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               Primo
               amore Lungo
               il viale sotto casa gli alberi erano fioriti. Mi
               dimenticavo sempre dell'arrivo della primavera fino a
               quando non me ne trovavo dentro. Per quello che potevo
               dire io, nei miei dieci anni di vita era sempre
               arrivata prima o poi, ma non mancava mai di stupirmi.
               Corsi fino alla camera di mia sorella e le diedi la
               notizia, che accettò con un sorriso
               divertito.Mia
               sorella. Per quanto mi sforzi, davvero non ricordo
               d'averla mai vista bambina. Mi dicono che ero troppo
               piccolo. A dir la verità mi ero effettivamente
               reso conto della nostra differenza non molto tempo
               prima, quando mi ero trovato davanti allo specchio con
               lei. Conoscevo il significato di crescere, anch'io del
               resto non ero uguale a quand'ero nato. Eppure era un
               mistero che mi lasciava senza fiato. I dieci anni che
               mia sorella aveva più di me si erano raccolti
               nelle gambe e nelle braccia. Accanto a lei, in quel
               momento, mi sentii assurdamente piccolo. I
               sorrisi di mia sorella variavano a seconda del suo
               umore, ma non mancava mai di farli. Quella mattina
               tornai nella mia stanza vagamente preoccupato.
               Ricordavo d'averla vista felice in molti modi diversi,
               ma quello mi era del tutto sconosciuto. Qualcosa era
               cambiato, qualcosa che non capivo ma che lasciava ad
               intendere che io non ne ero compreso.Sono
               nato in una famiglia dove è abitudine chiedere
               se non si sa qualcosa. Così andai da mia madre
               e le feci la domanda più logica del mondo.
               "Cos'è successo a mia sorella?". La risposta fu
               altrettanto logica. Si era innamorata. Conosco
               il significato di molte parole, me le faccio spiegare
               perché mi piace seguire le conversazioni degli
               adulti e capire cosa dicono. Per questo dicono che
               sono sveglio. Purtroppo, però, certe cose
               ancora mi sfuggivano. L'amore su tutto. Sapevo di
               essere nato dall'amore dei miei genitori. Sapevo di
               amarli.Sapevo
               d'amare mia sorella. Eppure non riuscivo ad afferrare
               i perché e i come. Quindi questa notizia mi
               agitò parecchio. All'età di dieci anni
               il mio mondo stava inevitabilmente
               cambiando. Dalla
               porta socchiusa della camera sentivo la sua voce
               allegra. Cantava una canzone accompagnata dalla radio.
               Mi accostai e iniziai ad osservarla. Avevo sentito
               dire che l'amore trasforma le persone. Eppure quella
               era mia sorella. I suoi capelli, le sue gambe, le sue
               mani. Mi allontanai perplesso. Non ero l'unico quindi
               ad avere le idee confuse sull'amore. Mi sentii
               sollevato. Venne a chiamarmi, poco dopo, in camera
               mia. Di nuovo con quel sorriso strano. In
               quell'istante capii per la prima volta una cosa
               riguardo l'amore. È qualcosa che aggiunge, non
               che trasforma. La semplicità di quella
               deduzione mi colpì come se fosse una
               banalità. Eppure non riuscivo a smettere di
               sentirmi derubato. Quel
               pomeriggio lei uscì di casa presto e io mi
               fermai a guardarla allontanarsi dalla finestra della
               mia camera. Camminava sotto gli alberi in fiore. Era
               bella come le signorine di certe stampe giapponesi che
               avevo visto, ferme in una nube di petali rosa coi loro
               ombrelli di carta di riso e i visi pallidi. Era
               altrettanto bella. La sensazione che mi avessero
               rubato qualcosa aumentò
               vertiginosamente. Mia
               sorella stava spesso nella sua camera e io di tanto in
               tanto la raggiungevo. In quei momenti, seduto sul
               letto, mi dedicavo ad una cauta osservazione, finendo
               poi per addormentarmi. Quando mi svegliai, quel
               giorno, lei stava parlando al telefono. La sua voce
               era dolce, quasi un soffio. Iniziai a sentirmi a
               disagio, infastidito e arrabbiato. Mi sentivo qualcosa
               dentro, nello stomaco, e mi faceva male. Cominciai a
               piangere senza fare rumore, non volevo che mi vedesse
               così. Avrei dovuto spiegarle perché e
               non sapevo dirlo neanche a me stesso. Nella mia testa,
               come una trottola girava un solo pensiero. In quel
               cambiamento non c'era spazio per me. Ero geloso. Poi,
               stanco di quel pianto, mi riaddormentai. Una
               mattina di quella primavera, lei ed io uscimmo.
               Camminavamo
               e mi teneva la mano. Il calore di quel contatto mi
               entrava nel cuore. Le volevo bene, qualunque cosa
               significasse quella frase. Mi parlava, spiegandomi le
               cose che le chiedevo, con un tono sereno e tranquillo.
               Osservavo il profilo del suo viso, i movimenti che si
               creavano formulando parole e pensieri. I capelli che
               dondolavano al ritmo dei suoi passi e le risate che
               riempivano il silenzio nell'aria. Seduti sulla
               panchina di un parco, mi permisi di osservarla di
               nuovo. Le gambe accavallate, un piede che dondolava
               come se seguisse un ritmo che io non sentivo. Le mani
               incrociate sul grembo, gli occhi socchiusi alla luce
               del sole. Mi decisi a parlare. "Tu sei innamorata".
