- PENSIERI
SENZA PRETESE
-
-
- Inzuppava con
cura quel biscotto nel caffé. Pochi secondi
nel caffé ancora caldo, uno sguardo accurato
per decidere la dimensione del morso e poi
una delizia per il palato. Quella sostanza
granulosa sulla lingua, il gusto dolce e vanigliato
da giungere sino al naso. Fissava di volta in volta
la tazzina e poi il biscotto successivo mentre
andava assottigliandosi il tempo ancora disponibile
per far vagare i pensieri in questo torpore dei
sensi.
- Fuori pioveva.
Una pioggia fitta e sottile che accumulandosi nella
grondaia faceva sentire il suo cadere rumoroso. E
poi il calare della sera accompagnato dal canto
degli uccelli. Eppure, pensava, siamo a gennaio,
che strano. Il canto degli uccelli le ricordava
l'irrefrenabile desiderio di primavera. Il sole
tiepido sulle guance, i profumi nuovi, le rinate
energie. Invece, non c'era altro che questo inverno
di alberi spogli, sciarpe, freddo
ma anche di
tramonti stupendi. Ora ricordava l'ultimo. Il sole
rosso come il fuoco che irradiava il cielo
spicchiettato dalle case o campanili di chiese. La
sua rotondità perfetta che gradatamente
spariva sulla linea dell'orizzonte, e quel senso di
unicità che riempiva la sua mente. Non si
stancava mai di guardare i tramonti, forse
perché il senso di bellezza perfetta e
intensa che malinconicamente segnava la fine di un
giorno aveva in sé anche i germi di speranza
per il giorno dopo. Non era possibile soccombere al
pensiero che la vita fosse un inferno, con quella
immensità che attraverso gli occhi colmava
il cuore. La vita, pensava, doveva pur riservarle
del bello, qualcosa di unico. Si sentiva in quei
momenti anche lei unica, degna di essere felice e
realizzata.
- Faceva un
respiro profondo e continuava a correre tra
autobus, macchine, strade, gente, libri, discorsi
con la paura che la corsa iniziata non avrebbe mai
toccato la fine ma si sarebbe trasformata in un
sopravvivere ancorato con una zavorra alla
difficoltà di vivere.
- Come
un'improvvisa realizzazione aveva pensato a tutto
questo mentre con la schiena appoggiata fissava
l'armadio aperto della stanza. Numero 36, primo
piano, quattro metri per due all'incirca. Una porta
bianca e a destra un lavandino con uno specchio.
Pietoso come specchio. Pensò infatti che lo
specchio non era affatto un oggetto da trascurare.
Non era sufficiente che riflettesse l'immagine,
doveva anche incorniciarla con cura come fosse un
quadro. Lo specchio era un io che guardava se
stesso e si dava un giudizio. Un io soggettivo che
si faceva condizionare dalla luce, dall'ambiente
circostante, dalla posizione. In un attimo poteva
creare un dio, un miserabile, uno qualunque o
nessuno. Il peso del corpo le ricordava ogni giorno
che era lì e che, consapevole o meno, doveva
andare avanti, ma guardandosi allo specchio il peso
spariva. Per un attimo poteva concepirsi come
un'immagine. I capelli con quei ciuffi ribelli.
