Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Enrico Bonavolontà
Con questo racconto ha vinto il secondo premio del concorso Angela Starace 2003, sezione narrativa

LA SCUOLA RURALE SAN LUIS POTOSI
 
Come di consueto, il maestro Francisco Goenaga y Silva iniziò l'appello alzandosi in piedi. Indossava un abito doppio petto di lino grigio ferro un poco stretto sui fianchi, una camicia bianca immacolata, con il collo inamidato, e una cravatta rosso granata acquistata nel corso del suo ultimo viaggio a Città del Messico. All'occhiello, portava con orgoglio l'emblema del Circolo Culturale Latino Americano.
Una delle cose che piacevano tanto a Goenaga era l'appello del mattino. Sicuramente uno di quei momenti toccanti in cui la classe dimostrava di essere così bene intonata al suo maestro che sembrava impossibile che tutti non fossero felici. Durante quel brevissimo colloquio a tu per tu con ognuno di loro, infatti, il suo sguardo si rianimava. Guardava con compiacimento gli alunni che aveva di fronte a sé e i suoi occhi, di un colore verde muschio che ricordava quello delle paludi, dimostravano tutta l'indulgenza di cui era capace. Si soffermava ora sull'uno, ora sull'altro, dondolandosi leggermente in avanti e con le mani dietro la schiena tormentava il prezioso rubino che portava all'anulare destro. Il suo corpo sudato emanava l'odore dell'impiastro balsamico che la sera prima si era spalmato per combattere il catarro tropicale.
Quel mattino era d'umore variabile e, sospeso l'appello, rimase qualche istante assorto, meditando sulle sue nuove ambizioni. La scuola non gli bastava più. Avrebbe voluto confessare che le lezioni lo annoiavano e che i suoi sentimenti per l'insegnamento s'erano fatti tiepidi. In tutti quegli anni, svegliarsi al mattino con il piacere di iniziare la giornata gli era sembrato una buona rappresentazione della felicità, per cui il peso delle notti insonni pesava sulle sue decisioni. E trarne le debite conseguenze voleva dire rinunciare all'antico ideale che, prima di lui, aveva incarnato suo padre. Così, per consolarsi, prese a ripetere nella sua mente, con lo stesso ordine con il quale le aveva scritte, le parole del discorso inaugurale. Considerava un grande onore l'incarico ricevuto dal Consiglio di svolgere l'annuale relazione introduttiva. La memoria non gli difettava, tuttavia si convinse che per evitare le ingenuità del discorso improvvisato sarebbe stato meglio leggere il testo. La sera, nei saloni del Circolo, alla presenza del governatore e dei soci più altolocati, l'emozione avrebbe potuto tradirlo. Riteneva, quella, un'occasione irripetibile per mettersi in mostra. Sarebbe stata una fortuna poter dare corpo alle sue fantasticherie. Avvicinare don Hernando Llosa Germàn e parlargli del suo progetto. Quella, sì, era un'occasione da non perdere. Ci sarebbe stato un lampo d'interesse negli occhi dei soci, ne era certo, non appena lo avessero ascoltato.
La notte stessa aveva vegliato scrivendo, correggendo, ripetendo all'infinito nella sua mente il discorso. Un pezzo di bravura infarcito di citazioni dotte. Confidava, in quel modo, di attestare il proprio valore. Che diamine! Un uomo della sua cultura non poteva continuare a essere ignorato ancora a lungo.
 
*****
 
Da persona responsabile tornò presente ai suoi doveri. Sapeva di non essere solo il maestro, ma una guida spirituale e un esempio di vita per i suoi alunni. Anche se questi, inutile negarlo, erano tutti figli di operai della Compania Mineraria do Sur o di campesinos delle piantagioni di don Hernando e il 1952 si presentava come un'annata peggiore della precedente. Ma lui, tutto sommato, trovava belli la maggior parte di loro, meticci con i capelli lisci e scuri, gli occhi neri e il sorriso sempre radioso che inciampava tra i denti, bianchi come le nevi del Popocatepetl. Il suo non era un atteggiamento paterno tuttavia Goenaga era uomo mite, che doveva sforzarsi di essere burbero per incutere rispetto. Calcolando il numero delle serate trascorse a dare i più svariati consigli ai genitori e il numero delle cene saltate per cavare qualcuno di loro dai guai, concedeva altrettanto del suo tempo libero a quella gente che a se stesso. Se contava le ore, era pur vero, ne dedicava più ai suoi interessi, ma quante ne passava a intercedere ora per uno ora per l'altro? Perché lui amava i bambini, tutti i bambini, anche i figli degli indios. Non era stato forse il maestro Goenaga a devolvere una parte della sua gratifica annuale all'allestimento del palo per la fiesta del Volador? Lui li conosceva bene, conosceva quei miserabili uno per uno e quello che non conosceva intuiva. Tutto, sin nei minimi particolari. Ne immaginava i vizi e le meschinità. Sapeva fin troppo bene che il modo con cui maltrattavano le mogli era per loro emblema e vanto e gloria quella con la quale insidiavano le mogli degli altri, sia quando erano sobri sia quando erano annebbiati dai fumi del pulque. Ed era natura la promiscuità nella quale vivevano. Per tacere dei mitomani che lo affliggevano con i racconti delle loro disgrazie o di qualche sciagurato che tentava addirittura di derubarlo. Tutte cose ineluttabili, naturalmente, ma non per questo meno sgradevoli.
Francisco Goenaga aspirava a un incarico più prestigioso. Era stanco di vivere in mezzo a quella desolazione.
 
