- LA
SCUOLA RURALE SAN LUIS POTOSI
-
- Come
di consueto, il maestro Francisco Goenaga y Silva
iniziò l'appello alzandosi in piedi. Indossava
un abito doppio petto di lino grigio ferro un poco
stretto sui fianchi, una camicia bianca immacolata,
con il collo inamidato, e una cravatta rosso granata
acquistata nel corso del suo ultimo viaggio a
Città del Messico. All'occhiello, portava con
orgoglio l'emblema del Circolo Culturale Latino
Americano.
- Una
delle cose che piacevano tanto a Goenaga era l'appello
del mattino. Sicuramente uno di quei momenti toccanti
in cui la classe dimostrava di essere così bene
intonata al suo maestro che sembrava impossibile che
tutti non fossero felici. Durante quel brevissimo
colloquio a tu per tu con ognuno di loro, infatti, il
suo sguardo si rianimava. Guardava con compiacimento
gli alunni che aveva di fronte a sé e i suoi
occhi, di un colore verde muschio che ricordava quello
delle paludi, dimostravano tutta l'indulgenza di cui
era capace. Si soffermava ora sull'uno, ora
sull'altro, dondolandosi leggermente in avanti e con
le mani dietro la schiena tormentava il prezioso
rubino che portava all'anulare destro. Il suo corpo
sudato emanava l'odore dell'impiastro balsamico che la
sera prima si era spalmato per combattere il catarro
tropicale.
- Quel
mattino era d'umore variabile e, sospeso l'appello,
rimase qualche istante assorto, meditando sulle sue
nuove ambizioni. La scuola non gli bastava più.
Avrebbe voluto confessare che le lezioni lo annoiavano
e che i suoi sentimenti per l'insegnamento s'erano
fatti tiepidi. In tutti quegli anni, svegliarsi al
mattino con il piacere di iniziare la giornata gli era
sembrato una buona rappresentazione della
felicità, per cui il peso delle notti insonni
pesava sulle sue decisioni. E trarne le debite
conseguenze voleva dire rinunciare all'antico ideale
che, prima di lui, aveva incarnato suo padre.
Così, per consolarsi, prese a ripetere nella
sua mente, con lo stesso ordine con il quale le aveva
scritte, le parole del discorso inaugurale.
Considerava un grande onore l'incarico ricevuto dal
Consiglio di svolgere l'annuale relazione
introduttiva. La memoria non gli difettava, tuttavia
si convinse che per evitare le ingenuità del
discorso improvvisato sarebbe stato meglio leggere il
testo. La sera, nei saloni del Circolo, alla presenza
del governatore e dei soci più altolocati,
l'emozione avrebbe potuto tradirlo. Riteneva, quella,
un'occasione irripetibile per mettersi in mostra.
Sarebbe stata una fortuna poter dare corpo alle sue
fantasticherie. Avvicinare don Hernando Llosa
Germàn e parlargli del suo progetto. Quella,
sì, era un'occasione da non perdere. Ci sarebbe
stato un lampo d'interesse negli occhi dei soci, ne
era certo, non appena lo avessero ascoltato.
- La
notte stessa aveva vegliato scrivendo, correggendo,
ripetendo all'infinito nella sua mente il discorso. Un
pezzo di bravura infarcito di citazioni dotte.
Confidava, in quel modo, di attestare il proprio
valore. Che diamine! Un uomo della sua cultura non
poteva continuare a essere ignorato ancora a
lungo.