Aveva scelto di tagliarli corti perché le
davano più personalità e invece
questo ciuffo sul lato sinistro smontava l'immagine
di ordine e compostezza che voleva dare. Una vera
tortura dover combattere contro la piega naturale
del capello. Ogni shampoo era la speranza che i
nuovi capelli sarebbero stati perfetti. Si capisce
che di tanto in tanto capitava anche ma il tempo
segnava inesorabilmente l'arrivo di un nuovo
shampoo. Tuttavia, gradiva il colore castano dai
riflessi rossi. Poteva considerarsi soddisfatta in
fondo. Gli occhi grandi e chiari. Chiari! Ci teneva
a dirlo che nei giorni di pioggia, come oggi, erano
verdi mentre nei giorni di sole erano di un azzurro
che gradiva particolarmente. Era forse la cosa
più bella che aveva. Di tanto in tanto
studiava anche le espressioni. Il potere di uno
sguardo era la chiave del successo, pensava. Colui
che aveva personalità con lo sguardo poteva
incutere timore e rispetto. Avrebbe voluto essere
capace di farsi rispettare con il solo sguardo e di
comunicare l'idea di serietà, rettitudine ed
autorità. Ma al tempo stesso voleva
conservare la capacità di comunicare
dolcezza ed arrendevolezza con le persone che
amava. A pensarci bene il plurale in questione era
eccessivo. Conosceva solo un amore, ancora fragile
ed impaurito la cui dimensione le faceva paura. Un
amore per cui riservava tutti i suoi sguardi teneri
e un po' sciocchi come quelli dei bambini che
vedono le cose per la prima volta. Il plurale era
quindi eccessivo perché per tutti gli altri
riservava solo dell'affetto contenuto perché
aveva sofferto e continuava a soffrire e tuttavia
non riusciva ad essere dura con chi le stava
accanto.
- Alla bocca e
alla carnagione non aveva mai dato peso. Tuttavia
forse un po' pallida e la bocca un po' piccola,
tanto da sembrare insignificante. Anzi, a pensarci
bene, gli angoli della bocca avevano una
impercettibile pendenza che le dava a volte un'aria
seria e cupa. Infatti, risultava di gran lunga
più piacevole il suo volto quando sorrideva.
C'erano invece labbra che davano
personalità, come quelle di lui. Si sorprese
a sorridere. Possibile che i suoi pensieri fossero
ormai occupati dalla sua immagine così
nitida e viva. Le sue labbra erano sottili e
lunghe. Perfette sia nei suoi momenti di
serietà sia durante la risata. Sottili e
chiare da sembrare quelle di un bambino,
specialmente quando lo guardava
dormire.
- Lo specchio,
insomma. Uno specchio che si ferma alle spalle.
Un'immagine tagliata, parziale di se stessi.
Apprezzò per un attimo quando disponeva di
uno specchio in cui si rifletteva tutta la sua
figura. Era come avere l'impressione di
possedersi.
- Di fronte un
appendino a muro, le scarpe sotto, proseguendo
l'armadio e degli scaffali in legno. Oltre ai libri
vi erano appoggiati anche degli scacchi. Non era
affatto brava, ma avrebbe voluto. Un gioco di
testa, di strategia ed ottimizzazione delle mosse.
Erano un allenamento alla vita, evitare di trovarsi
in una situazione di scacco al re o quel che
è peggio di scacco matto. Non ci era
riuscita. Poca lungimiranza ed attenzione verso le
mosse dell'avversario.
- Un tavolo con di
fronte la finestra completava il suo mondo. Ma che
fosse quello il suo mondo non ne era affatto
certa.
-
- La sveglia
suonava quasi sempre alle sette. A volte aveva
l'idea coraggiosa di puntarla alle sei per
studiare. Era solo un'idea poiché
regolarmente il calore delle coperte e quella
morbidezza e profumo che le lenzuola acquisiscono
dopo qualche notte avevano la meglio. Com'era
confortante crogiolarsi nel tepore. Era come
tornare bambini e sentirsi in un certo senso
coccolare. La penombra escludeva il mondo con le
sue battaglie e proponeva un ritmo più
lento, un vivere più quieto e sognante. In
questa penombra si sorprendeva a sognare ad occhi
aperti. Era lei il centro dei sogni. La
realtà, invece, era molto diversa da questi.
La bellezza era solo accennata e il coraggio
lasciava spesso il posto alla disperazione. I casi
estremi c'erano, ma molto meno facili ed eroiche
erano le soluzioni. La forza auspicata era
sostituita dalla fragilità. Si sentiva come
un fiore che aspetta inesorabile l'ora d'essere
calpestato o colto. Sentiva di poter essere
spezzata e di non avere la forza di ricostruirsi.
Ogni giorno correva il rischio di perdere un
frammento di se stessa, mentre avrebbe voluto
serbarsi intatta fino alla vecchiaia.
