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               New
               YorkQuella mattina,
               Giorgio arrivò inquieto in aeroporto,
               attanagliato dall'angoscia del volo imminente.
               Sette/otto ore sopra un aereo gli parevano davvero
               troppe, almeno per le sue attuali resistenze, se poi
               di sette/otto ore soltanto si sarebbe trattato,
               perché in agenzia gli avevano venduto un
               biglietto per New York di una di quelle compagnie
               americane, che magari mandano in giro vecchie carrette
               senza manutenzione. Imbarcati i bagagli, per un po' si
               aggirò tra la folla, poi gli parve meglio
               togliersi da quella confusione e trovare un bar dove
               sedersi in un posto tranquillo. Mancava ancora qualche
               tempo alla partenza.     "Ma, che uomo
               sono diventato?" pensò con sconforto,
               allungando il passo verso il primo caffè che
               vide in lontananza. Quand'era giovane, sì che
               aveva amato volare. Erano soprattutto i primi momenti
               allora a piacergli: il rombo dei motori e la corsa
               sulla pista, poi l'improvviso decollo e l'atmosfera
               sospesa, con le luci abbassate. Tutto gli ricordava
               l'orgasmo, anzi il più violento orgasmo che si
               potesse immaginare; una volta, chissà dove,
               aveva letto che a molti piloti era capitato in volo
               perfino di eiaculare. A quel tempo, il volo gli
               suscitava però anche un'altra forte emozione,
               quella della libertà. Una soprattutto, gli era
               rimasta impressa nella mente, durante un volo sul
               Sahara verso l'America Latina. Tre ore di
               libertà assoluta, a contemplare il deserto
               bruciato dal sole, con la sua distesa illimitata di
               sabbia e di scabri pendii rocciosi. Ricordava di
               essersi sentito onnipotente: se avesse avuto un
               paracadute, si sarebbe buttato giù dall'aereo:
               così almeno gli piaceva pensare adesso,
               perché allora era convinto di poter affrontare
               qualsiasi difficoltà, bastava che lo volesse.
               Quando il Sahara finì, l'Oceano, che si
               stagliò improvviso all'orizzonte, gli parve
               promettere nuove ed impensate libertà.
                   Passati i
               quarant'anni -  e li aveva passati da un pezzo  -
               Giorgio però era cambiato. Non che avesse
               smesso di amarlo il volo, anzi. Né gli pareva
               che il mutamento dipendesse soltanto da una
               giustificata, perché più vicina, paura
               della morte. La verità era che ogni volo,
               soprattutto al decollo, gli faceva riaffiorare alla
               mente, tutti insieme, i desideri ardenti e delusi del
               passato: la  promessa non mantenuta della vita
               diventava allora troppo dolorosa da sopportare. La
               delusione delle speranze a poco a poco si era
               trasformata in lui in una vera e propria malattia, 
               perché, a torto o a ragione, si era convinto di
               non essere mai approdato nel posto giusto, in quello
               dove avrebbe voluto, fosse stato anche il deserto, e
               neppure in uno vicino, ma sempre e soltanto
               altrove.    Intanto, aveva
               raggiunto il bar e si era seduto ad un tavolo. Chiese
               un caffè e nell'attesa, provò a
               sfogliare il giornale, ma non riuscì a leggere
               altro che qualche titolo qua e là.
               L'inquietudine stava aumentando: a parte la paura del
               volo, c'era il pensiero della conferenza da tenere a
               New York e, ancora una volta, si chiese perché
               mai avesse accettato l'invito di Joan. Non ci avrebbe
               guadagnato niente a parlare di archeologia
               laggiù né aveva un desiderio particolare
               di vedere la città, perché a New York
               lui c'era già stato, prima che l'idea di salire
               su un aereo fosse diventata una delle sue paure
               più paralizzanti.    Perso in questi
               pensieri, Giorgio notò al tavolo accanto una
               donna con un bambino di sei o sette anni in braccio:
               dovevano essere lì da poco, perché prima
               il tavolo era vuoto. La donna era proprio di fronte a
               lui, sicché, ad un certo punto i loro sguardi
               s'incrociarono. Si fissarono per un po': il viso di
               lei iniziò a tradire qualche imbarazzo, lui fu
               preso dall'emozione. Si erano riconosciuti ed entrambi
               sapevano che era troppo tardi per far finta di niente.
