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               ORIZZONTI Trent'anni
               sotto l'orizzonte. Viveva
               là da molto tempo.Sopravviveva
               solo: a giorni alterni moriva e rinasceva.Quando
               non bastava a se stesso era comunque grato di non
               doverli più vedere.Come
               l'ultima foglia di un albero d'autunno, il piccolo
               uomo viveva aggrappato al suo ramo senza avere il
               coraggio di lasciarsi cadere ma con sempre meno forza
               per evitarlo. Più di ogni altro nido la sua
               mansarda era costruita a sua misura... con il tempo
               aveva imparato a vivere mezzo metro sotto l'orizzonte
               ma più il suo cuore si avvicinava al pavimento
               più vicini erano i ricordi ai quali la sua
               mente attingeva.Aveva
               scelto la sua solitudine. Non lo aveva dichiarato, o
               protestato, ma si era pian piano fatto da parte;
               aiutato da tutti coloro che avevano inconsciamente
               spianato la strada alla sua inevitabile e sognata
               fuga.Non
               capì subito di essere diverso. Cominciò
               a rendersene conto quando sua madre decise che non
               sarebbe andato a scuola ma che ad insegnargli i primi
               rudimenti delle materie istituzionali ci avrebbe
               pensato un precettore. Un maestro solo per lui che
               sarebbe entrato in casa ogni giorno e che ogni giorno,
               in cambio di ogni nozione si sarebbe preso
               un'esperienza, in cambio di ogni briciola di cultura,
               una tessera di vita.Non
               gli era permesso uscire di casa e il suo esile corpo
               diventava la scusa più banale. C'era chi si
               occupava di svegliarlo, vestirlo e prendersi cura di
               lui fisicamente. C'era chi si prendeva cura della sua
               istruzione e c'era la madre che, apprendista Parca,
               tesseva per lui un mondo ad hoc, realtà
               disadorna e menzognera. Proteggerlo dal mondo era
               l'unica missione della donna, anche a costo di non
               riconoscere più, lei stessa, il sole. Per amore
               del figlio aveva deciso di rinchiudersi in quella
               nobile casa senza contatto con alcun respiro che non
               fosse quello della servitù e del precettore,
               affidabili labbra silenziose. Aveva rinunciato alla
               nobile routine a cui l'aveva abituata il marito e lui
               stesso con il tempo aveva preferito un ventre capace
               di partorire normalità. La donna aveva serrato
               porte e finestre e per amore di Elia aveva inscenato
               un nuovo mondo tra le mura di quell'enorme villa
               lontana dalla vita. Si era adoperata in modo che alla
               sua piccola creatura non mancasse nulla: istruzione,
               giochi, libri, vestiti; abile registra aveva costruito
               un universo che agli occhi del bambino doveva
               risultare normale. Non voleva permettere che Elia
               pensasse che gli altri bambini avessero fattezze
               diverse: tutti dovevano guardare il mondo dalla stessa
               altezza. Così nulla della realtà esterna
               riusciva ad attraversare quelle mura e appena si
               presentava il rischio che qualche saldatura cedesse,
               la madre era pronta ad inscenare un'altra vita nella
               vita, un'altra finzione.Erano
               appena trascorsi gli anni in cui un piccolo uomo non
               molto più alto di suo figlio aveva gridato alla
               razza pura, durante i quali diverso aveva voluto dire
               morto, durante i quali un bambino affetto da nanismo
               sarebbe sicuramente finito sui gelidi tavolacci di
               improvvisati demiurghi. Erano ancora gli anni in cui
               ad ogni diversità corrispondeva un preciso
               destino, in cui le opportunità di essere
               accolti nel mondo erano direttamente proporzionali
               alla normalità dell'essere e in cui il concetto
               stesso di normalità aveva in sé qualcosa
               di pericolosamente univoco e
               standardizzato.Durante
               i primi anni di vita di Elia gli sforzi della madre
               furono premiati dalla serenità di un bambino
               che non si era ancora scontrato con la realtà o
               che comunque era stato messo di fronte a parti di
               realtà. Sara faceva di tutto per evitare che il
               figlio si contaminasse con il mondo dalle misure
               standard e, ingenua chioccia, aveva dettato alla
               servitù delle rigide regole senza il rispetto
               delle quali nessuno sarebbe potuto entrare in casa.
               Niente fotografie di bambini, niente manuali di
               anatomia, niente visite di giovani adulti. Tutta la
               servitù doveva indossare lunghi e larghi abiti
               che nascondessero qualsiasi forma o proporzione.
