- New
York
- Quella mattina,
Giorgio arrivò inquieto in aeroporto,
attanagliato dall'angoscia del volo imminente.
Sette/otto ore sopra un aereo gli parevano davvero
troppe, almeno per le sue attuali resistenze, se poi
di sette/otto ore soltanto si sarebbe trattato,
perché in agenzia gli avevano venduto un
biglietto per New York di una di quelle compagnie
americane, che magari mandano in giro vecchie carrette
senza manutenzione. Imbarcati i bagagli, per un po' si
aggirò tra la folla, poi gli parve meglio
togliersi da quella confusione e trovare un bar dove
sedersi in un posto tranquillo. Mancava ancora qualche
tempo alla partenza.
- "Ma, che uomo
sono diventato?" pensò con sconforto,
allungando il passo verso il primo caffè che
vide in lontananza. Quand'era giovane, sì che
aveva amato volare. Erano soprattutto i primi momenti
allora a piacergli: il rombo dei motori e la corsa
sulla pista, poi l'improvviso decollo e l'atmosfera
sospesa, con le luci abbassate. Tutto gli ricordava
l'orgasmo, anzi il più violento orgasmo che si
potesse immaginare; una volta, chissà dove,
aveva letto che a molti piloti era capitato in volo
perfino di eiaculare. A quel tempo, il volo gli
suscitava però anche un'altra forte emozione,
quella della libertà. Una soprattutto, gli era
rimasta impressa nella mente, durante un volo sul
Sahara verso l'America Latina. Tre ore di
libertà assoluta, a contemplare il deserto
bruciato dal sole, con la sua distesa illimitata di
sabbia e di scabri pendii rocciosi. Ricordava di
essersi sentito onnipotente: se avesse avuto un
paracadute, si sarebbe buttato giù dall'aereo:
così almeno gli piaceva pensare adesso,
perché allora era convinto di poter affrontare
qualsiasi difficoltà, bastava che lo volesse.
Quando il Sahara finì, l'Oceano, che si
stagliò improvviso all'orizzonte, gli parve
promettere nuove ed impensate libertà.
- Passati i
quarant'anni - e li aveva passati da un pezzo -
Giorgio però era cambiato. Non che avesse
smesso di amarlo il volo, anzi. Né gli pareva
che il mutamento dipendesse soltanto da una
giustificata, perché più vicina, paura
della morte. La verità era che ogni volo,
soprattutto al decollo, gli faceva riaffiorare alla
mente, tutti insieme, i desideri ardenti e delusi del
passato: la promessa non mantenuta della vita
diventava allora troppo dolorosa da sopportare. La
delusione delle speranze a poco a poco si era
trasformata in lui in una vera e propria malattia,
perché, a torto o a ragione, si era convinto di
non essere mai approdato nel posto giusto, in quello
dove avrebbe voluto, fosse stato anche il deserto, e
neppure in uno vicino, ma sempre e soltanto
altrove.
- Intanto, aveva
raggiunto il bar e si era seduto ad un tavolo. Chiese
un caffè e nell'attesa, provò a
sfogliare il giornale, ma non riuscì a leggere
altro che qualche titolo qua e là.
L'inquietudine stava aumentando: a parte la paura del
volo, c'era il pensiero della conferenza da tenere a
New York e, ancora una volta, si chiese perché
mai avesse accettato l'invito di Joan. Non ci avrebbe
guadagnato niente a parlare di archeologia
laggiù né aveva un desiderio particolare
di vedere la città, perché a New York
lui c'era già stato, prima che l'idea di salire
su un aereo fosse diventata una delle sue paure
più paralizzanti.
- Perso in questi
pensieri, Giorgio notò al tavolo accanto una
donna con un bambino di sei o sette anni in braccio:
dovevano essere lì da poco, perché prima
il tavolo era vuoto. La donna era proprio di fronte a
lui, sicché, ad un certo punto i loro sguardi
s'incrociarono. Si fissarono per un po': il viso di
lei iniziò a tradire qualche imbarazzo, lui fu
preso dall'emozione. Si erano riconosciuti ed entrambi
sapevano che era troppo tardi per far finta di niente.