                   "Elena", disse
               lui e non riuscì ad aggiungere altro. Lei si
               guardò attorno, quasi ad accertarsi che nessun
               altro avesse sentito il suo nome. Poi, tornò a
               guardarlo senza dire niente, forse lo stava studiando.
               Oppure non sapeva bene che cosa dovesse fare.
                   Lui disse ciao;
               lei fece altrettanto ma la sua voce era distaccata e
               distante. Giorgio fu in dubbio se dovesse alzarsi ed
               andarle vicino, ma si frenò e continuò a
               guardarla in silenzio. Nessun segnale gli arrivava da
               lei. "Ti dà noia vedermi? Vuoi che me ne vada?"
               le chiese infine, stufo di quella situazione. "Fa'
               come credi"  rispose lei freddamente.    Non c'era alcun
               motivo per farsi umiliare, Giorgio recuperò la
               borsa e il giornale e si alzò, deciso ad
               andarsene. Aveva già fatto qualche passo,
               quando sentì Elena che lo stava chiamando. Si
               voltò e guardandola in faccia, rimase in
               attesa. Lei si scusò, non aveva avuto
               l'intenzione di offenderlo, restasse pure se lo
               voleva.      "Posso sedermi
               al tuo tavolo?" chiese lui. Elena rispose di sì
               e, sistemando il bambino sulla sedia accanto, gli
               disse che quello era suo figlio.      "Come si
               chiama?" domandò Giorgio.  "François"
                    Giorgio fu
               sorpreso dal nome, ma non disse niente; si
               limitò ad un cenno di saluto al bambino, che
               abbassò la testa senza rispondere. Poi, mentre
               si sedeva, buttò lì la prima frase che
               gli venne in mente: "non trovi strano dopo tanto
               tempo, incontrarsi qui in aeroporto in mezzo a tanta
               gente?"     Elena rispose
               sì, con l'aria di chi stesse pensando ad altro.
               Nel bar era entrato intanto un gruppo di bambini che,
               seguiti dai genitori, si erano messi subito a
               strillare e a rincorrersi fra i tavoli creando una
               grande confusione. Qualcuno degli adulti li aveva
               rimproverati e, dopo un'iniziale resistenza, i bambini
               si erano infine calmati per dedicarsi a giochi
               più tranquilli e pareva si divertissero anche
               così. François, che si stava annoiando,
               appena li vide disse alla madre che voleva andare
               anche lui a giocare con loro. Ottenne il permesso a
               patto che si tenesse sempre sott'occhio. Il bambino si
               alzò e poco dopo faceva già parte del
               gruppo.      "E' molto
               socievole" disse compiaciuta Elena. "Sì, lo
               vedo" fece Giorgio.     Tacquero
               entrambi poi, ognuno stava rincorrendo i suoi
               pensieri. Fu Giorgio a riprendere la parola e le
               chiese se volesse un caffè, ne avrebbe preso
               volentieri un altro anche lui. Elena rispose di
               sì, ma la sua voce aveva ripreso ad essere
               distante: adesso, senza il figlio, doveva sentirsi
               più vulnerabile. Con la testa abbassata, si era
               messa a frugare nella borsa appoggiata sul tavolo.
               Quando rialzò lo sguardo, si scontrò con
               quello di lui, che la fissava curioso.     "Perché
               mi guardi così?" gli domandò irritata.
               "Come ti sto guardando?" "Come se volessi spiarmi".
                   Estraendo da
               una tasca un pacchetto di sigarette, Giorgio glielo
               mostrò: "Forse cercavi questo?" "Ho smesso da
               tempo di fumare e poi qui è vietato". Elena
               aveva detto quella frase con ostilità. Giorgio
               pensò che non era stata una buona idea sedersi
               al tavolo di lei. Sarebbe stato meglio trovare subito
               una scusa ed andarsene. Guardò l'orologio
               pronto a dire che non si era accorto di quanto si
               fosse fatto tardi, quando arrivò il cameriere
               con i caffè. Li bevvero in silenzio. A Giorgio
               parve che fosse giunto il momento di congedarsi, ma
               mentre stava per aprire la bocca, lei lo prevenne. E
               cambiando il tono della voce, mormorò di nuovo
               qualche parola di scusa: "Sai questi giorni a Roma ho
               avuto molte cose da fare e mi sono stancata
               terribilmente".     Giorgio le
               disse di non preoccuparsi, che a volte succedeva anche
               a lui, quando si sentiva nervoso, di prendersela con
               chi non c'entrava niente. "Me lo ricordo"
               sussurrò lei. Giorgio finse di non aver sentito
               e, rassegnato alla situazione, le chiese dove stesse
               andando.     "A Parigi,"
               rispose lei "sai, vivo lì da molti anni con mio
               marito".    "Dunque, l'hai
               sposato?" l'interruppe lui.      "Chi?" 