               Non era una domanda, si trattava di una semplice
               constatazione. Il suo piede si era bloccato nello
               stesso istante in cui posava gli occhi su di me. Aveva
               la bocca socchiusa come se si fosse gelata nel momento
               di pronunciare una frase. Mi scrutò per qualche
               istante, facendomi arrossire. Mi alzai dalla panchina
               cercando di sembrare tranquillo, infilando le mani
               nella tasca dei pantaloni. Era un gesto che avevo
               visto fare da un attore in televisione e mi era
               piaciuto, dava l'impressione d'essere molto sicuro di
               sé. Probabilmente su di me, un bambino di dieci
               anni, risultava ridicolo. "Sono geloso". Quello
               che successe dopo nella mia mente occupò lo
               spazio di un'eternità. La mano di mia sorella
               mi aveva afferrato il gomito e trascinato vicino a
               sé. Non riuscivo a guardarla in faccia. Le
               lacrime mi riempivano gli occhi. Un pugno si
               fermò sulla mia testa, non tanto da farmi male
               ma sufficiente a risvegliarmi dal mio pianto. "Sei uno
               sciocco". La voce di mia sorella mi riempiva la testa,
               svuotandola da qualsiasi altro pensiero. Quel pugno si
               era sciolto e la sua mano aperta mi proteggeva la
               testa. "Se anche fossi innamorata, perché
               dovresti essere geloso?". Rimase silenziosa. Forse si
               aspettava che le dicessi qualcosa, che le spiegassi,
               ma come ne sarei stato capace? Ero solo un bambino e
               dovevo darle ragioni su cose così imprecise e
               sfumate che io per primo non sapevo mettere in ordine.
               "Siamo fratello e sorella" la sua voce aveva ripreso a
               parlarmi" e questo non ce lo può togliere
               nessuno. Per quello che so io, ti vorrò sempre
               bene". La sua mano mi aveva alzato il viso. Per tutta
               la vita ricorderò le labbra di mia sorella
               mentre pronunciavano "Anche questo è amore,
               sai?".Quella
               sera, nel mio letto, piansi ancora un po'. Erano
               passati parecchi giorni da allora. Anche se ci
               sfioravamo appena, lei presa da troppi impegni e io
               fuori della sua vita, continuavo a sentirla vicina.
               Era la radio che suonava dalla porta chiusa della
               camera. Era la voce che mi chiamava per la cena. Era
               il suo cappotto appoggiato di fretta sulla
               poltrona. Quel
               pomeriggio tornavo a casa, salendo piano le scale e
               contando i gradini. Mia sorella era seduta sul
               pianerottolo fuori della porta. Le ginocchia raccolte
               nelle braccia, stringendosi tutta come se avesse la
               paura di finire in pezzi. La salutai sedendomi accanto
               a lei. Stava lì, ferma e abbandonata. Una
               bambola di pezza. Non sapevo cosa dire quindi pensai
               di rimanere in silenzio. Le guardavo le braccia. Le
               mani le stringevano così forte che le nocche
               erano bianche. Non capivo e quando mi succedeva mi
               agitavo. Poi, lentamente, mia sorella alzò la
               testa. Il suo volto circondato dai capelli scuri,
               quegli occhi un po' tristi, le labbra increspate
               appena da un sorriso leggero. Non mi ero mai reso
               conto di quanto assomigliasse alla mamma. O forse non
               me n'ero accorto perché era fin troppo
               evidente. Guardai le mie gambe e le mie braccia secche
               di bambino. Con lei seduta accanto, mi sembrarono
               troppo corte. Non sarei stato in grado di
               raggiungerla. Non avrei avuto modo di arrivare al suo
               collo e abbracciarla forte. Mia sorella, al mio
               fianco, era troppo lontana. Non
               capii mai come l'amore che le aveva dato quei sorrisi
               se li fosse ripresi. Non capii mai se in fondo fosse
               ancora innamorata. Ricordo però quella
               tristezza che faceva male al cuore. Forse era
               perché non piangeva e per questo mi
               sembrò infinitamente più doloroso. Io se
               mi sfogavo, mi sentivo meglio. Il vederla trattenere
               ogni emozione, ogni ricordo mi fece pensare che forse
               non voleva sentirsi meglio. Non mi capacitavo di una
               scelta simile. Non potevo pensare, allora, che
               fermarsi nel proprio dolore a volte è il modo
               migliore per superarlo. Non
               ci scambiammo una parola, io avevo paura di dire
               qualcosa di sbagliato. L'idea di rovinare quel momento
               mi terrorizzava. Mia sorella, chiusa tra le braccia e
               i capelli spettinati, era lì per me e solo io
               c'ero e potevo esserle d'aiuto. Anche se questo voleva
               dire starle semplicemente accanto,
               silenzioso. Crescendo
               non posso dire di aver capito qualcosa in più
               riguardo l'amore. Semplicemente ho rinunciato a farlo.
               Mia sorella mi dice, prendendomi in giro, che sono
               troppo occupato a pensare ai sorrisi della mia
               compagna di classe. In fondo anche questo è
               vero. Come è altrettanto vero che, per qualche
               strana alchimia, diventando più grande sono
               cambiato. Gli anni tra me e mia sorella, pur rimanendo
               gli stessi, si sono assottigliati e quasi non si
               sentono più. Solo certe volte, mi guardo allo
               specchio e ancora vedo quel corpo secco e troppo corto
               di bambino. Assurdamente piccolo. E
               sorrido. |