- "Elena", disse
lui e non riuscì ad aggiungere altro. Lei si
guardò attorno, quasi ad accertarsi che nessun
altro avesse sentito il suo nome. Poi, tornò a
guardarlo senza dire niente, forse lo stava studiando.
Oppure non sapeva bene che cosa dovesse fare.
- Lui disse ciao;
lei fece altrettanto ma la sua voce era distaccata e
distante. Giorgio fu in dubbio se dovesse alzarsi ed
andarle vicino, ma si frenò e continuò a
guardarla in silenzio. Nessun segnale gli arrivava da
lei. "Ti dà noia vedermi? Vuoi che me ne vada?"
le chiese infine, stufo di quella situazione. "Fa'
come credi" rispose lei freddamente.
- Non c'era alcun
motivo per farsi umiliare, Giorgio recuperò la
borsa e il giornale e si alzò, deciso ad
andarsene. Aveva già fatto qualche passo,
quando sentì Elena che lo stava chiamando. Si
voltò e guardandola in faccia, rimase in
attesa. Lei si scusò, non aveva avuto
l'intenzione di offenderlo, restasse pure se lo
voleva.
- "Posso sedermi
al tuo tavolo?" chiese lui. Elena rispose di sì
e, sistemando il bambino sulla sedia accanto, gli
disse che quello era suo figlio.
- "Come si
chiama?" domandò Giorgio. "François"
- Giorgio fu
sorpreso dal nome, ma non disse niente; si
limitò ad un cenno di saluto al bambino, che
abbassò la testa senza rispondere. Poi, mentre
si sedeva, buttò lì la prima frase che
gli venne in mente: "non trovi strano dopo tanto
tempo, incontrarsi qui in aeroporto in mezzo a tanta
gente?"
- Elena rispose
sì, con l'aria di chi stesse pensando ad altro.
Nel bar era entrato intanto un gruppo di bambini che,
seguiti dai genitori, si erano messi subito a
strillare e a rincorrersi fra i tavoli creando una
grande confusione. Qualcuno degli adulti li aveva
rimproverati e, dopo un'iniziale resistenza, i bambini
si erano infine calmati per dedicarsi a giochi
più tranquilli e pareva si divertissero anche
così. François, che si stava annoiando,
appena li vide disse alla madre che voleva andare
anche lui a giocare con loro. Ottenne il permesso a
patto che si tenesse sempre sott'occhio. Il bambino si
alzò e poco dopo faceva già parte del
gruppo.
- "E' molto
socievole" disse compiaciuta Elena. "Sì, lo
vedo" fece Giorgio.
- Tacquero
entrambi poi, ognuno stava rincorrendo i suoi
pensieri. Fu Giorgio a riprendere la parola e le
chiese se volesse un caffè, ne avrebbe preso
volentieri un altro anche lui. Elena rispose di
sì, ma la sua voce aveva ripreso ad essere
distante: adesso, senza il figlio, doveva sentirsi
più vulnerabile. Con la testa abbassata, si era
messa a frugare nella borsa appoggiata sul tavolo.
Quando rialzò lo sguardo, si scontrò con
quello di lui, che la fissava curioso.
- "Perché
mi guardi così?" gli domandò irritata.
"Come ti sto guardando?" "Come se volessi spiarmi".
- Estraendo da
una tasca un pacchetto di sigarette, Giorgio glielo
mostrò: "Forse cercavi questo?" "Ho smesso da
tempo di fumare e poi qui è vietato". Elena
aveva detto quella frase con ostilità. Giorgio
pensò che non era stata una buona idea sedersi
al tavolo di lei. Sarebbe stato meglio trovare subito
una scusa ed andarsene. Guardò l'orologio
pronto a dire che non si era accorto di quanto si
fosse fatto tardi, quando arrivò il cameriere
con i caffè. Li bevvero in silenzio. A Giorgio
parve che fosse giunto il momento di congedarsi, ma
mentre stava per aprire la bocca, lei lo prevenne. E
cambiando il tono della voce, mormorò di nuovo
qualche parola di scusa: "Sai questi giorni a Roma ho
avuto molte cose da fare e mi sono stancata
terribilmente".