                    "Federico: non
               è con lui che vivi a Parigi?"   No, non era
               Federico il marito, le disse lei, quasi sorpresa che
               Giorgio avesse potuto pensarlo. Poi, di nuovo rimasero
               in silenzio.    "Hai messo gli
               occhiali, vedo" fece ad un certo punto lei, che si era
               messa a guardarlo più attentamente.    "Sai, soffro di
               astigmatismo e da poco sono diventato anche presbite".
                    "Beh, questi
               occhiali - la montatura è al titanio vero? - 
               non ti stanno male, ti rendono più
               interessante".      "Grazie"
               rispose lui, "anche tu stai molto bene".     "Trovi?" 
               Ancora una volta,
               il dialogo s'interruppe, perché nessuno dei due
               sapeva come continuare. Giorgio si stava sforzando di
               trovare qualche argomento, uno magari non troppo
               neutro, ma in mente non gli veniva proprio
               niente.    "Stai andando
               in vacanza?" riprese lei dopo un po' di
               tempo.    "No, sto
               andando a New York per una conferenza che mi ha
               costretto a Roma per tutto il mese di agosto".
                   "Dunque,
               parlerai?"  "Sì".  "In inglese o in italiano?"
                   "Ancora non lo
               so" ed aggiunse anche di non sapere bene perché
               avesse accettato l'invito, dal momento che non ci
               guadagnava niente né economicamente né
               professionalmente.      "Beh, almeno
               New York è una città interessante",
               disse lei.     "Io,
               però, ci sono già stato e non ho un
               desiderio particolare di tornarci". Tacquero di nuovo e
               quando ripresero a parlare, si ritrovarono a discutere
               del clima di Roma e di Parigi, dell'inquinamento
               dell'aria e  dello scadimento dei programmi
               televisivi. Quei discorsi, fatti tanto per parlare,
               erano più frustranti del silenzio.     "E' mai
               possibile che, dopo tanto tempo che non ci vediamo,
               noi due ci si debba mettere a parlare di queste cose,
               quasi fossimo due estranei?"  le chiese lui.
                   "Ma, lo siamo
               ormai e da molto tempo".      "E' vero, ma
               non potremmo essere un po' meno formali?" 
                   "Per esempio?" 
                   "Per esempio,
               dimmi almeno quando sei venuta a Roma e
               perché?"      Lei gli
               rispose di essere arrivata una settimana prima per
               incontrarsi col fratello. Insieme a lui, doveva
               risolvere il problema dell'appartamento dei genitori,
               dopo che suo padre era morto e la madre si era
               trasferita a Parigi con lei. La madre non se l'era
               sentita di tornare a Roma, soffriva di una forte
               depressione, e neppure Louis, suo marito, aveva potuto
               accompagnarla, perché era sempre troppo
               impegnato col lavoro.     "Che cosa fa?" 
                   "E' chirurgo
               presso un ospedale parigino. Lo chiamano a tutte le
               ore, anche di notte"    "Come l'hai
               conosciuto?"      "Ma cosa vuoi,
               che ti racconti tutta la mia vita?" esclamò lei
               di nuovo ostile.    Giorgio
               pensò che forse stavolta aveva ragione lei e le
               chiese scusa, ma Elena doveva essersi pentita della
               sua frase aspra, perché subito dopo aggiunse di
               aver conosciuto Louis per caso, durante una cena in
               casa d'amici. "Sai" gli disse "la mia storia con
               Federico si concluse dopo qualche mese ed io ne uscii
               a pezzi; per molto tempo sentii il bisogno di restare
               sola con me stessa. Se me l'avessero detto prima, non
               avrei mai immaginato che quella sera, accettando
               l'invito a cena, avrei conosciuto l'uomo giusto,
               quello che più tardi sarebbe diventato mio
               marito".        Giorgio la
               stette a sentire e alla fine si accorse che stava
               camminando ormai sulla strada dei ricordi.
