Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Gabriele Giancardi
Con questo racconto ha vinto il nono premio all'edizione 2004 del Premio Fonopoli parole in movimento.

La terza sera
 
Il buio ricoprì avidamente il cielo, quella sera. Ogni cosa era divenuta tetra, oscura, e la luna pallida rendeva triste la notte. Una sola, rarefatta nuvola solcava quel tetto di stelle, l'aria era fresca. Ricordi, troppi ricordi scorrevano nel fiume, troppo freddo l'alito del tempo ormai passato. Le ore notturne erano scandite da mille rumori provenienti dal bosco. Grilli, rane, uccelli e strani insetti estasiati dalla brezza di quella sera. Penelope si guardava intorno, scrutava lo spazio, ogni singola stella. Poi volgeva lo sguardo al fiume, allo scorrere dell'acqua, alla sua irrequieta immagine che vi si rifletteva. Quindi portava le delicate mani ai capelli neri, riccioluti a formare mille e ancora mille boccoli giù per la schiena; li legava con esili fili d'erba verde che aveva strappato dal terreno dove gli stessi fili si confondevano con coloratissimi fiori di ogni forma e grandezza.
Allora mirava l'acqua e là, la sua immagine. Era bella e giovane, dolce e delicata. Stava lì immersa nella natura, in un gelido silenzio e sembrava ci fosse sempre stata, quasi le sue gambe fossero diventate lunghe radici ben piantate nella terra e le sue dita leggiadri ramoscelli ricchi di gemme. Chiuse gli occhi. Aprì le braccia e con i palmi ben distesi sfiorò il letto verde sul quale si era seduta. Percepiva una sensazione piacevole, rabbrividiva e allo stesso tempo godeva di quell'emozione così forte; così la trovò il vento, apertamente vulnerabile.
Le accarezzò il soffice collo, lo accarezzò, l'avvolse e lo strinse fino a soffocarla. Penelope aprì gli occhi, d'improvviso. Una luce accecante le impediva di guardare, la sua mente offuscata non realizzava quale altro fittizio mondo essa stesse esplorando. Non era una finzione ma la realtà. Stava distesa sul letto, indossava una lunga sottoveste bianca cangiante e i suoi capelli, sciolti, si appoggiavano liberamente sul cuscino. La finestra era rimasta aperta e l'aria della notte entrava invadentemente nella sua stanza. Si alzò, raggiunse il balcone e chiuse la finestra. Ora si sentiva più protetta, sicura anche se ancora stranita dalle primordiali pulsioni che le avevano attraversato le membra. Si distese di nuovo sul letto, appoggiò il capo e afferrate le lenzuola le tirò verso di sé per ripararsi dal freddo.
Sfiorandone i lembi si accorse per la prima volta di quanto soffice fosse quel cotone, di quanta delicatezza riservasse al suo corpo e con quanto calore l'avvolgesse. Arrivarono le prime luci dell'alba, i primi raggi si diffondevano timidamente nel cielo e lo coloravano di tonalità pastello e di mille sfumature. Penelope ripensava alla notte trascorsa, ripensava alla sua vita, agli sbagli, alle gioie ricevute, ai bei momenti e a quelli brutti. Ben presto il sole le raggiunse il volto e rifletté nell'iride di quei fantastici occhi. Lacerata dalle riflessioni si levò dal materasso con impeto e si spinse verso il bagno. Osservò le proprie mani, le braccia, il seno. Non si riconosceva in quel corpo. Con timore alzò lo sguardo verso lo specchio e contemplò a lungo la sua immagine riflessa.
Faceva caso ad ogni piccolo particolare, fino a che, due corpose lacrime le squarciarono il viso. Le lacrime scendevano lungo le gote e le labbra carnose fermandosi qua e là in insolite pieghe della pelle. Avvicinò la faccia alla specchiera e vide delle rughe. Scrutava attentamente, le lacrime scomparvero con il dolore e lei si ritrovò assopita in un grande parco, quel giorno molto affollato. In una calda giornata di primavera canticchiava motivi dell'infanzia e riportava alla luce, nella sua mente, ricordi disordinati ma assai buffi. Da sola su quel profumato giardino rideva spensierata, gioiva della vita e viaggiava con l'immaginazione.