- Giorgio le
disse di non preoccuparsi, che a volte succedeva anche
a lui, quando si sentiva nervoso, di prendersela con
chi non c'entrava niente. "Me lo ricordo"
sussurrò lei. Giorgio finse di non aver sentito
e, rassegnato alla situazione, le chiese dove stesse
andando.
- "A Parigi,"
rispose lei "sai, vivo lì da molti anni con mio
marito".
- "Dunque, l'hai
sposato?" l'interruppe lui.
- "Chi?"
- "Federico: non
è con lui che vivi a Parigi?"
- No, non era
Federico il marito, le disse lei, quasi sorpresa che
Giorgio avesse potuto pensarlo. Poi, di nuovo rimasero
in silenzio.
- "Hai messo gli
occhiali, vedo" fece ad un certo punto lei, che si era
messa a guardarlo più attentamente.
- "Sai, soffro di
astigmatismo e da poco sono diventato anche presbite".
- "Beh, questi
occhiali - la montatura è al titanio vero? -
non ti stanno male, ti rendono più
interessante".
- "Grazie"
rispose lui, "anche tu stai molto bene".
- "Trovi?"
- Ancora una volta,
il dialogo s'interruppe, perché nessuno dei due
sapeva come continuare. Giorgio si stava sforzando di
trovare qualche argomento, uno magari non troppo
neutro, ma in mente non gli veniva proprio
niente.
- "Stai andando
in vacanza?" riprese lei dopo un po' di
tempo.
- "No, sto
andando a New York per una conferenza che mi ha
costretto a Roma per tutto il mese di agosto".
- "Dunque,
parlerai?" "Sì". "In inglese o in italiano?"
- "Ancora non lo
so" ed aggiunse anche di non sapere bene perché
avesse accettato l'invito, dal momento che non ci
guadagnava niente né economicamente né
professionalmente.
- "Beh, almeno
New York è una città interessante",
disse lei.
- "Io,
però, ci sono già stato e non ho un
desiderio particolare di tornarci".
- Tacquero di nuovo e
quando ripresero a parlare, si ritrovarono a discutere
del clima di Roma e di Parigi, dell'inquinamento
dell'aria e dello scadimento dei programmi
televisivi. Quei discorsi, fatti tanto per parlare,
erano più frustranti del silenzio.
- "E' mai
possibile che, dopo tanto tempo che non ci vediamo,
noi due ci si debba mettere a parlare di queste cose,
quasi fossimo due estranei?" le chiese lui.
- "Ma, lo siamo
ormai e da molto tempo".
- "E' vero, ma
non potremmo essere un po' meno formali?"
- "Per esempio?"
- "Per esempio,
dimmi almeno quando sei venuta a Roma e
perché?"
- Lei gli
rispose di essere arrivata una settimana prima per
incontrarsi col fratello. Insieme a lui, doveva
risolvere il problema dell'appartamento dei genitori,
dopo che suo padre era morto e la madre si era
trasferita a Parigi con lei. La madre non se l'era
sentita di tornare a Roma, soffriva di una forte
depressione, e neppure Louis, suo marito, aveva potuto
accompagnarla, perché era sempre troppo
impegnato col lavoro.
- "Che cosa fa?"
- "E' chirurgo
presso un ospedale parigino. Lo chiamano a tutte le
ore, anche di notte"
- "Come l'hai
conosciuto?"
- "Ma cosa vuoi,
che ti racconti tutta la mia vita?" esclamò lei
di nuovo ostile.
- Giorgio
pensò che forse stavolta aveva ragione lei e le
chiese scusa, ma Elena doveva essersi pentita della
sua frase aspra, perché subito dopo aggiunse di
aver conosciuto Louis per caso, durante una cena in
casa d'amici. "Sai" gli disse "la mia storia con
Federico si concluse dopo qualche mese ed io ne uscii
a pezzi; per molto tempo sentii il bisogno di restare
sola con me stessa. Se me l'avessero detto prima, non
avrei mai immaginato che quella sera, accettando
l'invito a cena, avrei conosciuto l'uomo giusto,
quello che più tardi sarebbe diventato mio
marito".
