- Anime
di vetro
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- "Questa
vita non è la mia!", lo ripetevo spesso a me
stessa e a quella vita che sentivo non m'appartenesse.
Lo ripeteva anche Gabriele, il mio migliore amico,
l'unico che condividesse con me l'incertezza d'ogni
passo lungo un cammino sempre più
irriconoscibile, una specie di percorso segnato e
obbligato senza via d'uscita, un incubo costante in
cui paura e assuefazione si mescolavano nel quotidiano
dubbio dell'esistenza. I macabri romanzi gotici
sembravano nutrire inconsciamente quell'incertezza,
quelle storie da noi tanto amate, di figure oscure,
intricati misteri, inquietanti profezie ci
accompagnavano come amici infedeli in quei pomeriggi
densi d'idee, trascorsi a filosofare dietro i vetri di
quella che ogni giorno di più ci appariva come
una prigione, la cui incombente presenza non faceva
che aumentare la nostra sofferta e mal-taciuta
inquietudine. Inermi trascinavamo i pochi anni che
ingannevoli mostravano una giovane età in cui
il tempo mal s'adattava alla spensierata noncuranza
adolescenziale, ma nelle nostre isolate concezioni lo
scorrere impietoso e forse infinito delle lancette,
rappresentava un limite già insopportabilmente
vicino. Tuttavia non trascuravamo l'ironia, antidoto
irrinunciabile contro quel male di vivere che da
troppo e troppo precocemente ci affliggeva, risate a
profusione tra battute e ragionamenti fin troppo
seriosi, perché forse in fondo ci speravamo
ancora che le cose potessero cambiare. Ma cos'era che
ci rendeva così tristemente insoddisfatti?
Forse non c'era nulla che potesse alleviare quella
continua e gravosa insofferenza, forse non esisteva
neppure un valido motivo, forse il destino di chi si
sofferma su certe riflessioni è quello di
restare inappagato, affogando in un abisso vorticoso
di quesiti irrisolti, il pessimismo filosofico di
molti illustri pensatori poteva esserne la conferma.
Magari cercavamo qualcosa che non potevamo ottenere in
nessun modo, forse qualcosa che non esisteva affatto.
Ma conoscevamo davvero l'identità di
quell'ossessione? Come tutti gli afflitti avevamo
lunga esperienza circa la natura del proprio
supplizio. Il nostro tormento stava nel rifiuto di un
ammissione: la possibilità di un'infausta
conclusione delle nostre argomentazioni. Cercavamo
qualcosa, un senso, una strada, forse paradossalmente
quella stessa possibilità che ponesse fine alla
nostra estenuante ed esasperata ricerca, pur se in un
modo a noi non congeniale. Cos'era? La
felicità. Avremmo voluto conoscerla, viverla,
gridarla a viva voce tanto da farne eco dei nostri
silenzi. Non sapevamo dove potesse nascondersi, in
quale angolo sperduto della terra e il timore di non
scovarla, magari ignorando il posto più vicino
al nostro sguardo preso ormai ad orizzonti troppo
lontani, ci rendeva poco inclini alla scoperta, o
magari era proprio la scoperta di una verità
soffocante ideali e speranze di una vita a frenare le
nostre più scalpitanti ambizioni. Ci
attestavamo dunque lungo una linea, esitanti in un
invidiabile equilibrio, immobili nella medesima
posizione, come in trincea, mentre la logorante attesa
di un impalpabile esito ci distruggeva lentamente.
Avremmo potuto toccarla un giorno? Quella
felicità dipinta così splendida e
mitizzata, o solo sfiorarla e godere per il resto
della vita di quell'attimo? Bastava mietere successi,
amare ed essere amati, coltivare un utopico "giusto
modo di vivere"? O invece bisognava farsi trafiggere
il cuore dagli invisibili dardi del dolore, lasciare
che le nostre fragili anime di vetro si frantumassero
in minuscoli pezzi informi e incolore, sopravvivendo
in costrizione alla sofferenza? Forse bastava solo
avere fede in qualcosa, un progetto, un sogno, una
speranza, era questo il nostro spiraglio, ma le
lancette continuavano inesorabili il loro cammino.
L'ho scoperto quel giorno, in quella prigione dalle
pareti sottili che filtrano i sospiri, quando il cuore
di Gabriele ha smesso di battere sotto l'ultimo e
decisivo colpo di un male sleale, l'ho scoperto quel
giorno quanto il tempo può essere breve, quanto
può rapire senza remore una vita, quanto
può essere crudele quella verità che
temevamo di scoprire. In quell'ospedale Gabriele
sembrava aver lasciato solo lenzuola sgualcite e un
fiume di lacrime, credendo che la sua anima di vetro
si fosse frantumata insieme alla mia senza aver avuto
la soddisfazione di potersi specchiare in un sorriso,
felice di una Felicità finalmente raggiunta.
Qualcosa era cambiato però, me ne sono accorta
guardando fuori dalla finestra, quel raggio spezzato
di sole sul letto di Gabriele era andato ad illuminare
quei frantumi d'anima rimasti sul
pavimento...
- Perché
quando la luce incontra un vetro, possono nascere
splendidi giochi di colori e forme...
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