               Persino l'arredamento della casa doveva per quanto
               possibile non far notare la diversità dei
               piccoli arti di Elia. Gli specchi erano stati appesi
               ad una studiata altezza in modo che non risultassero
               né troppo alti per il bambino né troppo
               bassi per gli altri abitanti della casa. Le gambe
               delle sedie e dei tavoli erano state segate
               così come tutti i letti erano stati abbassati e
               le balaustre delle enormi scale ridimensionate. I
               quadri raffiguravano solo i volti e nascondevano i
               corpi. Nulla doveva risultare troppo grande per quel
               bambino che non stava crescendo.E
               così passarono gli anni e per Elia il mondo
               esterno era fatto di voci, suoni, racconti o al
               massimo di immagini a metà. La radio gli
               raccontava un mondo che in casa era stato abituato ad
               immaginare in un certo modo. Il precettore descriveva
               la vita omettendo tutti i particolari che avessero a
               che vedere con le dimensioni.Ma
               un giorno, uno di quei giorni da adolescente che
               nessun periodo storico è mai riuscito a
               superare in quanto a sensazioni e pene, uno di quei
               giorni in cui qualsiasi specchio ti è nemico e
               specchio diventano persino gli occhi degli altri,
               accadde qualcosa. Accadde che la vita decise per Elia,
               che la vera vita gli entrò dentro prima che lui
               avesse imparato a respirarne gli aliti più
               pericolosi. Accadde che il ragazzo riuscì ad
               entrare in soffitta.Gli
               era sempre stato proibito di entrarci: con la scusa
               dei topi, dell'ammasso di vecchiume fatiscente che
               sarebbe potuto essere pericoloso, con la
               giustificazione che nessuno ci era mai salito da tanto
               tempo. Durante gli anni della pubertà là
               ci avevano dimorato a turno l'uomo nero, un diavolo a
               quattro teste, il fantasma del malvagio nonno. Con il
               passare degli anni la fantasia cominciò a non
               servire e le motivazioni al divieto di entrarci
               cominciarono a diventare più adulte ma
               continuarono a rimanere insondabili. Fu così
               che al gusto del proibito si unì l'ansia di
               conoscenza.Elia
               riuscì a scovare la chiave della soffitta ed
               ora era lì, davanti a quella porta. Dietro:
               immagini, sogni, fantasie, ansie, paure. Infilò
               la chiave nella toppa, spinse la porta e si fece
               entrare. Sul momento pensò di aver sbagliato
               stanza, o chiave. Quella stanza non rassomigliava a
               nessuna delle soffitte che era abituato a vedere
               ritratte nei suoi libri. Non c'erano mobili ammassati,
               né polvere, né ragnatele. C'era luce.
               Era una stanza normale, arredata con gusto ed ordine.
               Fece due passi avanti e chiuse dietro di sé la
               porta. I mobili erano del tutto simili a quelli che
               era abituato a toccare, alcune cornici dei quadri del
               tutto identiche a quelle del resto della casa. C'erano
               tappeti, centrini lavorati al tombolo, soprammobili.
               Quella soffitta sembrava a tutti gli effetti una delle
               altre stanze. Poteva essere un salottino, o una camera
               senza letto. Eppure le sensazioni che Elia provava
               erano diverse, qualcosa gli suggeriva che in quella
               stanza c'era qualcosa di anomalo, diverso,
               inquietante. Fece per sedersi e i suoi glutei urtarono
               contro una poltrona. D'un lampo, come quando ti
               svelano un segreto, come l'ultima battuta di una
               storiella divertente, come quando sua madre si
               nascondeva dietro una porta per poi balzare fuori
               all'improvviso a sconquassare i suoi pensieri...
               capì. Si spostò lentamente al centro
               della stanza, girò su se stesso, prima
               lentamente, poi sempre più veloce e cadde in
               terra come alla fine della sua corsa era solita fare
               la sua trottola blu. Lasciò che il sangue
               riprendesse il suo normale circolo e si rialzò.
               Capì. In quella stanza tutti gli oggetti erano
               alti, grandi, interi. La
               poltrona, che al sedersi di solito gli urtava la
               coscia, appoggiava su quattro cilindri di legno che
               non aveva mai notato nelle altre poltrone. Le gambe
               del tavolo gli arrivavano al petto, il primo cassetto
               del comò gli toccava l'inguine e uno specchio
               rifletteva solo i suoi occhi. Con fatica si sedette
               sulla poltrona e dall'alto di quella cima conquistata
               si mise ad osservare in modo più attento il
               resto della stanza. Le pareti erano coperte da quadri
               che raffiguravano interi corpi umani; su cavalli,
               appoggiati a sedie, sull'attenti con fucili in spalla.
