Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Fabiana Dantinelli
Con questo racconto ha vinto l'ottavo premio all'edizione 2004 del Premio Fonopoli parole in movimento.

Anime di vetro
 
"Questa vita non è la mia!", lo ripetevo spesso a me stessa e a quella vita che sentivo non m'appartenesse. Lo ripeteva anche Gabriele, il mio migliore amico, l'unico che condividesse con me l'incertezza d'ogni passo lungo un cammino sempre più irriconoscibile, una specie di percorso segnato e obbligato senza via d'uscita, un incubo costante in cui paura e assuefazione si mescolavano nel quotidiano dubbio dell'esistenza. I macabri romanzi gotici sembravano nutrire inconsciamente quell'incertezza, quelle storie da noi tanto amate, di figure oscure, intricati misteri, inquietanti profezie ci accompagnavano come amici infedeli in quei pomeriggi densi d'idee, trascorsi a filosofare dietro i vetri di quella che ogni giorno di più ci appariva come una prigione, la cui incombente presenza non faceva che aumentare la nostra sofferta e mal-taciuta inquietudine. Inermi trascinavamo i pochi anni che ingannevoli mostravano una giovane età in cui il tempo mal s'adattava alla spensierata noncuranza adolescenziale, ma nelle nostre isolate concezioni lo scorrere impietoso e forse infinito delle lancette, rappresentava un limite già insopportabilmente vicino. Tuttavia non trascuravamo l'ironia, antidoto irrinunciabile contro quel male di vivere che da troppo e troppo precocemente ci affliggeva, risate a profusione tra battute e ragionamenti fin troppo seriosi, perché forse in fondo ci speravamo ancora che le cose potessero cambiare. Ma cos'era che ci rendeva così tristemente insoddisfatti? Forse non c'era nulla che potesse alleviare quella continua e gravosa insofferenza, forse non esisteva neppure un valido motivo, forse il destino di chi si sofferma su certe riflessioni è quello di restare inappagato, affogando in un abisso vorticoso di quesiti irrisolti, il pessimismo filosofico di molti illustri pensatori poteva esserne la conferma. Magari cercavamo qualcosa che non potevamo ottenere in nessun modo, forse qualcosa che non esisteva affatto. Ma conoscevamo davvero l'identità di quell'ossessione? Come tutti gli afflitti avevamo lunga esperienza circa la natura del proprio supplizio. Il nostro tormento stava nel rifiuto di un ammissione: la possibilità di un'infausta conclusione delle nostre argomentazioni. Cercavamo qualcosa, un senso, una strada, forse paradossalmente quella stessa possibilità che ponesse fine alla nostra estenuante ed esasperata ricerca, pur se in un modo a noi non congeniale. Cos'era? La felicità. Avremmo voluto conoscerla, viverla, gridarla a viva voce tanto da farne eco dei nostri silenzi. Non sapevamo dove potesse nascondersi, in quale angolo sperduto della terra e il timore di non scovarla, magari ignorando il posto più vicino al nostro sguardo preso ormai ad orizzonti troppo lontani, ci rendeva poco inclini alla scoperta, o magari era proprio la scoperta di una verità soffocante ideali e speranze di una vita a frenare le nostre più scalpitanti ambizioni. Ci attestavamo dunque lungo una linea, esitanti in un invidiabile equilibrio, immobili nella medesima posizione, come in trincea, mentre la logorante attesa di un impalpabile esito ci distruggeva lentamente. Avremmo potuto toccarla un giorno? Quella felicità dipinta così splendida e mitizzata, o solo sfiorarla e godere per il resto della vita di quell'attimo? Bastava mietere successi, amare ed essere amati, coltivare un utopico "giusto modo di vivere"? O invece bisognava farsi trafiggere il cuore dagli invisibili dardi del dolore, lasciare che le nostre fragili anime di vetro si frantumassero in minuscoli pezzi informi e incolore, sopravvivendo in costrizione alla sofferenza? Forse bastava solo avere fede in qualcosa, un progetto, un sogno, una speranza, era questo il nostro spiraglio, ma le lancette continuavano inesorabili il loro cammino. L'ho scoperto quel giorno, in quella prigione dalle pareti sottili che filtrano i sospiri, quando il cuore di Gabriele ha smesso di battere sotto l'ultimo e decisivo colpo di un male sleale, l'ho scoperto quel giorno quanto il tempo può essere breve, quanto può rapire senza remore una vita, quanto può essere crudele quella verità che temevamo di scoprire. In quell'ospedale Gabriele sembrava aver lasciato solo lenzuola sgualcite e un fiume di lacrime, credendo che la sua anima di vetro si fosse frantumata insieme alla mia senza aver avuto la soddisfazione di potersi specchiare in un sorriso, felice di una Felicità finalmente raggiunta. Qualcosa era cambiato però, me ne sono accorta guardando fuori dalla finestra, quel raggio spezzato di sole sul letto di Gabriele era andato ad illuminare quei frantumi d'anima rimasti sul pavimento...
Perché quando la luce incontra un vetro, possono nascere splendidi giochi di colori e forme...

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Premio Fonopoli parole in movimento 2004

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 Ins. 14-02-2005