lo
stavo facendo nel nulla, forse per nulla, per nessuno,
forse nemmeno per la vita stessa. Fu bello, in quel
nulla non essere delusa, che da niente, non piangere,
che per niente, non conoscere il niente, non soffrire
che per niente, non amare nulla, non essere privata
che di nulla.
- Ma
non capii che anche il mio sorridere, era per nessuno,
anche l'essere felice, era nulla, là c'era solo
il niente. Solo. Non penso che fosse poco, ma era da
solo, con nessuno, a parte il niente, e con
me.
- E
io navigavo nel mio niente, l'avevo colorato, ne ero
fiera, l'avevo dipinto senza limiti, senza sentimenti,
senza tristezza, l'avevo dipinto di niente sentendoci
tutto, l'avevo dipinto di tutto, non creando, che il
niente. Là io potevo urlare, potevo cantare,
potevo ridere, potevo soffrire, nessuno mi avrebbe
sentito, perché nessuno mi avrebbe ascoltato,
visto, come io prima facevo, fra tutti. Molto spesso
mi avevano chiesto chi ero e io mi ero presentata
dicendo il mio nome, molto spesso mi avevano chiesto
di cantare e io avevo cantato una canzone, molto
spesso mi avevano domandato di gridare e io avevo
detto qualcosa ad alta voce, ma mai ero riuscita a
capire cosa significasse gridare spaccando qualsiasi
limite di spazio e di tempo, varcando l'oceano, il
cielo, l'infinito, superando il sole, il tramonto,
l'alba, le stagioni, strappando le nuvole e
dividendole in figure da scegliere; mai avevo capito
cosa significasse poter gridare e sentire che nessuno
ti invita a non gridare la verità, o il falso,
a tacerlo o a dirlo sottovoce, non capivo cosa
significasse arrivare ai piedi di una montagna,
guardarla, toccarla e poter dire di aver portato
l'infinito in quel monte.
- Mai,
prima di averlo visto quell'infinito. Di certo
però non mi immaginavo che il mio infinito, o
meglio, l'infinito comune, fosse come l'insieme dei
numeri, aperto quindi, ma ugualmente divisibile in due
metà simmetriche, da una parte i numeri con
valore maggiore a 0 e dall'altra quelli minori di 0;
né mai mi ero immaginata come fosse realmente
quello 0, in fondo era il niente, non aveva nessun
valore, perché domandarsi che valore avesse il
niente? Mai avevo pensato che l'infinito, il mio
infinito, l'infinito comune, era il tutto, il
niente.
- Anzi,
a volte avevo pensato che il tutto e il niente fossero
la stessa cosa. Ma di certo ancora non avevo mai
colorato. Il niente, perché il tutto è
già stato dipinto. Molto tempo fa.
- Quella
volta ci provai, a colorare il mio niente, il niente
comune, e quel niente divenne solo mio, come quando ne
"Il piccolo principe", il bambino addomestica la volpe
e la fa sua in modo che ogni volta questa sia capace
di vedere nei girasoli l'oro dei capelli di lui;
peccato che nel niente non ci fossero girasoli,
peccato che i miei capelli non fossero color dell'oro,
peccato che il niente fosse così...
vuoto.
- Allora
gridai.
-
- Così
gridai, avete sentito?
- Allora
avete sentito?
- No?
- No,
il mio grido era niente, in quel mare di vuoto
assoluto in cui si sperdono i personaggi dell'epica,
del mito, in quel tempo assoluto per cui la donna
dell'"Urlo" di Munch continua a gridare.
Gridai.
- Ma
nessuno udì.
- In
fondo solo dopo mi ricordai che un giorno qualcuno mi
aveva chiesto se avesse senso non produrre rumore, che
per il niente, per nessuno.
- Vidi
il mio pennello e compresi che quello che avevo
dipinto era solo un'utopia, un brano di silenzio
gridato al vento e che si sperde nell'immensità
di una soffice nuvola densa e gonfia. Presi il mio
pennello, gettai il colore su di me, mi abbassai,
sedetti nel mare e andai a fondo, così non feci
che rovesciarmi e ridere girando nel fondo del mare,
rotolando sulla sabbia e spargendo il colore su di
essa, fino a quando non caddi in preda ad un sorriso
che rianimò le mie guance pallide di un timido
rossore.
- Riemersi
e vidi il rosso del mio colore sparso nella sabbia e
sopra il mare.
- Domandai.
- Aprii
una palpebra, la chiusi, la riaprii e
compresi.
- Compresi
che tra una montagna e l'altra che avevo dipinto
d'infinito c'era gente che gridava...
-
- Così!
L'avete sentito?
- Sì?
- Grazie
di avermelo detto, così potrò continuare
a vedere il riflesso dell'infinito su tutto il mondo,
soprattutto su tutte le persone che ne fanno parte e
che gridano di aver toccato un monte e di aver visto
subito dopo la propria mano dipinta di
rosso.
- Grazie,
per gli sguardi impertinenti che insinuate tra le mie
lenzuola.
- Grazie
per il petto che troppo forte mi stringe a
sé.
- Grazie
per la vita.
- Grazie.
|