- Magari
per Natale
-
-
- Non
si sa mai cosa volere,
perché,
- vivendo
una sola vita,
non
- possiamo
né paragonarla con
le
- precedenti,
né migliorarla in
quelle
- a
venire.
- (Milan
Kundera)
-
- Finalmente a casa.
La casa della mia infanzia, delle mattine d'estate
passate a calciare un pallone di plastica contro un
muro, a sognare un futuro da calciatore della
nazionale. Parcheggio proprio lì, accostato a
quell'involontario compagno di interminabili partite
solitarie.
- Scendo dalla
macchina e lo vedo, mio padre, inginocchiato sulle sue
rose, di spalle. Non mi ha sentito. Cosa potrò
dirgli, dopo sedici anni di silenzio?
- Mi guardo intorno:
il tempo qui sembra essersi fermato. La stessa quercia
secolare, gli stessi vigneti, gli stessi campi di
grano; eppure la vita è corsa via, è
schizzata in avanti senza avvertire, senza darmi il
tempo di riflettere, di abituarmi all'idea. Passo una
mano sui miei capelli spruzzati di bianco.
- Vorrei avere un
pallone, ora, e ricominciare a calciarlo contro quel
muro, e poi alzare gli occhi verso il terrazzo, e
giustificarmi con mia madre che mi rimprovera
bonariamente per le ginocchia sempre nere.
- Li alzo, gli
occhi, ma lei non c'è. Mi accorgo di respirare
a fatica.
- Mi giro di nuovo
verso mio padre. Ha smesso di fare quello che stava
facendo e si è levato in piedi, lo sguardo
fisso su di me. Porta i guanti e un berrettino di
tela. Si toglie il berretto e si passa il dorso della
mano sulla fronte. Continua a guardarmi.
- Calcolo mentalmente
i passi che ci separano: venticinque, trenta al
massimo. Mi muovo verso di lui. Si sfila uno dei
guanti. Dieci, forse dodici passi. Si toglie anche
l'altro guanto, poi si calza nuovamente il berretto in
testa; ha gli occhi lucidi. Gli sono di
fronte.
- Rimaniamo per
diversi secondi a scrutarci, a leggere ognuno
sull'altro i segni del tempo speso su strade diverse,
lontane.
- - Sei tu... -
È sbalordito, mio padre. Imbarazzato. - Sei
tu...
- -
Già.
- - Ti va di
entrare?
- - Chi c'è
in casa? - Faccio fatica. Sembra che le parole non
vogliano uscire fuori.
- - Nessuno. - China
il capo. - Da più di tredici anni.
- - Allora sì
- La mia voce è un filo sottile, che pare debba
spezzarsi da un momento all'altro.
- Mi mette un
braccio sulle spalle. Quando ero bambino e faceva quel
gesto, sentivo come una scossa, e poi avevo la
sensazione che un'armatura fosse calata su di me, e mi
sentivo protetto, tranquillo. Ora è diverso. Il
suo braccio è stanco, pesante, ed è come
se implorasse di restituirgli quella sicurezza che un
tempo mi donava. Scaccio il pensiero, con rabbia. Mi
irrigidisco. Lui cancella il contatto tra di noi con
un movimento brusco, come colpito da una piccola
scossa elettrica. La sua mano torna a cercare il
berretto; lo toglie, appoggiandolo sopra un grosso
vaso colmo di terra, senza fiori.
- Ci avviamo verso
casa.
- - Fa caldo, non
trovi? - chiede.
- Lo fisso, per un
istante. il volto, scavato dalla fatica di vivere,
è contratto in una strana espressione. Mi rendo
conto di conoscerla bene,
quell'espressione.
- La porta è
aperta. Lui fa strada verso la cucina. - Vieni da
molto lontano?
- - Sì, da
lontano. Molto. - rispondo. Mi siedo. Anche qui tutto
è rimasto uguale. I piatti di ceramica,
souvenir di vacanze lontane, appesi alle
pareti; sopra la mensola del camino ci sono ancora i
miei soldatini di plastica verde, i marines
americani, i buoni, che combattevano battaglie sempre
vittoriose; e il gattino che cambia colore a seconda
del tempo è al suo posto, accanto a loro.
Rivedo mia madre attorno ai fornelli con il suo
grembiule senza maniche, rosa con i fiori azzurri, e
io che le ronzo attorno come una zanzara, a
elemosinare attenzioni.
- - Vuoi del
vino?
- Mi scuoto. Aria,
ho bisogno dia ria.
