- Invadente
come l'anima in corpo
-
- C'era odore di fumo
di sigaretta nella stanza. Si mischiava all'odore
lento di polvere e di cantina, di profumi e sudore, di
bianco. Era una stanza piccola, con sedie di legno per
gli spettatori. Al centro della stanza-teatro stava un
piccolo palco di legno più scuro, rotondo, alto
un metro circa sopra il pavimento. C'era un'unica
luce, di lato, dall'alto, una specie di faro o occhio
di bue che oscurava completamente le persone. Fissava
la sedia di legno sul palco, vuota. Si poteva stare in
disparte, anonimi quanto bastava quella sera, o con
occhi aperti, nascosti. C'era rumore di sedie spostate
e qualche riso d'adolescente. C'era rumore quasi
lontano di tosse di vecchio, come dietro una mano. Una
signora agitava nervosa e impaziente il ventaglio.
C'era rumore di respiro affannato di un cane, e di
bracciali di donna. C'era rumore di universi, silenzi
di vite diverse. Rumore di un piede di uomo che
tacchettava il pavimento. Rumore, assordante, di
pensieri. C'era rumore di gesti veloci e di suoni
incostanti, come di chi ricorda all'improvviso una
cosa. C'era rumore di chi ritrova ad un tratto
un'espressione di un volto lontano che non si è
portato via il suo ricordo. Ogni tanto si apriva e
chiudeva la porta dietro le spalle delle ultime sedie
ed entrava qualcuno e qualcosa; una manciata di luce
tagliava il fumo e l'umidità, li quantificava,
dava corpo alle ombre. Si sentiva allora rumore di
capelli sciolti, di sciarpe smosse sulle spalle, di
ossa irrigidite dietro lo schienale della sedia, di
gambe incrociate. O rumori di gola, di gomma da
masticare. C'era rumore di sigaretta e di fumo. Rumore
di bicchiere pieno a metà che veniva agitato
con movimenti impercettibili dei polsi. Qualcuno si
teneva per mano. Qualcuno si interrogava, aspettando.
La stanza si trovava nello scantinato di un teatro
nella grande città. Se le luci fossero state
accese si sarebbe vista una stanza drappeggiata di
bianco, con vecchie tende e sceneggiature fatte di
veli, e un divano bianco nell'angolo, sporco, catasta
di lampade usate. Alcune stoffe erano calpestate, mai
messe a posto, e facevano rumore di passi. Quello che
abbiamo di certo, forse, nella vita, non è
altro che la causa-effetto della mancanza di magia che
ci è strappata nell'anima, e che racconta
incessantemente parole che possiamo soltanto ben
definire, capire, senza che mai ci parli davvero. Era
forse questa magia che si aspettava tutta quella gente
affollata, che non aveva pagato niente e si era
portata da bere da casa. Alcuni tornavano da tre mesi,
ogni giorno che il teatro grande era chiuso. Altri
avevano incrociato per strada qualcuno che raccontava
di un ragazzo pensoso con la chitarra, che di giorno
studiava di cose incomprensibili su universi di tempi
immaginari e poi andava al supermercato e poi tornava
a casa a vivere e amare come tutti gli altri, ma che
una notte a settimana dava appuntamento alla sua
anima, per parlarsi di cose belle e cose brutte, da
soli, loro due, nello scantinato di un teatro. Il
ragazzo aveva trovato quel posto cercando l'uscita del
teatro, una sera di un certo spettacolo, e vi aveva
trovato una chitarra, e aveva cominciato a suonare,
credendo che se ne fossero andati tutti. Se ne era
stato lì, ad occhi chiusi, seduto su una sedia
di legno circondato da tende bianche, rapito da un
dialogo che non riusciva ancora a decifrare, da una
nota che non sapeva ancora scegliere. Una donna delle
pulizie lo trovò così, spegnendo la luce
per sbaglio, che nemmeno si accorse di
lei.
- Lui suonava la
chitarra quasi stesse facendo l'amore.
- Le note dalle corde
impolverate potevano penetrarti nella pelle come spine
e piantarsi dritte tra lo sterno e le vertebre,
potevano attaccarti l'anima al corpo, quasi a farti
male, senza darti il tempo nemmeno, o la coscienza, di
fare qualcosa. Forse questo faceva, con tanta
intensità e lentezza... stringeva tra le dita
l'anima, teneva la musica con mani emozionate, la
accarezzava quasi afferrandola. Come fosse un corpo di
donna... la disarmava, lasciando che la piccola danza
del sangue si strappasse nella fisicità di una
passione inevitabile... tratteneva negli occhi le
lacrime di un pensiero che non aveva bisogno di
logica... che era una sorpresa inespressa, un pugno
della vita, acqua fredda sulla faccia. Il ragazzo se
ne stava lì immobile, lui che di solito
slacciava i suoi mille pensieri nei movimenti della
testa e delle spalle. Immobile, solo gli occhi dietro
le palpebre strette e le dita sopra la chitarra si
muovevano appena. Una vena sulla fronte pulsava di
tutta la vita che aveva.