*****
 
Riprese a guardare gli alunni fissandoli negli occhi, dondolandosi sulla punta dei piedi mentre rispondevano all'appello. Solo Salvador non rispose. Goenaga ricordò di averlo incontrato la domenica mattina. Era stato un caso che si fosse fermato incuriosito dalla grande animazione. Colpito dalla moltitudine che si dirigeva verso l'ingresso della basilica dove si stava concludendo la processione della Virgen del Carmen.
"Senor Goenaga le faccio strada" aveva esclamato saltellando Salvador, distribuendo calci e spintoni a destra e a sinistra.
Lui lo aveva seguito senza troppa convinzione fin sulla soglia, dove poi il ragazzo si era dileguato con innata rapidità. Goenaga non era riuscito a passare per la gran ressa. Davanti a lui un gruppo di donne infervorate aspettava di entrare e ostruiva la porta. Tutto a un tratto si erano mosse con la morbidezza di un corpo unico, mentre le vesti larghe e informi di quelle che stavano all'esterno sventolavano sui loro fianchi agghindati a festa. Gli era parso di cogliere, tra loro, un'intimità che solo le donne sanno avere senza mostrarsi equivoche. Imitando Salvador, infine, si era fatto largo e le aveva superate ricevendo in cambio rapidi sguardi di rimprovero.
L'interno della basilica era gremito come l'arena. Rimaneva libero solo uno stretto corridoio, al centro, che conduceva in prossimità dell'altare dove era stato allestito il trono. Francisco Goenaga si era immerso tra i fedeli sudato e frastornato dalle luci e dalla calca, trasportato da quel flusso umano pieno di odori, di rumori e di sorrisi tenuti a bada dalla sacralità dell'evento. "Com'è bello essere felici qui dentro" sembravano voler dire. Avevano un'aria, come spiegare? Piena di buone intenzioni. Ma il maestro Goenaga non comprendeva fino in fondo i motivi di tanto fervore tuttavia, oscuramente, avvertiva che dovevano pure avere qualche ragione per comportarsi in quel modo.
Tutto a un tratto la sua attenzione fu catturata dalle grida di giubilo provenienti dalla navata centrale. Vere e proprie invocazioni che si levavano verso l'alto coperte dal fragore di mille mani che battevano infaticabili. In mezzo a quel trambusto, il vescovo avanzava preceduto dagli stendardi delle confraternite e da decine di chierici che cantavano reggendo un'imponente palanchino sul quale svettava la statua dorata della Virgen del Carmen che, ad ogni passo, vacillava tra due ali di folla. Al suo passaggio, i più scalmanati alzavano le braccia al cielo urlando frasi incomprensibili e affiggendo nei punti più impensati banconote o modesti ex voto. I più devoti, poi, tentavano inutilmente di inginocchiarsi e di segnarsi. Il vescovo, impugnando con la mano sinistra un pastorale lastricato d'oro e d'argento, incedeva superbo tra i fumi d'incenso che ardevano nei turiboli. La folla arretrava e Goenaga si sentì toccare da decine di mani e di corpi che lo premevano. Quando il vescovo gli passò accanto, si sentì trapassato dal suo sguardo magnetico e rimase affascinato dalla tensione che sapeva procurare ai fedeli quell'uomo che dispensava in eguale misura sapienza e follia. Incedendo li benediceva e ripeteva, con l'indice e il medio alzati, l'antico cenno di scongiuro dell'esoterismo sacerdotale.
Passato il vescovo, Goenaga aveva cercato di imporsi la sua consueta freddezza - che lui definiva raziocinio - di fronte a tali manifestazioni. Ma, tra quella moltitudine, era soltanto lui a imporsela. E perché, poi? A quale scopo? Non avrebbe fatto molto meglio a piantarla, viceversa, una buona volta, con quella diffidenza da giacobino? Suo cugino Toribio, per esempio, non aveva forse preso i voti dopo un'esistenza da scomunicato? E cioè, a un passo dalla dannazione? Se ne stava dunque là, nel frastuono della folla che si spostava verso il trono, riflettendo sulle sue vacillanti certezze, quando Salvador ricomparve come d'incanto, questa volta trattenuto a forza da don Alfonso Claver. Questi lo avvinceva con il suo sguardo fiammeggiante, mentre il ragazzo rispondeva con occhiate di fiera resa. Claver sembrava trionfare come l'angelo sterminatore. Ma era mai possibile che quella creatura minuta che l'uomo stringeva tra le mani secche e nodose rappresentasse il male?
"Direttore... " aveva infine balbettato Goenaga.
"Senor Goenaga - si era meravigliato Claver voltandosi dalla sua parte - Mi compiaccio di vederla qui... in questa occasione. Proprio lei, che avevano descritto come uno spirito... libero. O, meglio, come un libero pensatore. Non vi compiacete forse di definirvi in questo modo?"
Goenaga si era sentito punto sul vivo, osservato come non mai, scrutato da occhi piccoli, scuri e profondi come l'abisso, diabolici. Claver sembrava volerlo giudicare e attendeva da lui una risposta convincente, così lui aveva replicato nel miglior modo possibile, in maniera da non irritarlo.
"Ritengo doveroso da parte mia - aveva sospirato - approfondire il significato di queste manifestazioni popolari".
"Già, il popolo - aveva ribattuto il direttore aumentando la stretta - Come vede non c'è rispetto nemmeno per i luoghi sacri.
Alfonso Claver doveva avere qualcosa in mente perché tratteneva a forza quel povero ragazzo che sembrava lanciargli sguardi terrorizzati. Goenaga ignorava che il coraggio di Salvador proveniva dalle tenebre della paura. Ignorava anche che la sua parte più istintiva e passionale avrebbe combattuto fino alla fine. "Vecchio caprone" aveva pensato Goenaga soppesando Claver. Era quindi rimasto alcuni istanti incerto sul da farsi poi, interpretando lo sguardo rassegnato di Salvator, valutando miglior decisione non mettersi in urto con il direttore, si era congedato pronunciando parole che il rinnovato clamore aveva reso incomprensibili. Si era sentito stordito, goffo, forse addirittura meschino. Tuttavia si era congedato senza indagare oltre sul ragazzo. Proprio lui, che disprezzava sopra ogni altra cosa la prepotenza e i prepotenti. Lui, Francisco Goenaga, che nella sua morale attribuiva loro tutte le nefandezze del mondo.
 