               Sembrava che tutti i corpi del mondo si fossero dati
               appuntamento in quella soffitta. Quei corpi inoltre
               indossavano abiti strani: aderenti alle forme di chi
               li indossava, quei vestiti mostravano forme allungate,
               busti longilinei e colli prorompenti. Nessun quadro
               ritraeva vesti lunghe fino ai piedi sotto le quali
               solo pilotata immaginazione. Le gambe smisuratamente
               lunghe e la distanza tra il cuore e il sesso troppo
               grande per essere normale. Chissà quanto tempo
               ci avrebbe impiegato quella solita scossetta ad
               arrivare fin laggiù. Quando Elia incontrava la
               sua Giulia accadeva tutto in un attimo: la vedeva, il
               cuore faceva un balzo e il suo pene rispondeva. Aveva
               sempre pensato che una sorta di cordicella legasse i
               suoi occhi al suo pene passando attraverso il suo
               cuore, ma negli uomini di quei ritratti la cordicella
               superava la misura... Giulia avrebbe fatto a tempo ad
               uscire dalla stanza e la scossa sarebbe arrivata
               all'apice. Fu catturato dalla particolare luce di uno
               dei quadri alla sua sinistra. La luminosa veste di una
               donna dalla figura longilinea vi era ritratta su uno
               sfondo blu cobalto. I lunghi capelli neri della
               giovane cadevano sul seno scoperto da una profonda
               scollatura. Sotto il petto il ventre, segnato da un
               bustino di lino, poggiava su due esili gambe sfiorate
               da un candido velo opaco. L'intera nudità della
               donna era sfiorata da quel velo ed Elia non riusciva a
               distogliere gli occhi da quel corpo... diverso. Solo
               più tardi incrociò i suoi occhi, stelle
               nere in un cielo di neve. Erano gli occhi della sua
               Giulia, sul corpo estraneo di uno splendido
               mostro.Scossa,
               mezza scossa. Il formicolio questa volta non raggiunse
               il prepuzio ma si fermò non appena lo sguardo
               si posò di nuovo sul corpo della giovane
               donna.Si
               lasciò cadere e lasciò che tutti quei
               volti lo guardassero. Come quando la
               familiarità delle labbra del suo precettore
               diventava sconosciuta carne non appena tentava di
               insegnargli il francese, come quando la madre
               indossava la parrucca della nonna, come quando lo
               stalliere si era rasato i capelli dopo essere caduto
               nella pece, tutto era lo stesso ma era un'altra cosa.
               Tutto era uguale ma era diverso, tutto era lì
               ma altrove, tutto era reale ma magico, deforme ma
               normale. Trent'anni
               di ombelichi...di
               compassionevoli sguardi sulla spaziosa
               frontedi
               attese in punta di piedidi
               orgasmi incollati al pavimento. Trent'anni
               sotto l'orizzonte.  Era
               il suo compleanno. Non lo era veramente. Era
               l'anniversario del giorno in cui scoprì la
               soffitta. E se stesso. Con gli anni aveva deciso che,
               più della sua effettiva nascita fisiologica,
               più della prima scossa, più della prima
               parola, quel giorno dovesse costituire il giorno della
               sua vera nascita. Prima solo menzogna.Il
               rito si compiva identico ogni primavera.Sfogliò
               il solito settimanale e scelse il primo perfetto corpo
               fotografato per intero da qualche paparazzo. Prese il
               righello che custodiva nel cassetto e la matita senza
               punta. Temperò il lapis e tracciò
               quattro righe sulla foto. La prima appena sotto il
               petto dell'uomo, la seconda appena sopra il suo
               ombelico. La terza appena sotto l'inguine, la quarta
               appena sopra il ginocchio. Con un paio di forbici
               arrugginite dall'umidità tagliò la
               fotografia lungo le linee appena tracciate e,
               sminuzzando le due strisce, in mille coriandoli di
               carta li gettò. Con il nastro adesivo
               trasparente unì i pezzi di fotografia
               rimasti... il cuore troppo vicino al sesso, il sesso
               troppo vicino ai piedi. Prese dal cassetto dello
               scrittoio l'album di fotografie. Con la mano destra
               accarezzò la copertina per togliere la polvere
               che non c'era, cercò la cordicella di raso che
               segnava i suoi anni e l'aprì. Nella pagina
               sinistra la foto dell'anno precedente e la data