               Benché tutto fosse così lontano, gli
               venne in mente un viaggio che loro due avevano fatto
               insieme in Grecia, forse una ventina d'anni prima.
               L'aeroporto era molto cambiato, ma chissà,
               allora forse erano seduti più o meno allo
               stesso posto, magari lui vestito in jeans e Lacoste e
               lei in pantaloni sportivi e scarpe da ginnastica. Si
               frenò però, ignorava tutto della donna
               che aveva davanti anche se quell'incontro casuale non
               poteva essere indifferente per nessuno dei due: c'era
               di mezzo la giovinezza e le speranze perdute.
                   Elena era
               leggermente ingrassata e questo la rendeva più
               bella. Portava ancora i capelli scuri sciolti sulle
               spalle, solo un po' più corti di allora e non
               dimostrava affatto di aver passato i quarant'anni.
               Quel corpo che, quando l'aveva conosciuto lui, era
               ancora acerbo, si era riempito ai fianchi, sul seno,
               trasformando l'adolescente di un tempo in una donna
               vera.     Si sorprese ad
               immaginare di fare di nuovo l'amore con lei: sarebbe
               stato così difficile come allora? Si
               domandò pure che cosa stesse pensando Elena di
               lui, se lo trovasse invecchiato, magari un po' curvo
               sulle spalle e quasi si vergognò dei peli
               bianchi che avevano cominciato ad ingrigire la sua
               barba.          L'unica frase
               che gli passava per la testa però era "ti
               ricordi?" E sebbene sapesse di non poterla né
               doverla pronunciare, alla fine, stanco di girare a
               vuoto colle parole, si lasciò andare.
                   "E' difficile
               parlare dopo tanto tempo...me ne rendo conto.
               Però, se ci è capitato d'incontrarci,
               ecco, io pensavo che avremmo potuto essere un po' meno
               ipocriti e accennare anche a qualcos'altro".
                   "A cosa?"
               domandò lei.     "Per esempio,
               anche a noi due ", azzardò lui.     "Sei impazzito?
               Guarda, che quando tu mi hai chiamato, io mi sono
               chiesta se non era meglio lasciar correre, dirti che
               avevo fretta, salutarti ed andarmene. Averti
               incontrato dopo così tanto tempo non è
               facile per me. Figurati, se ho voglia di accennare al
               nostro passato".     "Proprio
               perché tanto tempo è trascorso, non
               capisco perché tu abbia voluto cancellarlo".   
                   "Smettila, io
               non ne voglio proprio parlare del passato, tanto meno
               del nostro. Penso che tu sia veramente pazzo; anche
               quando stavamo insieme non facevi che parlare del
               passato tu, della tua infanzia, di quando andavi a
               scuola, della donna che avevi avuto prima di me. Sei
               malato e, con gli anni, addirittura peggiorato! A me
               tutto questo non interessa più".      Giorgio tacque
               e di nuovo pensò che avesse ragione lei. Non
               aveva alcun senso rimestare nei ricordi, era
               necessario guardare avanti, anche se lui il suo futuro
               non riusciva proprio a vederlo.    "Questa
               è l'ultima volta che c'incontriamo" gli disse
               lei.     "E' molto
               probabile, specialmente se nessuno dei due
               cercherà l'altro. Io, per la verità,
               dopo che tu te ne andasti con Federico, continuai a
               cercarti, ma tu non mi rispondesti mai, tranne la
               prima volta per mandarmi al diavolo. Ho pensato che tu
               davvero non mi sopportassi più, che io ti fossi
               ormai completamente indifferente o che addirittura mi
               odiassi"     "Sì, io
               ti ho odiato," confermò lei "poi però
               è subentrata l'indifferenza. Ma ritornare a
               parlare del passato, Giorgio, questo davvero non lo
               voglio, mi fa male. Io non posso più guardare
               indietro, come feci con te per anni, ma solo avanti". 
                   "Tu, Elena,
               certo lo puoi fare, anzi lo devi fare: hai un figlio.
               Io, no; io non posso. Non è nel mio carattere e
               non ho altri a cui pensare che a me stesso".