- Faceva fluire
così le sue idee finché l'inesorabile
scorrere delle cose non la richiamava alla
realtà. Insopportabile se il richiamo
giungeva in ritardo. Incominciando di fretta la
giornata rischiava di dimenticarsi da qualche
parte. Il corpo non sembrava riuscire a
riallacciare la comunicazione con tutte le sue
parti, la mente si dissociava dall'essere e veniva
subito proiettata nelle cose.
- Cose, già
la vita ne era piena. La cosa era quello che
mangiava, quello che vestiva, quello che leggeva,
quello che insegnava, vedeva, comprava. Ma la cosa
non le bastava. Lei vi cercava l'essenza. Il cibo
era profumo, armonia di gusti. Il vestito era
personalità e umore. Un libro era un'anima,
una vita, una ricerca. Ciò che insegnava era
esperienza, passione e sentimento. Ciò che
vedeva era un'idea, una concezione. Ciò che
comprava era un piacere, una scelta, una
soddisfazione. Alla fine, pensò però
che né quel libro appoggiato sul tavolo in
attesa di essere letto mentre il tempo vi si
accumulava con strato uniforme, né quella
maglietta nera così seducentemente scollata,
che se avesse avuto un po' di seno avrebbe reso
irresistibile anche lei, né quei biscotti
alla panna che voracemente divorava nei momenti di
sconforto o di nervosismo, né il malinconico
e sognante Leopardi o il simbolico e magnetico West
avevano senso al di fuori dell'essere umano.
Rimanevano tutte delle cose fatte di molecole e
legami chimici. Cose che potevano essere definite
perché esistenti, ma che acquisivano vita
solo nel momento in cui venivano usate, consumate e
riadattate alla vita di chi le stava maneggiando.
Un libro su uno scaffale era semplicemente un
mucchio di pagine più o meno bene rilegate.
Utile, nel migliore dei casi, a rendere piacevole
la libreria al visitatore occasionale, oppure come
segno di una falsa conoscenza. Invece, un libro
gelosamente curato e custodito, trasportato da una
borsa all'altra, da un treno all'altro come fosse
un figlio, oppure sfogliato e sottolineato mentre
le pagine s'impregnano di profumi come quello
sfaccettato, dolce e pungente, armonioso ma non
uniforme o arrendevole della giovane donna che vi
cerca la strada della sua vita; di odori, come
quello appiccicaticcio e umido della nebbia di
Milano, un odore così malinconico che porta
con sé i frammenti anneriti di palazzi
storici, strade pullulanti di gente in azione o di
trascinati dalla folla, vie larghe e spaziose dove
è possibile perdersi; di tocchi, come quello
energico di un uomo che durante la giornata
trasporta, riordina, sorregge e che alla sera
dolcemente accarezza le sue pagine; di respiri come
quelli che sanno di dentifricio alla menta, di vino
rosso, corposo e seducente, di una pizza e birra
consumate in compagnia; di sogni come quelli
candidi di un bambino o quelli simili ad illusioni
di una donna che vede svanire la propria bellezza
consumata per un uomo che ormai non la guarda
più perché tutto ciò che di
lei aveva apprezzato erano solo le caratteristiche
fisiche; di lacrime per un viaggio senza ritorno
come ogni scelta prevede. Un libro così,
è vita. Vita donata da chi legge. Senza
l'uomo, pensava, niente in fondo aveva
senso.