               scritta con calligrafia tremula: 11 aprile 1972. La
               testa di quel modello bionda di falsità, il
               corpo senza stomaco, le gambe senza cosce. Con i lembi
               del nastro adesivo rimasti fuori dal bordo della foto
               attaccò il nuovo puzzle sulla pagina destra:
               stesso viso da modello, stesso corpo dall'orizzonte
               abbassato, mano sempre più tremula: 11 aprile
               1973. Sfogliò rapidamente le foto mutilate
               delle pagine precedenti fino ad arrivare al retro
               della copertina dell'album. Una busta di carta era
               incollata al cartone losangato. Vi estrasse i resti di
               una fotografia ingiallita dal tempo. Il capannone di
               un circo, gli striscioni della domenica, sullo sfondo
               la gabbia delle tigri e sulla destra la proboscide di
               un elefante che cercava spazio. Al centro lui, la
               parrucca in testa e il cerone colorato che nascondeva
               il suo volto. Tagliò un lembo della foto. La
               bordatura faceva intendere che altri lembi erano
               già stati tagliati. Le dita grosse di
               esperienza fecero fatica a raccogliere il frammento di
               carta ma non appena il pollice e l'indice furono saldi
               nella presa, il piccolo uomo infilò il pezzo di
               foto nella busta. Trenta frammenti di foto, trent'anni
               di rito, trenta coriandoli di vita. I primi erano
               più grandi: con il tempo la parte che voleva
               togliere a quella foto era sempre più
               insignificante quasi che all'ansia di scomparire
               stesse subentrando la voglia di restare.Si
               era quasi assuefatto a restare. Trent'anni
               di ombelichi...di
               compassionevoli sguardi sulla spaziosa
               frontedi
               attese in punta di piedidi
               orgasmi incollati al pavimento. Di
               trucioli di legno di gambe segatedi
               ritratti impressi a sangue in ogni senso del piccolo
               corpodi
               elefantidi
               applausi che squarciano l'aria attorno
               all'arena.  Trent'anni
               sotto l'orizzonte. Rimase
               chiuso in soffitta due giorni e due notti. Fuori il
               vociare preoccupato della servitù, dentro il
               silenzio del suo cuore urlante. Osservò con
               attenzione ogni angolo di quella stanza, ogni spigolo
               degli arredamenti, ogni pennellata di quei quadri.
               Confrontò ogni diversità di quelle mura
               con la normalità del resto della sua casa fino
               a quando fu intimamente certo della verità:
               quella soffitta costituiva la normalità, il
               resto della villa era menzogna, diversità,
               teatro. I corpi ritratti in quei quadri erano normali.
               Il suo corpo era diverso. Le poltrone, le sedie, i
               tavoli intorno a se erano originali. Quelli del resto
               della casa erano oggetti di scena. E gli specchi erano
               stati creati per riflettere i corpi, non i
               visi.Sconvolto,
               ma forte della sua nuova presa di coscienza, decise di
               uscire dalla soffitta. Ciò che era accaduto in
               quindici anni gli era fatalmente chiaro, talmente
               chiaro che sarebbero bastati pochi gesti e pochi
               sguardi per mettere al corrente la villa che lui
               sapeva. Non gli interessava chiedere spiegazioni: un
               qualche gene sufficientemente sviluppato gli aveva
               fatto capire che una madre troppo protettiva
               sottostava alla regia della sua storia, una madre che
               aveva scelto di vivere nella diversità per
               rendere felice un figlio deforme. Non voleva parlare
               di niente: lui aveva capito, lei avrebbe capito. E lo
               avrebbe lasciato andare.Scese
               le scale con la calma di chi ha programmato tutto e
               non intende farsi distrarre dagli eventi esterni al
               suo proposito. Raggiunse in silenzio il ripostiglio
               del garzone e cercò la sega a denti stretti e
               l'incudine. Ammutoliti dal suo silenzio i servi lo
               osservavano quasi senza stupore, forse sollevati di
               essere arrivati all'ultimo atto. Solo Giulia
               riuscì a distrarlo per un attimo dal suo
               proposito. Il suo sesso si irrigidì e la scossa
               arrivò immediatamente fino al cuore.
               Risalì le scale e davanti alla porta della
               soffitta vide sua madre. In silenzio, in colpa. O
               sollevata. Pronta a dare spiegazioni senza parlare.