                   Tacquero di
               nuovo, ma ora il silenzio si era fatto meno pesante.
               Elena guardò l'orologio, si stava facendo
               tardi. Doveva sbrigarsi se non voleva perdere l'aereo;
               prima di partire però voleva accompagnare suo
               figlio in bagno. Se Giorgio voleva, poteva aspettarla;
               altrimenti, si sarebbero detti subito
               addio.    "Ti
               aspetterò, Elena: io ho un po' più tempo
               per l'imbarco".     "Ero certa che
               mi avresti risposto così: che mi avresti detto
               che mi aspettavi, ma non  perché ti faceva
               piacere restare ancora e dilazionare l'addio, ma
               perché c'era un'altra ragione. Non sei cambiato
               affatto, Giorgio: adesso come allora, c'era e
               c'è sempre un'altra ragione: adesso ti sei
               inventato che mi aspetti per ingannare il tempo". 
                   "Se mi conosci
               e mi conoscevi così bene, perché
               all'epoca premesti tutti i tasti sbagliati?" le chiese
               lui.     "Ero troppo
               giovane, Giorgio: non è il caso di parlarne".
                   Chiamò
               allora François, lo prese per mano e
               s'incamminarono insieme verso i bagni. Trascorse un
               quarto d'ora prima che tornassero. Nel frattempo lei
               si era truccata ed un leggero sorriso illuminava
               adesso il suo volto: a Giorgio sembrò di
               rivedere la stessa Elena di un tempo.    Lei gli si
               accostò ed appoggiandogli una mano sulla spalla
               in un orecchio gli sussurrò: "Non sei cambiato
               affatto, Giorgio. Cerca di essere felice per quanto
               puoi". Fu lei ad abbracciarlo per prima; poi,
               ritraendosi bruscamente con gli occhi improvvisamente
               increspati, ripeté "io non posso guardare
               indietro, Giorgio, non posso".       Prese di nuovo
               la mano di François nella sua, si voltò
               di spalle e cominciò ad incamminarsi nel lungo
               corridoio dell'aeroporto. Lui avrebbe voluto fermarla,
               era un pezzo della sua vita che si stava eclissando.
               Cadde di nuovo pesantemente sulla sedia, mentre vedeva
               madre e figlio perdersi in lontananza fra la gente:
               erano ormai su una scala mobile, presto lui non
               sarebbe stato più in grado di distinguerli.
               Solo allora Giorgio notò la sagoma di lei che
               con la mano faceva un cenno di saluto, l'addio
               definitivo. Poi sparvero completamente.     Giorgio
               guardò l'orologio, per lui era ancora troppo
               presto per muoversi. Si chiese come avrebbe trascorso
               quel tempo. Si alzò dal tavolo e
               girovagò per un po' senza meta; poi
               s'infilò in un bagno. Aveva bisogno di urinare.
               Quand'ebbe finito, tirò su la chiusura lampo,
               si aggiustò la camicia nei pantaloni, ed
               uscendo dal bagno, vide la sua immagine riflessa in un
               grande specchio. Si aggiustò la cravatta,
               cercò di sistemarsi i capelli, ma la sua faccia
               gli parve senz'anima. Fece scivolare un po' di sapone
               nelle mani per lavarle; l'apparecchio dell'aria calda
               era rotto e nel bagno mancavano i rotoli di carta per
               asciugarsi. Si frugò così nelle tasche
               per trovare un pacchetto di fazzoletti. Non lo
               trovò, ma la sua mano urtò contro
               qualcosa di ruvido. Lo estrasse: si trattava di un
               foglio piegato in due, lo aprì. Era di Elena,
               sopra in una calligrafia minuta c'era scritto:
                
               
               
                      "Caro
                  Giorgio,  probabilmente,
                  non ci ha fatto bene rivederci. Adesso però
                  che sei lontano, posso essere sincera con te e
                  scriverti quelle cose che prima non ho avuto il
                  coraggio di dirti. Anche se ho cercato di
                  nascondere le mie emozioni, probabilmente non ci
                  sono riuscita affatto. Ti chiedo scusa per i miei
                  momenti di durezza, ma per me non è stato
                  affatto facile incontrarti, così
                  all'improvviso, dopo tanto tempo. Ero impreparata.