- Ragionava
così tra sé e sé mentre si
accingeva a fare la doccia. Adorava l'acqua. Questa
le dava un senso di libertà, rilassamento e
purificazione. Nel periodo invernale, tuttavia, la
cosa richiedeva una dose non indifferente di
coraggio: esporre il corpo ancora caldo all'aria
fredda. A volte il momento era di durata brevissima
a volte invece, o perché il freddo era
più intenso o perché si verificava un
qualche imprevisto, l'asciugamano che dispettoso
cadeva dalla sedia, il doccia schiuma che si
attardava a scendere o qualche inaspettato getto
d'acqua fredda, il brivido di freddo riusciva ad
infiltrarsi fino all'interno del corpo lasciando
una sensazione di disagio, inadeguatezza ed
amarezza come quando la vita, così calda ed
accogliente, viene improvvisamente sconvolta da un
avvenimento inaspettato simile ad una folata d'aria
che pare raggelare il cuore. Tuttavia, il benessere
che ricavava dal sentire scendere l'acqua lungo il
suo corpo valeva il rischio di sopportare qualche
disagio momentaneo. Il getto d'acqua era simile ad
un dolce abbraccio. Le gocce scendevano lungo la
fronte, distesa e senza pensieri, e gli occhi
serrati per poter ricreare uno spazio alternativo
fatto di un niente sostanzioso, fino alle labbra
semiaperte come quando aspettava con fremito le sue
labbra vellutate. Dapprima solo un tocco leggero ma
sufficiente per far risvegliare i sensi e poi una
pressione sempre più incalzante e
trasportante come di scambio di anime. Una mano poi
nei capelli sempre più bagnati. Le piaceva
essere accarezzata. Da un po' di tempo lui aveva
preso ad accarezzarla con dolcezza e protezione
come a ribadirle la sua presenza per sempre oppure
come per ringraziarla.
Strofinava poi il
doccia schiuma lungo la pelle fino a sentirla
più morbida e rilassata. Uno strofinio dolce
e costante. Era forse quello l'unico momento in cui
involontariamente osservava il suo corpo. Non era
solita guardarsi, forse perché le poche
volte che l'aveva fatto si era vista con tutti i
difetti: sedere troppo basso, gambe affatto
affusolate, seno quasi inesistente, fianchi larghi,
dita dei piedi quasi rattrappite con il mignolo
raccolto e schiacciato quasi volesse non esserci.
Eppure, a volte sotto la doccia riusciva anche a
passarsi le mani sulle cosce e a vederle nonostante
tutto ben formate, apprezzare la finezza dei suoi
piedi, sentire sotto le sue mani la linea del collo
che poi si snodava lungo la clavicola per scendere
su un seno se non di dimensioni apprezzabili
tuttavia ben formato, armonicamente integrato al
suo corpo e vivo.
- Un'asciugatura
veloce per non guastare la sensazione di piacere
con quel brivido a cui la vita pare ricorrere con
piacere e poi il tuffo nello scorrere veloce e
frenetico di volti stanchi o felici, addormentati o
tormentati, di occhi valorizzati dal trucco oppure
quasi nascosti dall'invasività dei colori,
di labbra serrate ed inespressive o chiuse in una
smorfia, o sempre in movimento quasi a voler
divorare il mondo oppure a voler riempire l'aria di
parole volteggianti perché vuote come
palloncini che si perdono nell'aria, di borse
essenziali con il telefonino dell'ultima
generazione e la carta di credito, borse piene di
fogli volanti contenenti frammenti di persone o di
impegni, di un rossetto mezzo consumato, di un
tappo di una penna inesistente, di un fazzoletto
impregnato del suo profumo per sopportare meglio la
sua assenza e trasformarla in un momento per
rinforzarsi e donargli il meglio di sé al
ritorno, perché egli ritornerà. Lei
lo sapeva o almeno questo è quello in cui
voleva credere perché sentiva che se
l'avesse perso avrebbe perso se stessa.
- Un tuffo in un
ulteriore giorno della sua vita, pensava, ma "vita"
è una parola troppo generica per voler
significare sul serio qualcosa. Forse perché
basta un niente per renderla trasparente un gesto,
uno sguardo, un movimento della mano ma basta poi
altrettanto una carezza, un soffio di alito per
renderla eterna. Forse perché è tutto
e proprio per questo niente. Forse perché
invece di chiamarla vita bisognerebbe darle un nome
per capire la sua importanza. Poterla scrivere con
la lettera maiuscola per non dimenticarla.
Perché la vita era il suo ciuffo ribelle,
era quella stanza fatta di poche cose essenziali,
era quel libro che avrebbe ancora letto o che
avrebbe creato da sola.
- Qualunque cosa
fosse questa sua vita maltrattata e denigrata, resa
protagonista contro la sua volontà, lei un
solo nome sapeva darle. Un nome che sussurrava
piano per non spaventare questi pensieri senza
pretesa che le facevano compagnia in attesa che
arrivi la primavera.
|