Il silenzio fu interrotto dal cigolio di una bicicletta che sembrava essersi fermata proprio alle spalle di Penelope. Lei rimase immobile. Un uomo di circa quarant'anni, corti capelli neri e occhi profondi, si avvicinò alla ragazza. Si sedette sull'erba senza proferir parola e si prese le ginocchia tra le braccia; le strinse forte quasi avesse paura di cadere nel vuoto. "È stupendo, vero?" disse l'uomo. Penelope non rispose. "Mi chiamo Malcolm! E tu?" Penelope si girò, alzò lo sguardo e lo fissò intensamente. "Tu sei sempre stato qui vero?" disse la giovane. Mentre gli rivolgeva la domanda prese a strappare i fili d'erba, uno dopo l'altro e a gettarli qua e là; li strappava con insistenza, senza tregua e con una velata rabbia. "Perché mi domandi una cosa del genere? Io mi trovo qui esattamente da quanto tu ti trovi qui." Penelope sembrava turbata, in realtà non pensava a quello che l'uomo le aveva detto, e nemmeno a quello che avrebbe dovuto rispondergli. Aveva chiuso gli occhi. Un'altra volta. Malcolm si distese al suo fianco, appoggiò il capo e si mise a fissarla senza battere ciglio.
La guardava attentamente, e contemplava la sua bellezza, in silenzio. Di tanto in tanto lei apriva gli occhi e notando che la stava fissando si affrettava nervosamente a richiuderli. Rimasero insieme a lungo, distesi sul prato ad aspettare che il sole, stanco di una giornata troppo pesante, si calasse oltre l'orizzonte. Arrivò il tramonto, il crepuscolo, la sera. I minuti parevano interminabili, le ore passavano lente ma la notte, come sempre, sembrava arrivare troppo in fretta. Comparve la prima stella, Penelope si alzò in piedi, aprì le braccia e si gettò tra le braccai di Malcolm. Lui le accarezzava i capelli e si perdeva nei suoi lunghi boccoli neri. Come era caldo e dolce e così profumato, pensava. Il suo abbraccio era avvolgente e sicuro ma lei dinanzi all'uomo si sentiva debole e confusa. Senza forze si abbandonò tra le ali del tempo, cadde a terra come svenuta, senza un lamento. Inerme.
Con il viso chiuso tra le mani si girava e rigirava, non trovò pace finché non si alzò, scalza sul pavimento di legno orami vecchio, ad ogni passo uno scricchiolio. Appena sveglia aveva sentito dei rumori provenire dalle scale, quindi si accostò alla porta e la aprì con cautela.
Ascoltava le persone che ai piani di sotto parlavano a voce alta non curandosi dei vicini, urlavano animatamente senza ragione. Discutevano di chissà quale importante argomento, tra un piano e l'altro. Penelope non capiva le loro parole e richiuse la porta alle sue spalle; ogni volta che sveglia si ritrovava in quella vecchia stanza, intrisa d'umido non ricordava cosa ci facesse. Nulla la legava a quella casa, nulla a quel condominio, nulla a quel quartiere. In realtà niente giustificava anche il suo vivere, ma questo lei, lo aveva sempre saputo. Si guardò intorno, guardò fuori dalla finestra. Pioveva. Lentamente si vestì, indossò una comoda maglia di cotone color indaco che da poco aveva acquistato ad un mercatino, mise l'impermeabile e afferrato il paracqua lasciò la camera. La giornata non era delle migliori, pioveva incessantemente. Una pioggerellina fine scendeva dal cielo e le riportava alla mente sua madre, quando le diceva che quella pioggia erano lacrime di Dio e lei quasi si sentiva in colpa per averlo fatto piangere. Sorrideva e camminava in piccoli viottoli in cui l'odore della pioggia si faceva più intenso, incrociava centinaia di persone e come un gioco infantile provava ad immaginare la loro storia, la loro età. La loro età. Di colpo si arrestò, chiuse l'ombrello e rimase "nuda" sotto un acquazzone fitto. Si guardò le mani, si sfiorò il volto. Così abbassando lo sguardo, notò una pozzanghera e si incantò mirandosi. Non sapeva chi fosse, né perché si trovasse lì, non sapeva quanti anni avesse perché non ricordava quanti ne fossero passati. Da sempre aveva sentito un vuoto dentro di sé, provando una sensazione indescrivibile ed unica. Unica come la brezza della sera, unica come il rumore dell'acqua sulle rive del fiume, unica come i soffici fili d'erba che sfiorano il palmo della mano. Unica ed ultima emozione di questa sua malinconica esistenza.

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 Ins. 14-02-2005