-
- *****
-
- Da
persona responsabile tornò presente ai suoi
doveri. Sapeva di non essere solo il maestro, ma una
guida spirituale e un esempio di vita per i suoi
alunni. Anche se questi, inutile negarlo, erano tutti
figli di operai della Compania Mineraria do Sur o di
campesinos delle piantagioni di don Hernando e il 1952
si presentava come un'annata peggiore della
precedente. Ma lui, tutto sommato, trovava belli la
maggior parte di loro, meticci con i capelli lisci e
scuri, gli occhi neri e il sorriso sempre radioso che
inciampava tra i denti, bianchi come le nevi del
Popocatepetl. Il suo non era un atteggiamento paterno
tuttavia Goenaga era uomo mite, che doveva sforzarsi
di essere burbero per incutere rispetto. Calcolando il
numero delle serate trascorse a dare i più
svariati consigli ai genitori e il numero delle cene
saltate per cavare qualcuno di loro dai guai,
concedeva altrettanto del suo tempo libero a quella
gente che a se stesso. Se contava le ore, era pur
vero, ne dedicava più ai suoi interessi, ma
quante ne passava a intercedere ora per uno ora per
l'altro? Perché lui amava i bambini, tutti i
bambini, anche i figli degli indios. Non era stato
forse il maestro Goenaga a devolvere una parte della
sua gratifica annuale all'allestimento del palo per la
fiesta del Volador? Lui li conosceva bene, conosceva
quei miserabili uno per uno e quello che non conosceva
intuiva. Tutto, sin nei minimi particolari. Ne
immaginava i vizi e le meschinità. Sapeva fin
troppo bene che il modo con cui maltrattavano le mogli
era per loro emblema e vanto e gloria quella con la
quale insidiavano le mogli degli altri, sia quando
erano sobri sia quando erano annebbiati dai fumi del
pulque. Ed era natura la promiscuità nella
quale vivevano. Per tacere dei mitomani che lo
affliggevano con i racconti delle loro disgrazie o di
qualche sciagurato che tentava addirittura di
derubarlo. Tutte cose ineluttabili, naturalmente, ma
non per questo meno sgradevoli.
- Francisco
Goenaga aspirava a un incarico più prestigioso.
Era stanco di vivere in mezzo a quella desolazione.
-
- *****
-
- Riprese
a guardare gli alunni fissandoli negli occhi,
dondolandosi sulla punta dei piedi mentre rispondevano
all'appello. Solo Salvador non rispose. Goenaga
ricordò di averlo incontrato la domenica
mattina. Era stato un caso che si fosse fermato
incuriosito dalla grande animazione. Colpito dalla
moltitudine che si dirigeva verso l'ingresso della
basilica dove si stava concludendo la processione
della Virgen del Carmen.
- "Senor
Goenaga le faccio strada" aveva esclamato saltellando
Salvador, distribuendo calci e spintoni a destra e a
sinistra.
- Lui
lo aveva seguito senza troppa convinzione fin sulla
soglia, dove poi il ragazzo si era dileguato con
innata rapidità. Goenaga non era riuscito a
passare per la gran ressa. Davanti a lui un gruppo di
donne infervorate aspettava di entrare e ostruiva la
porta. Tutto a un tratto si erano mosse con la
morbidezza di un corpo unico, mentre le vesti larghe e
informi di quelle che stavano all'esterno sventolavano
sui loro fianchi agghindati a festa. Gli era parso di
cogliere, tra loro, un'intimità che solo le
donne sanno avere senza mostrarsi equivoche. Imitando
Salvador, infine, si era fatto largo e le aveva
superate ricevendo in cambio rapidi sguardi di
rimprovero.
- L'interno
della basilica era gremito come l'arena. Rimaneva
libero solo uno stretto corridoio, al centro, che
conduceva in prossimità dell'altare dove era
stato allestito il trono. Francisco Goenaga si era
immerso tra i fedeli sudato e frastornato dalle luci e
dalla calca, trasportato da quel flusso umano pieno di
odori, di rumori e di sorrisi tenuti a bada dalla
sacralità dell'evento. "Com'è bello
essere felici qui dentro" sembravano voler dire.
Avevano un'aria, come spiegare? Piena di buone
intenzioni. Ma il maestro Goenaga non comprendeva fino
in fondo i motivi di tanto fervore tuttavia,
oscuramente, avvertiva che dovevano pure avere qualche
ragione per comportarsi in quel modo.