- Chiunque, chiunque,
chiunque... avrebbe voluto essere la donna con cui il
ragazzo faceva l'amore sotto quelle note lente di
jazz.
- Fu questo forse che
pensò il proprietario del teatro quando vide in
viso la donna, le rughe spente sotto le borse degli
occhi, la pelle macchiata di troppe diete inutili, di
capillari, di grasso, vestita con il grembiule delle
pulizie, con alle mani i guanti di gomma... farsi
senza motivo bellissima, levarsi un guanto con
civetteria dimenticata e inconsapevole, e sciogliersi
dalla coda i capelli invecchiati e passare una mano a
scioglierli, i capelli... mentre ascoltava zitta
quella musica. Qualcosa cadde a terra e la donna vide
l'uomo e riaccese la luce, e il ragazzo si
vergognò, e forse credeva davvero di non saper
suonare la chitarra, e forse chissà, magari
davvero non la sapeva suonare da Dio... ma che
importava? che mai poteva importare, se quella musica
che suonava era capace di far tremare vacillare
un'anima...
- Il proprietario del
teatro gli chiese di tornare il giorno dopo, che il
teatro era chiuso, a suonare. Fu così che ogni
settimana quel ragazzo cominciò ad incantare un
pubblico di gente semplice e complicata come lui,
senza nemmeno che lui ci credesse.
- C'era adesso rumore
di una stanza ammutolita. Il ragazzo saliva sul
piccolo palco, timido e meravigliato di tutta quella
gente che non poteva vedere. Sorrideva, imbarazzato,
dolcissimo, piegando la testa da un lato e
inclinandola leggermente in avanti. Aveva un sorriso
larghissimo. Si stringeva la chitarra al petto,
toccava tutte le corde senza far fare loro rumore.
Sistemava i piedi a sentire la terra. Tendeva le dita,
chiudeva gli occhi. Aspettava pochi secondi, quanti
bastavano ad assaporare sorridendo l'odore denso di
vino e di fumo, l'odore della gente, il rumore spesso
e sospeso del respiro della gente, di controllo che le
chiavi fossero nella borsa, di pensiero al vento che
aveva incrociato una foglia rossa ad una ciocca di
capelli tanti anni prima, che fosse ancora
lì.
- Lui ora era il
primo attore, e nemmeno gli importava ma gli piaceva.
Aveva dei pantaloni scuri, e una camicia bianca con il
colletto aperto. Aveva delle bretelle a quadratoni e i
capelli tirati indietro con l'acqua. Un microfono era
attaccato alla chitarra con due strisce di nastro
adesivo chiaro. Non aveva spartiti né
repertorio, ma anima e corpo come una cosa sola. La
sua musica era quanto di più bello io avessi
mai sentito, e forse, ma non saprei, non era
tecnicamente perfetta, ma mi toccava...
emozionandomi... La luce lo colpiva di tre quarti
sulla sua sinistra. L'ombra invece si allungava fino a
scendere dal palco, fino a perdersi tra il pubblico,
così come le particelle della sua musica si
staccavano dalla chitarra per danzare nelle anime
raccolte a metà strada. La gente sentiva
stracciarsi il velo di opacità dell'anima che
la vita che opponiamo ai sogni ci mette addosso. Era
uno strappo teso tra il dolore e la felicità.
La realtà poteva anche essere questa magia che
usciva dalle sue mani, quest'esitazione,
quest'ostinazione tra forma e fantasia che li
accarezzava come il ricordo della sensualità
nascosta di un corpo che si addormenta lontano, della
fisicità di due mani che si intrecciano tra due
anime per non lasciarsi mai, laddove nemmeno la
scienza ci permette di fermare le stelle e di vederle
tutte. La gente non si chiedeva niente ora che il
ragazzo suonava, e sembrava quasi piangesse,
soffrisse, pensasse... quella musica era quasi dura
per quanto andava a fondo nell'anima, quegli occhi
erano troppo stretti per non trattenere un mondo che
urlava!, ma era solo uno sbaglio. Non c'era niente di
innaturale... tutta quella immensità quel
ragazzo ce l'aveva nel sangue e nemmeno sapeva quanto
forte gli battesse il cuore e quanto fosse bravo, e
quanto la sua musica assomigliasse alla meraviglia di
volare davvero, senza ali, come
nell'acqua.
- Il ragazzo suonava
lentamente, Dio quanto lentamente!, invadente come
l'anima in corpo, come se la sua donna stesse dietro
di lui, nuda o vestita di rosso, e i loro corpi si
respingessero fino quasi a toccarsi, e i due, di
spalle, non dovessero guardarsi, e chissà cosa
c'era, nelle sue sensazioni... e io facevo finta,
facevo finta davvero, sulla mia sedia di legno, nella
mia camera, che tutto fosse vero, che lui pensasse
davvero, che l'oceano è solo un
lenzuolo...
- Qualcuno,
dall'alto, scattò una foto in bianco e
nero.
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