- Giorgio la
stette a sentire e alla fine si accorse che stava
camminando ormai sulla strada dei ricordi.
Benché tutto fosse così lontano, gli
venne in mente un viaggio che loro due avevano fatto
insieme in Grecia, forse una ventina d'anni prima.
L'aeroporto era molto cambiato, ma chissà,
allora forse erano seduti più o meno allo
stesso posto, magari lui vestito in jeans e Lacoste e
lei in pantaloni sportivi e scarpe da ginnastica. Si
frenò però, ignorava tutto della donna
che aveva davanti anche se quell'incontro casuale non
poteva essere indifferente per nessuno dei due: c'era
di mezzo la giovinezza e le speranze perdute.
- Elena era
leggermente ingrassata e questo la rendeva più
bella. Portava ancora i capelli scuri sciolti sulle
spalle, solo un po' più corti di allora e non
dimostrava affatto di aver passato i quarant'anni.
Quel corpo che, quando l'aveva conosciuto lui, era
ancora acerbo, si era riempito ai fianchi, sul seno,
trasformando l'adolescente di un tempo in una donna
vera.
- Si sorprese ad
immaginare di fare di nuovo l'amore con lei: sarebbe
stato così difficile come allora? Si
domandò pure che cosa stesse pensando Elena di
lui, se lo trovasse invecchiato, magari un po' curvo
sulle spalle e quasi si vergognò dei peli
bianchi che avevano cominciato ad ingrigire la sua
barba.
- L'unica frase
che gli passava per la testa però era "ti
ricordi?" E sebbene sapesse di non poterla né
doverla pronunciare, alla fine, stanco di girare a
vuoto colle parole, si lasciò andare.
- "E' difficile
parlare dopo tanto tempo...me ne rendo conto.
Però, se ci è capitato d'incontrarci,
ecco, io pensavo che avremmo potuto essere un po' meno
ipocriti e accennare anche a qualcos'altro".
- "A cosa?"
domandò lei.
- "Per esempio,
anche a noi due ", azzardò lui.
- "Sei impazzito?
Guarda, che quando tu mi hai chiamato, io mi sono
chiesta se non era meglio lasciar correre, dirti che
avevo fretta, salutarti ed andarmene. Averti
incontrato dopo così tanto tempo non è
facile per me. Figurati, se ho voglia di accennare al
nostro passato".
- "Proprio
perché tanto tempo è trascorso, non
capisco perché tu abbia voluto cancellarlo".
- "Smettila, io
non ne voglio proprio parlare del passato, tanto meno
del nostro. Penso che tu sia veramente pazzo; anche
quando stavamo insieme non facevi che parlare del
passato tu, della tua infanzia, di quando andavi a
scuola, della donna che avevi avuto prima di me. Sei
malato e, con gli anni, addirittura peggiorato! A me
tutto questo non interessa più".
- Giorgio tacque
e di nuovo pensò che avesse ragione lei. Non
aveva alcun senso rimestare nei ricordi, era
necessario guardare avanti, anche se lui il suo futuro
non riusciva proprio a vederlo.
- "Questa
è l'ultima volta che c'incontriamo" gli disse
lei.
- "E' molto
probabile, specialmente se nessuno dei due
cercherà l'altro. Io, per la verità,
dopo che tu te ne andasti con Federico, continuai a
cercarti, ma tu non mi rispondesti mai, tranne la
prima volta per mandarmi al diavolo. Ho pensato che tu
davvero non mi sopportassi più, che io ti fossi
ormai completamente indifferente o che addirittura mi
odiassi"
- "Sì, io
ti ho odiato," confermò lei "poi però
è subentrata l'indifferenza. Ma ritornare a
parlare del passato, Giorgio, questo davvero non lo
voglio, mi fa male. Io non posso più guardare
indietro, come feci con te per anni, ma solo avanti".
- "Tu, Elena,
certo lo puoi fare, anzi lo devi fare: hai un figlio.