*****
 
L'appello in aula era ripreso. Goenaga insisteva di fronte al rifiuto di Salvador. Non riusciva a comprendere un comportamento tanto singolare. Era irritato e sorpreso. Quel ragazzo si stava dimostrando scandalosamente impudente. Che avesse ragione Claver? Lui, di certo, non aveva niente da rimproverarsi. Lo aveva educato nel migliore dei modi possibile. Come tutti gli altri, del resto!
"Salvador rispondi! Vuoi dunque continuare questa commedia?!" insistette sforzandosi di mantenere la calma il maestro Goenaga.
I compagni, intorno, si guardarono sorpresi, sgomenti. Puntarono gli occhi sul maestro con lo sguardo interrogativo. Poi esclamarono in coro:
"Ma Salvador è assente senor Goenaga!" quindi ridacchiarono tra loro mascherando le risa con piccoli colpi di tosse.
Anche Goenaga alzò le spalle. Quel comportamento era davvero infantile, tuttavia non riuscì a contenere la stizza. Si scosse, all'improvviso, e agitò le mani verso di loro.
"Mi avete preso per idiota? - replicò - Credete che non veda che quel somaro è seduto tra voi che siete i suoi degni compari?"
La situazione rischiava di diventare grottesca e i ragazzi, nonostante conoscessero a sufficienza quanto Goenaga potesse irritarsi per la mancanza di riguardo nei suoi confronti, si consultarono con lo sguardo. Poi videro uno spiraglio, un senso di pena nei suoi occhi. Pena per se stesso. Allora ripeterono insistendo, ma con maggiore dolcezza:
"Signor maestro... il banco è vuoto".
"Silenzio! Fate silenzio... "
L'ultima sillaba gli si smorzò in gola e per un istante Salvador tornò a sperare. Sperò che Goenaga, questa volta, decidesse di intervenire in suo aiuto. Il ragazzo urlò con tutto il fiato che aveva in gola ma nessuno, tranne Goenaga, sembrava sentire la sua voce e il maestro, ora, si premeva le mani sulle orecchie. Allora parlò sconsolato tra sé abbassando il tono di voce, ma tanto da essere udito da lui:
"Il maestro Goenaga è l'unico che dimostra di vedermi. Perché, se no, mi avrebbe chiamato?"
Poi si voltò verso i compagni.
"Ci sono anch'io, maledetti. Sono ancora vivo, in carne ed ossa! Perché vi rifiutate di ascoltarmi... perché..."
Smise di insistere rendendosi conto che non potevano vederlo né sentirlo. Nessuno poteva riuscirvi, tranne Goenaga il quale, invece, aveva deciso di non credere ai suoi occhi e alle sue orecchie.
Goenaga, da parte sua, non si sentiva di forzare la mano. Se si fosse avvicinato al banco e avesse afferrato Salvador trascinandolo in mezzo all'aula e se, nonostante quella dimostrazione, gli alunni avessero continuato a non vederlo, o a fingere di non vederlo, la situazione sarebbe sicuramente degenerata. Perché diavolo esporsi, allora! Valeva la pena andare incontro a degli altri guai soltanto per cavarsi il gusto di dimostrare che in quell'aula l'ultima parola era la sua? Cos'era più importante, insomma, il suo futuro o la sua autorità? Malcontento ordinò:
"Chiamate Vincente... ditegli di portare via il banco, questa maledetta storia finirà per farmi impazzire".
 