- Tutto
a un tratto la sua attenzione fu catturata dalle grida
di giubilo provenienti dalla navata centrale. Vere e
proprie invocazioni che si levavano verso l'alto
coperte dal fragore di mille mani che battevano
infaticabili. In mezzo a quel trambusto, il vescovo
avanzava preceduto dagli stendardi delle confraternite
e da decine di chierici che cantavano reggendo
un'imponente palanchino sul quale svettava la statua
dorata della Virgen del Carmen che, ad ogni passo,
vacillava tra due ali di folla. Al suo passaggio, i
più scalmanati alzavano le braccia al cielo
urlando frasi incomprensibili e affiggendo nei punti
più impensati banconote o modesti ex voto. I
più devoti, poi, tentavano inutilmente di
inginocchiarsi e di segnarsi. Il vescovo, impugnando
con la mano sinistra un pastorale lastricato d'oro e
d'argento, incedeva superbo tra i fumi d'incenso che
ardevano nei turiboli. La folla arretrava e Goenaga si
sentì toccare da decine di mani e di corpi che
lo premevano. Quando il vescovo gli passò
accanto, si sentì trapassato dal suo sguardo
magnetico e rimase affascinato dalla tensione che
sapeva procurare ai fedeli quell'uomo che dispensava
in eguale misura sapienza e follia. Incedendo li
benediceva e ripeteva, con l'indice e il medio alzati,
l'antico cenno di scongiuro dell'esoterismo
sacerdotale.
- Passato
il vescovo, Goenaga aveva cercato di imporsi la sua
consueta freddezza - che lui definiva raziocinio - di
fronte a tali manifestazioni. Ma, tra quella
moltitudine, era soltanto lui a imporsela. E
perché, poi? A quale scopo? Non avrebbe fatto
molto meglio a piantarla, viceversa, una buona volta,
con quella diffidenza da giacobino? Suo cugino
Toribio, per esempio, non aveva forse preso i voti
dopo un'esistenza da scomunicato? E cioè, a un
passo dalla dannazione? Se ne stava dunque là,
nel frastuono della folla che si spostava verso il
trono, riflettendo sulle sue vacillanti certezze,
quando Salvador ricomparve come d'incanto, questa
volta trattenuto a forza da don Alfonso Claver. Questi
lo avvinceva con il suo sguardo fiammeggiante, mentre
il ragazzo rispondeva con occhiate di fiera resa.
Claver sembrava trionfare come l'angelo sterminatore.
Ma era mai possibile che quella creatura minuta che
l'uomo stringeva tra le mani secche e nodose
rappresentasse il male?
- "Direttore...
" aveva infine balbettato Goenaga.
- "Senor
Goenaga - si era meravigliato Claver voltandosi dalla
sua parte - Mi compiaccio di vederla qui... in questa
occasione. Proprio lei, che avevano descritto come uno
spirito... libero. O, meglio, come un libero
pensatore. Non vi compiacete forse di definirvi in
questo modo?"
- Goenaga
si era sentito punto sul vivo, osservato come non mai,
scrutato da occhi piccoli, scuri e profondi come
l'abisso, diabolici. Claver sembrava volerlo giudicare
e attendeva da lui una risposta convincente,
così lui aveva replicato nel miglior modo
possibile, in maniera da non irritarlo.
- "Ritengo
doveroso da parte mia - aveva sospirato - approfondire
il significato di queste manifestazioni
popolari".
- "Già,
il popolo - aveva ribattuto il direttore aumentando la
stretta - Come vede non c'è rispetto nemmeno
per i luoghi sacri.