Io, no; io non posso. Non è nel mio carattere e
non ho altri a cui pensare che a me stesso".
- Tacquero di
nuovo, ma ora il silenzio si era fatto meno pesante.
Elena guardò l'orologio, si stava facendo
tardi. Doveva sbrigarsi se non voleva perdere l'aereo;
prima di partire però voleva accompagnare suo
figlio in bagno. Se Giorgio voleva, poteva aspettarla;
altrimenti, si sarebbero detti subito
addio.
- "Ti
aspetterò, Elena: io ho un po' più tempo
per l'imbarco".
- "Ero certa che
mi avresti risposto così: che mi avresti detto
che mi aspettavi, ma non perché ti faceva
piacere restare ancora e dilazionare l'addio, ma
perché c'era un'altra ragione. Non sei cambiato
affatto, Giorgio: adesso come allora, c'era e
c'è sempre un'altra ragione: adesso ti sei
inventato che mi aspetti per ingannare il tempo".
- "Se mi conosci
e mi conoscevi così bene, perché
all'epoca premesti tutti i tasti sbagliati?" le chiese
lui.
- "Ero troppo
giovane, Giorgio: non è il caso di parlarne".
- Chiamò
allora François, lo prese per mano e
s'incamminarono insieme verso i bagni. Trascorse un
quarto d'ora prima che tornassero. Nel frattempo lei
si era truccata ed un leggero sorriso illuminava
adesso il suo volto: a Giorgio sembrò di
rivedere la stessa Elena di un tempo.
- Lei gli si
accostò ed appoggiandogli una mano sulla spalla
in un orecchio gli sussurrò: "Non sei cambiato
affatto, Giorgio. Cerca di essere felice per quanto
puoi". Fu lei ad abbracciarlo per prima; poi,
ritraendosi bruscamente con gli occhi improvvisamente
increspati, ripeté "io non posso guardare
indietro, Giorgio, non posso".
- Prese di nuovo
la mano di François nella sua, si voltò
di spalle e cominciò ad incamminarsi nel lungo
corridoio dell'aeroporto. Lui avrebbe voluto fermarla,
era un pezzo della sua vita che si stava eclissando.
Cadde di nuovo pesantemente sulla sedia, mentre vedeva
madre e figlio perdersi in lontananza fra la gente:
erano ormai su una scala mobile, presto lui non
sarebbe stato più in grado di distinguerli.
Solo allora Giorgio notò la sagoma di lei che
con la mano faceva un cenno di saluto, l'addio
definitivo. Poi sparvero completamente.
- Giorgio
guardò l'orologio, per lui era ancora troppo
presto per muoversi. Si chiese come avrebbe trascorso
quel tempo. Si alzò dal tavolo e
girovagò per un po' senza meta; poi
s'infilò in un bagno. Aveva bisogno di urinare.
Quand'ebbe finito, tirò su la chiusura lampo,
si aggiustò la camicia nei pantaloni, ed
uscendo dal bagno, vide la sua immagine riflessa in un
grande specchio. Si aggiustò la cravatta,
cercò di sistemarsi i capelli, ma la sua faccia
gli parve senz'anima. Fece scivolare un po' di sapone
nelle mani per lavarle; l'apparecchio dell'aria calda
era rotto e nel bagno mancavano i rotoli di carta per
asciugarsi. Si frugò così nelle tasche
per trovare un pacchetto di fazzoletti. Non lo
trovò, ma la sua mano urtò contro
qualcosa di ruvido. Lo estrasse: si trattava di un
foglio piegato in due, lo aprì. Era di Elena,
sopra in una calligrafia minuta c'era scritto:
-
- "Caro
Giorgio,
-
- probabilmente,
non ci ha fatto bene rivederci. Adesso però
che sei lontano, posso essere sincera con te e
scriverti quelle cose che prima non ho avuto il
coraggio di dirti. Anche se ho cercato di
nascondere le mie emozioni, probabilmente non ci
sono riuscita affatto. Ti chiedo scusa per i miei
momenti di durezza, ma per me non è stato
affatto facile incontrarti, così
all'improvviso, dopo tanto tempo. Ero impreparata.