                  Anch'io ho provato le stesse emozioni che immagino
                  abbia avvertito tu: il tempo che è passato,
                  la distanza e la vicinanza. Ho avuto perfino il
                  desiderio di dirti che sono perfettamente felice,
                  sapendo di mentire. François, mio figlio,
                  è l'unica cosa che conti ormai nella mia
                  vita, l'unico essere che io ami veramente. Quanto
                  agli uomini, Louis è stato un ripiego, con
                  lui ho trovato la serenità, la pace, la
                  possibilità di parlare, ma non è
                  certo questo l'amore. La storia con Federico fu una
                  passione travolgente, questo lo sai. Come io sia
                  stata dopo, questo te l'ho detto già.
                      Non ti ho
                  detto però che sono stata sul punto di
                  ricercarti anch'io. Che non fosse giusto lo capivo
                  da me e sapevo anche che se fossimo tornati
                  insieme, tu mi avresti rinfacciato per sempre la
                  storia con Federico.     Io non
                  amo più nessuno e nemmeno te: sappi,
                  però, che se c'è stato un uomo che io
                  abbia veramente  amato nella vita, quello sei stato
                  proprio tu. Tu non l'hai capito quell'amore, l'hai
                  disprezzato, ti sei comportato come un elefante,
                  anzi un elefante depresso, sicché senza
                  volerti dare colpe, penso che fra le braccia di
                  Federico mi ci abbia buttato proprio tu.
                      So
                  benissimo che, a modo tuo, in mezzo a milioni di
                  difetti, qualche volta sai essere anche grande. Mi
                  secca dirlo, ma sei l'uomo più intelligente
                  che abbia mai incontrato. Ma, ti prego, se dovessi
                  capitare a Parigi, non cercarmi; fa' che
                  quest'incontro di oggi, rimanga quello che è
                  stato, un incontro casuale e basta. Anche se
                  è quasi impossibile che tu possa
                  rintracciarmi perché dell'Elena che sono
                  adesso tu ignori tutto, ti prego, non farlo mai.
                  Non turbare la mia pace per il tempo che mi resta
                  da vivere. Sì, hai letto bene,  il tempo che
                  mi resta da vivere.     Vedi,
                  è difficile dire ad un estraneo che incontri
                  per caso all'aeroporto  e con cui scambi quattro
                  chiacchiere, una cosa del genere: io ho il cancro.
                  E' cominciato al seno, pareva fossero riusciti a
                  prenderlo in tempo, ma dagli ultimi accertamenti
                  risultano metastasi diffuse. Forse
                  sopravviverò per qualche anno ancora
                  (come?), forse morirò prima, lasciando senza
                  madre un bambino piccolo ancora.     Ho paura
                  del futuro, Giorgio, ma di quello soltanto mi debbo
                  preoccupare, soprattutto per François.
                  Mentre eri con me, mi è venuto perfino in
                  mente che lui avrebbe potuto essere figlio tuo e mi
                  sono sentita una traditrice. Non ti avessi mai
                  incontrato oggi! Mi hai fatto del male. No, non
                  è vero, sono  ingiusta adesso: non è
                  stato solo doloroso rivederti, è stato dolce
                  e triste insieme. Non cercarmi mai però, te
                  lo ripeto e, mi raccomando, abbi  cura di te
                  stesso.
                  
                  
                                       Addio,
                                       Elena".
      Finito di
               leggere il biglietto, Giorgio sentì stringersi
               la gola, mentre le lacrime gli salivano agli occhi.
               Una parte di sé avrebbe voluto frenarle,
               un'altra avrebbe voluto cacciarle fuori e farlo
               scoppiare in un pianto dirotto. Sentì che il
               volto gli si stava rigando, ma dalla bocca non
               uscivano singhiozzi: era un pianto dignitoso il suo,
               forse nessuno l'avrebbe notato. Si asciugò gli
               occhi col palmo delle mani, prese il bagaglio a mano e
               percorse lo stesso corridoio di Elena. La sua uscita
               era un'altra. Salì inebetito sullo shuttle ed
               inebetito ne scese, gli parve di camminare in mezzo
               alla nebbia, in cui anche la paura di volare si andava
               dissolvendo. Dalla vetrata dell'aeroporto vide partire
               uno o due aerei. Si sedette nella sala d'attesa, il
               volo per New York sarebbe stato aperto di lì a
               poco.  |