- Alfonso
Claver doveva avere qualcosa in mente perché
tratteneva a forza quel povero ragazzo che sembrava
lanciargli sguardi terrorizzati. Goenaga ignorava che
il coraggio di Salvador proveniva dalle tenebre della
paura. Ignorava anche che la sua parte più
istintiva e passionale avrebbe combattuto fino alla
fine. "Vecchio caprone" aveva pensato Goenaga
soppesando Claver. Era quindi rimasto alcuni istanti
incerto sul da farsi poi, interpretando lo sguardo
rassegnato di Salvator, valutando miglior decisione
non mettersi in urto con il direttore, si era
congedato pronunciando parole che il rinnovato clamore
aveva reso incomprensibili. Si era sentito stordito,
goffo, forse addirittura meschino. Tuttavia si era
congedato senza indagare oltre sul ragazzo. Proprio
lui, che disprezzava sopra ogni altra cosa la
prepotenza e i prepotenti. Lui, Francisco Goenaga, che
nella sua morale attribuiva loro tutte le nefandezze
del mondo.
-
- *****
-
- L'appello
in aula era ripreso. Goenaga insisteva di fronte al
rifiuto di Salvador. Non riusciva a comprendere un
comportamento tanto singolare. Era irritato e
sorpreso. Quel ragazzo si stava dimostrando
scandalosamente impudente. Che avesse ragione Claver?
Lui, di certo, non aveva niente da rimproverarsi. Lo
aveva educato nel migliore dei modi possibile. Come
tutti gli altri, del resto!
- "Salvador
rispondi! Vuoi dunque continuare questa commedia?!"
insistette sforzandosi di mantenere la calma il
maestro Goenaga.
- I
compagni, intorno, si guardarono sorpresi, sgomenti.
Puntarono gli occhi sul maestro con lo sguardo
interrogativo. Poi esclamarono in coro:
- "Ma
Salvador è assente senor Goenaga!" quindi
ridacchiarono tra loro mascherando le risa con piccoli
colpi di tosse.
- Anche
Goenaga alzò le spalle. Quel comportamento era
davvero infantile, tuttavia non riuscì a
contenere la stizza. Si scosse, all'improvviso, e
agitò le mani verso di loro.
- "Mi
avete preso per idiota? - replicò - Credete che
non veda che quel somaro è seduto tra voi che
siete i suoi degni compari?"
- La
situazione rischiava di diventare grottesca e i
ragazzi, nonostante conoscessero a sufficienza quanto
Goenaga potesse irritarsi per la mancanza di riguardo
nei suoi confronti, si consultarono con lo sguardo.
Poi videro uno spiraglio, un senso di pena nei suoi
occhi. Pena per se stesso. Allora ripeterono
insistendo, ma con maggiore dolcezza:
- "Signor
maestro... il banco è vuoto".
- "Silenzio!
Fate silenzio... "
- L'ultima
sillaba gli si smorzò in gola e per un istante
Salvador tornò a sperare. Sperò che
Goenaga, questa volta, decidesse di intervenire in suo
aiuto. Il ragazzo urlò con tutto il fiato che
aveva in gola ma nessuno, tranne Goenaga, sembrava
sentire la sua voce e il maestro, ora, si premeva le
mani sulle orecchie. Allora parlò sconsolato
tra sé abbassando il tono di voce, ma tanto da
essere udito da lui:
- "Il
maestro Goenaga è l'unico che dimostra di
vedermi. Perché, se no, mi avrebbe
chiamato?"
- Poi
si voltò verso i compagni.
- "Ci
sono anch'io, maledetti. Sono ancora vivo, in carne ed
ossa! Perché vi rifiutate di ascoltarmi...
perché..."
- Smise
di insistere rendendosi conto che non potevano vederlo
né sentirlo. Nessuno poteva riuscirvi, tranne
Goenaga il quale, invece, aveva deciso di non credere
ai suoi occhi e alle sue orecchie.