Anch'io ho provato le stesse emozioni che immagino
abbia avvertito tu: il tempo che è passato,
la distanza e la vicinanza. Ho avuto perfino il
desiderio di dirti che sono perfettamente felice,
sapendo di mentire. François, mio figlio,
è l'unica cosa che conti ormai nella mia
vita, l'unico essere che io ami veramente. Quanto
agli uomini, Louis è stato un ripiego, con
lui ho trovato la serenità, la pace, la
possibilità di parlare, ma non è
certo questo l'amore. La storia con Federico fu una
passione travolgente, questo lo sai. Come io sia
stata dopo, questo te l'ho detto già.
- Non ti ho
detto però che sono stata sul punto di
ricercarti anch'io. Che non fosse giusto lo capivo
da me e sapevo anche che se fossimo tornati
insieme, tu mi avresti rinfacciato per sempre la
storia con Federico.
- Io non
amo più nessuno e nemmeno te: sappi,
però, che se c'è stato un uomo che io
abbia veramente amato nella vita, quello sei stato
proprio tu. Tu non l'hai capito quell'amore, l'hai
disprezzato, ti sei comportato come un elefante,
anzi un elefante depresso, sicché senza
volerti dare colpe, penso che fra le braccia di
Federico mi ci abbia buttato proprio tu.
- So
benissimo che, a modo tuo, in mezzo a milioni di
difetti, qualche volta sai essere anche grande. Mi
secca dirlo, ma sei l'uomo più intelligente
che abbia mai incontrato. Ma, ti prego, se dovessi
capitare a Parigi, non cercarmi; fa' che
quest'incontro di oggi, rimanga quello che è
stato, un incontro casuale e basta. Anche se
è quasi impossibile che tu possa
rintracciarmi perché dell'Elena che sono
adesso tu ignori tutto, ti prego, non farlo mai.
Non turbare la mia pace per il tempo che mi resta
da vivere. Sì, hai letto bene, il tempo che
mi resta da vivere.
- Vedi,
è difficile dire ad un estraneo che incontri
per caso all'aeroporto e con cui scambi quattro
chiacchiere, una cosa del genere: io ho il cancro.
E' cominciato al seno, pareva fossero riusciti a
prenderlo in tempo, ma dagli ultimi accertamenti
risultano metastasi diffuse. Forse
sopravviverò per qualche anno ancora
(come?), forse morirò prima, lasciando senza
madre un bambino piccolo ancora.
- Ho paura
del futuro, Giorgio, ma di quello soltanto mi debbo
preoccupare, soprattutto per François.
Mentre eri con me, mi è venuto perfino in
mente che lui avrebbe potuto essere figlio tuo e mi
sono sentita una traditrice. Non ti avessi mai
incontrato oggi! Mi hai fatto del male. No, non
è vero, sono ingiusta adesso: non è
stato solo doloroso rivederti, è stato dolce
e triste insieme. Non cercarmi mai però, te
lo ripeto e, mi raccomando, abbi cura di te
stesso.
- Addio,
Elena".
-
- Finito di
leggere il biglietto, Giorgio sentì stringersi
la gola, mentre le lacrime gli salivano agli occhi.
Una parte di sé avrebbe voluto frenarle,
un'altra avrebbe voluto cacciarle fuori e farlo
scoppiare in un pianto dirotto. Sentì che il
volto gli si stava rigando, ma dalla bocca non
uscivano singhiozzi: era un pianto dignitoso il suo,
forse nessuno l'avrebbe notato. Si asciugò gli
occhi col palmo delle mani, prese il bagaglio a mano e
percorse lo stesso corridoio di Elena. La sua uscita
era un'altra. Salì inebetito sullo shuttle ed
inebetito ne scese, gli parve di camminare in mezzo
alla nebbia, in cui anche la paura di volare si andava
dissolvendo. Dalla vetrata dell'aeroporto vide partire
uno o due aerei. Si sedette nella sala d'attesa, il
volo per New York sarebbe stato aperto di lì a
poco.
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