               Elia entrò. Con una forza che non credeva di
               possedere rovesciò la poltrona. Pulì i
               cilindri di legno dalla polvere del pavimento e
               iniziò a segarne uno. I trucioli di legno
               formarono un mucchietto ordinato accanto ai suoi piedi
               che, una volta caduto il cilindro, si disordinò
               sulle sue caviglie. Rovesciò anche il tavolo di
               noce e segò quindici centimetri anche delle sue
               gambe. Avvicinò una sedia ad uno scrittoio
               sopra il quale era appeso uno specchio. Salì
               sulla sedia, e poi sullo scrittoio. Tolse lo specchio
               dal chiodo a cui era appeso e lo appoggiò
               più in basso, sul pianale dello scrittoio, in
               modo che si appoggiasse al muro. Scese e segò
               anche le gambe dello scrittoio e della sedia. Uno dei
               ritratti era appoggiato in terra. Lo scelse. Con
               l'incudine squarciò la tela con quattro
               strappi. Il primo appena sotto il petto dell'uomo, il
               secondo appena sopra il suo ombelico. Il terzo appena
               sotto l'inguine, il quarto appena sopra il ginocchio.
               Nel frattempo tutta la servitù si era accalcata
               sulla porta. Nessuno osava parlare... come nel
               più classico degli epiloghi la parola ora era
               tutta per La Tragedia. Elia si accorse di un solo
               respiro: si avvicinò a Giulia e il silenzio fu
               finalmente scalfito:"Togliti
               la veste!"La
               ragazza si sfilò la lunga e ampia veste. Sotto,
               uno dei corpi di quei quadri.  Trent'anni
               di ombelichi...di
               compassionevoli sguardi sulla spaziosa
               frontedi
               attese in punta di piedidi
               orgasmi incollati al pavimento. Di
               trucioli di legno di gambe segatedi
               ritratti impressi a sangue in ogni senso del piccolo
               corpodi
               elefantidi
               applausi che squarciano l'aria attorno
               all'arena. Di
               mezzi sorrisi morti in un abbassare di
               cigliadi
               maschere di ceronedi
               costumi di cartadi
               coriandoli di vita ammuffiti in una
               bustadi
               deformate fotografiedi
               labbra socchiuse per sdegnato stupore. 
               Trent'anni sotto l'orizzonte. Chiuse
               l'album dei ritagli e uscì. Di solito il giorno
               del suo compleanno si concludeva con una fetta di
               dolce e un caffè al bar della fiera. Totalmente
               presi dalle proprie diversità, nessuno si
               curava mai di lui in quel posto. Una volta all'anno
               quella fiera aveva ospitato il suo circo e il Comune
               aveva ancora guadagnato sulle deformità altrui.
               Se ne era andato dalla casa di sua madre alcuni mesi
               dopo il fatto della soffitta e aveva scelto, per
               contrappasso, di esibire la sua diversità.
               Accanto a lui una donna dal corpo mastodontico, un
               uomo con le dita dalle mani unite da sottili pellicole
               di pelle, un amico con il corpo da uomo e la testolina
               da bambino. Aveva poi deciso di viversi e aveva
               cercato, e trovato, una vita come le altre. Un lavoro
               normale, una casa normale. Un lavoro in cui tutti lo
               guardavano con compassionevoli occhi e gli scandivano
               le parole come se nano significasse ritardato e una
               mansarda che non aveva per lui niente di fuori misura
               tranne alcuni cilindri di legno custoditi in una
               cassapanca. Era stato felice e triste come gli altri,
               impotente e maschio come tanti, figlio e amico come
               tutti.Oggi
               però aveva portato con sé il suo album
               di ritagli. Non lo faceva mai. Assaporò il suo
               caffè, divorò la torta di mele.
               Pagò la consumazione e con l'album sotto
               braccio andò verso il fiume. Attese la corrente
               più forte: aveva imparato a riconoscerla dal
               colore. Gettò la sua raccolta di mezze figure
               là dove il fiume si faceva più scuro e
               seguì l'album fino a che il suo abbassato
               orizzonte non lo nascose ai suoi occhi. Si sedette sul
               sasso che aveva scelto già da un paio di mesi
               ed estrasse dalla tasca la boccetta di pillole rosse.
               Le inghiottì una ad una, senza foga. Quando non
               ebbe più saliva per farle scendere lungo
               l'esofago, si aiutò con l'acqua del fiume.
               Quando cominciò a sentirsi mancare le forze si
               fece scivolare in terra e usò il sasso per
               posarvi la schiena. Estrasse dalla tasca la busta con
               i coriandoli: ne prese una manciata e lasciò
               che il vento li trasportasse a rincorrere la via che
               era stata dell'album. Nella busta era rimasta un'unica
               fotografia intera. Giulia. Giulia senza vesti. Come
               tutte le occasioni in cui guardava quella foto il suo
               sesso si mosse. Ma non subito. Per la prima volta,
               lentamente, dagli occhi al cuore, dal cuore al pene,
               in un lungo interminabile momento, attraverso una
               lunga cordicella troppe volte corta, il suo sesso
               rispose.Sollevato
               di non doversi più guardare, chiuse le porte
               alla vita. |