- Goenaga,
da parte sua, non si sentiva di forzare la mano. Se si
fosse avvicinato al banco e avesse afferrato Salvador
trascinandolo in mezzo all'aula e se, nonostante
quella dimostrazione, gli alunni avessero continuato a
non vederlo, o a fingere di non vederlo, la situazione
sarebbe sicuramente degenerata. Perché diavolo
esporsi, allora! Valeva la pena andare incontro a
degli altri guai soltanto per cavarsi il gusto di
dimostrare che in quell'aula l'ultima parola era la
sua? Cos'era più importante, insomma, il suo
futuro o la sua autorità? Malcontento
ordinò:
- "Chiamate
Vincente... ditegli di portare via il banco, questa
maledetta storia finirà per farmi
impazzire".
-
- *****
-
- Seduto
su di una sedia accanto alla guardiola Vincente
rileggeva la favola del cane che porta in bocca un
osso trovato in mezzo alla via. All'improvviso quello
che crede un boccone prelibato inizia a parlare e
racconta la sua storia...
- Perro,
perro che me lleva en tu boca
- llevame
apretado e no me dejes,
- por
una pluma de pavo real
- mi
hermano da sido un traidor...
- Nella
favola anche gli alberi cantavano. La fantasia
popolare sapeva inventare strane storie che tra i
ragazzi seminavano il panico.
- Vincente
si interruppe sbadigliando. Portare via il banco non
lo convinceva. Fece fatica ad alzarlo. Ne aveva
già trasportati altri a braccia, ma quello
dimostrava di essere assai più
pesante.
- "Strano
che io non riesca a portarlo" si lamentava
sudando.
- Lo
depose nel cortile interno e iniziò a spingerlo
verso i locali della caldaia lasciando sulla ghiaia
solchi profondi e incomprensibili. Spingendo scrollava
la testa.
- "Che
strana persona il maestro Goenaga - bofonchiava -
Dovrei fare a pezzi questo banco per poi bruciarlo
nella caldaia. Che idea balorda!"
- Tuttavia
Vincente non era pagato per reagire agli ordini
ricevuti. Bruciare un banco ancora nuovo, e senza
alcun motivo... che inutile spreco, però. Fu
interrotto bruscamente.
- "Che
cosa state facendo, Vincente?"
- "Oh,
signor direttore! - esclamò pensando che si
aprisse uno spiraglio a quella follia - Il maestro
Goenaga mi ha ordinato di bruciare questo banco... ma
io penso che non sia una buona idea".
- "Voi
pensate, Vincente? Vorreste forse farmi credere che ne
sapete più del senor Goenaga?"
- "Ma
io... " rinunciò Vincente.
- "Bene
e allora cosa aspettate - lo apostrofò Claver
con tono rude - rispettate gli ordini del maestro
Goenaga"
- Vincente
abbassò lo sguardo arrossendo.
- "Fatevi
aiutare da qualcuno - concluse Claver con malcelata
ironia - sembra piuttosto pesante. Sapete... era il
banco di un ragazzo indio. Quel poveretto è
morto ieri. Così, all'improvviso, senza un
motivo apparente gli è preso un colpo. Nessuno
sa capire come. E voi sbrigatevi e poi venite in
direzione".
- Vincente
raggiunse i locali della caldaia e dopo aver sistemato
il banco vicino agli attrezzi chiuse la porta con il
catenaccio e si allontanò.
- "Finirò
questo lavoro più tardi - disse fra sé -
Al diavolo don Claver. Al diavolo il maestro Goenaga.
Al diavolo tutti quanti!
-
- *****
-
- Il
tono deciso del direttore e l'atteggiamento di
Vincente avevano tolto a Salvador ogni speranza. Gli
altri lo credevano già morto. Nessuno oltre al
maestro Goenaga riusciva a vederlo, ma Goenaga lo
aveva abbandonato al suo destino. Non era intervenuto,
non aveva fatto niente di ciò che era in suo
potere per salvarlo, e ora lui non riusciva nemmeno a
muoversi. Era come inchiodato alle assi.
- Non
avrebbe più rivisto i suoi compagni. Anche loro
in un certo senso lo avevano tradito, abbandonato.
Sarebbe morto davvero questa volta, ne era certo. Lo
avrebbero bruciato come legna da ardere.
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