*****
 
Seduto su di una sedia accanto alla guardiola Vincente rileggeva la favola del cane che porta in bocca un osso trovato in mezzo alla via. All'improvviso quello che crede un boccone prelibato inizia a parlare e racconta la sua storia...
Perro, perro che me lleva en tu boca
llevame apretado e no me dejes,
por una pluma de pavo real
mi hermano da sido un traidor...
Nella favola anche gli alberi cantavano. La fantasia popolare sapeva inventare strane storie che tra i ragazzi seminavano il panico.
Vincente si interruppe sbadigliando. Portare via il banco non lo convinceva. Fece fatica ad alzarlo. Ne aveva già trasportati altri a braccia, ma quello dimostrava di essere assai più pesante.
"Strano che io non riesca a portarlo" si lamentava sudando.
Lo depose nel cortile interno e iniziò a spingerlo verso i locali della caldaia lasciando sulla ghiaia solchi profondi e incomprensibili. Spingendo scrollava la testa.
"Che strana persona il maestro Goenaga - bofonchiava - Dovrei fare a pezzi questo banco per poi bruciarlo nella caldaia. Che idea balorda!"
Tuttavia Vincente non era pagato per reagire agli ordini ricevuti. Bruciare un banco ancora nuovo, e senza alcun motivo... che inutile spreco, però. Fu interrotto bruscamente.
"Che cosa state facendo, Vincente?"
"Oh, signor direttore! - esclamò pensando che si aprisse uno spiraglio a quella follia - Il maestro Goenaga mi ha ordinato di bruciare questo banco... ma io penso che non sia una buona idea".
"Voi pensate, Vincente? Vorreste forse farmi credere che ne sapete più del senor Goenaga?"
"Ma io... " rinunciò Vincente.
"Bene e allora cosa aspettate - lo apostrofò Claver con tono rude - rispettate gli ordini del maestro Goenaga"
Vincente abbassò lo sguardo arrossendo.
"Fatevi aiutare da qualcuno - concluse Claver con malcelata ironia - sembra piuttosto pesante. Sapete... era il banco di un ragazzo indio. Quel poveretto è morto ieri. Così, all'improvviso, senza un motivo apparente gli è preso un colpo. Nessuno sa capire come. E voi sbrigatevi e poi venite in direzione".
Vincente raggiunse i locali della caldaia e dopo aver sistemato il banco vicino agli attrezzi chiuse la porta con il catenaccio e si allontanò.
"Finirò questo lavoro più tardi - disse fra sé - Al diavolo don Claver. Al diavolo il maestro Goenaga. Al diavolo tutti quanti!
 
*****
 
Il tono deciso del direttore e l'atteggiamento di Vincente avevano tolto a Salvador ogni speranza. Gli altri lo credevano già morto. Nessuno oltre al maestro Goenaga riusciva a vederlo, ma Goenaga lo aveva abbandonato al suo destino. Non era intervenuto, non aveva fatto niente di ciò che era in suo potere per salvarlo, e ora lui non riusciva nemmeno a muoversi. Era come inchiodato alle assi.
Non avrebbe più rivisto i suoi compagni. Anche loro in un certo senso lo avevano tradito, abbandonato. Sarebbe morto davvero questa volta, ne era certo. Lo avrebbero bruciato come legna da ardere.

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 Ins. 09-12-2003