- Mio padre mi
osservava, in attesa, il frigorifero
aperto.
- - Semmai
dell'acqua... - dico, - di rubinetto va
bene.
- - È della
mia vigna. Sicuro che non lo vuoi? - Senza aspettare
la risposta, prende un bicchiere dal pensile sopra il
lavello, fa scorrere un po' l'acqua dal rubinetto, e
poi riempie il bicchiere e me lo porge. - Stai bene? -
chiede. Rimane in piedi, di fronte a me.
- Annuisco,
stancamente. I suoi occhi non mi lasciano un istante;
sta tentando di capire, di decifrare.
- - Qui sembra che
il tempo non sia passato - mormoro.
- Il suo volto si
illumina. - Quando sono rimasto da solo, ho rimesso
tutto a posto. Tutto come prima di... - Emette un
profondo sospiro. Sento la sua voce incrinarsi. -
Vogliamo andare su, in soffitta? Ci sono tutte le tue
cose. Forse ti farà piacere...
- - È meglio
di no - lo interrompo. Volgo lo sguardo alla mia
destra, verso il terrazzo. Mia madre è
appoggiata al balcone. Sento la sua voce, mi sta
chiamando. Chiudo gli occhi. Conto mentalmente fino a
cinque, come facevo da bambino, e poi li riapro. Lei
è sparita. E io non ho più
fiato.
- - Ti manca? - la
domanda arriva improvvisa, quasi violenta.
- Continuo a
guardare verso il balcone, in silenzio. Temevo questo
momento.
- - Ho sbagliato, lo
so. potessi tornare indietro... - C'è
disperazione, ora, nella sua voce. - Credi forse che
non sappia che giorno è, oggi? Sono quindici
anni che mi tormento pensando a tua madre.
- Lentamente, mi
volto verso di lui. Scuoto la testa. - Fino alla fine.
Sono stato con lei in quella stanza d'ospedale fino
alla fine... e tu eri qui. A vivere la tua grande
storia d'amore. Ma tanto eravate separati già
da più di un anno... orami era una perfetta
estranea, giusto? - Ascolto compiaciuto il tono
ironico della mia voce. Non mi va di fargli capire
quanto adesso mi senta scoperto e
vulnerabile.
- Si copre gli occhi
con le mani, e poi comincia a stropicciarli con le
dita. - Sicuro che non vuoi assaggiare il mio
vino?
- Mi alzo in piedi.
Guardo il bicchiere d'acqua, ancora pieno. - Si
è fatto tardi. Bisogna che vada.
- - Sì.
Certo. - replica, rassegnato, passandosi una mano sui
capelli radi. Sta osservando la vera al mio anulare
sinistro. - E salutami tanto tua moglie. Sta bene,
sì? Quando me la farai conoscere? - Ora
sorride, o meglio, si sforza di farlo. Ha gli occhi
rossi.
- Alzo le spalle.
No, non avrebbe senso spiegargli che mia moglie se
n'è andata di casa quattro anni fa.
- Una lacrima gli
sfugge via, solcando veloce la guancia rugosa.
È invecchiato, tanto. E sono invecchiato
anch'io, soprattutto dentro.
- Tutti e due. Tutti
e due abbiamo smarrito il filo della vita;
- nessuno ci ha detto
quando dovevamo cominciare a correre, e noi abbiamo
perso il colpo di pistola della partenza. Il filo si
è srotolato veloce in avanti nascondendosi tra
le pieghe del tempo, attraverso mille colori, visi,
voci, sbagli e paure, e non l'abbiamo più
ritrovato. Siamo uguali, io e lui: uomini soli. Niente
potrà più riunire i cocci delle nostre
vite. Niente. Adesso, finalmente, lo so.
- Mi mordo le
labbra.
- -
Tornerai?
- - Perché
no? - So di mentire. - Magari per Natale.
- Mi avvio lungo il
corridoio.
- - Aspetta. Ti
accompagno...
- - Non fa niente. -
Lo fermo con un gesto della mano, distogliendo subito
lo sguardo dai suoi occhi imploranti.
- Apro la porta, per
richiuderla immediatamente alle mie spalle. Ho un
groppo in gola che mi impedisce di
respirare.
- Accelero il
passo.
- Salgo in macchina
e metto in moto. Mentre faccio manovra per andarmene,
alzo gli occhi verso il terrazzo. Mia madre è
lì, giovane e bella, i capelli neri come la
notte raccolti dietro la nuca: mi saluta
radiosa.
- Parto.
- Adesso posso
piangere, finalmente.
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