- Il
ventiduesimo arcano
-
- L'avevo
riincontrato per caso, dopo vent'anni, in tarda
mattinata sulla ripa. Era d'estate, forse la prima
delle strane estati di questi ultimi anni, con
l'agosto monsonico. Non un gran caldo quindi e nemmeno
afa. La città andava spopolandosi. Non l'avevo
riconosciuto immediatamente. Come un altro, pasciuto,
gonfio, dall'andatura volgare ma esitante, avesse
preso il posto del ragazzo agile, non bello ma
grazioso che ricordavo.
- Inghid?
- Di
colpo avevo rammentato la sua fatica nel pronunciare
il mio nome Ingrid.
- Paolo?
- Avevo
notato, scrutandolo con attenzione per ritrovare
qualcosa dell'antica fisionomia, che indossava
pantaloni di velluto troppo pesanti per la stagione. E
piuttosto macchiati.
- Mi
aveva invitato a pranzo.
- Andiamo
dal mio amico, mi vuol bene, a me tutti vogliono bene,
mi secca eh andare qua, mi secca perché non
vuole mai che paghi!
- Aria
condizionata, tubi di rame ben lucidati, travi spesse,
due camerierine: straniere. Una con sottili capelli
color lino e l'aria timida, forse ucraina, l'altra con
occhi neri, sfrontati, sudamericana magari o rumena,
tutte e due annegate in certi grembiuloni immacolati,
l'atteggiamento attento, pronte ad entrare in scena.
Luci fioche dai globi opachi, targhe pubblicitarie di
vini fini e dadi per brodo. Tutta un'atmosfera
retrò a cui noi che abitiamo sui navigli ci
siamo abituati per forza, ma di vero non c'è
proprio niente. Escluso il magnifico cane, grande,
peloso, di incerta ascendenza che aveva fatto
irruzione nel locale vanamente inseguito dalla
camerierina con gli occhi neri, e che mi si era
gettato addosso leccandomi con veemenza.
- Franz...
Franz.
- Finalmente
la camerierina dagli occhi neri aveva agguantato un
riottoso Franz per il collare e l'aveva trascinato nel
retro.
- Mi
scusi tanto, davvero tanto, è il mio cane - si
era affrettato a spiegare con ansia il maitre che
dapprima pareva atterrito poi si era via via
rinfrancato constatando il mio palese divertimento. -
devo portarlo con me in questi giorni perché mi
stanno ristrutturando la casa e lui con gli estranei
non so se mi spiego. Morde. Non tutti, anzi ha visto
è buono, giocherellone, morde solo quelli che
gli sembrano strani. C'è un cortiletto qui
dietro, il cancello è bassino a dire la
verità ma non credo che riesca a
saltare.
- Paolo
ed io ci eravamo seduti ad un tavolo accanto alla
vetrina. A quell'ora, con quella luce, in
quell'angolo, i riflessi dell'acqua sul vetro, i
baluginii del sole e un albero di limone infilato in
un grande vaso di terracotta, mettevano insieme
un'illusione di giardino intimo, segreto.
- Avevamo
ordinato.
- Poi
Paolo aveva preso a raccontarmi la storia che aveva
segnato la sua vita.
- Mi
aveva raccontato di come avesse comprato una chiesa
diroccata del quattrocento, lì dalle sue parti,
di come l'avesse in seguito perduta.
- Era
bellissima, tardo romanica col campanile del
quattrocento, romanico comacino, non ricordo
più quale storico dell'arte ha scritto che tra
il duecento ed il quattrocento sul lago di Como
è fiorita una scuola artistica di rilevanza e
qualità internazionali. Eh avercene di roba
così, una scuola nata e morta in due secoli.
Tutto in due secoli pensa. Com'è cominciata
è finita. Uno di quegli inspiegabili misteri
della storia dell'arte. La mia chiesa pensa aveva il
tetto sfondato, tutti mi dicevano che ero matto e
però venivano poi tutti lì d'estate, ah
se venivano, era diventato un luogo di ritrovo, di
chiacchiere, di sogni. Io lo sai che sono un
sognatore. Mi ero fatto prestare persino i soldi per
comprare le cambiali, pensa.
- Parlava
fitto come raccontasse la trama di un romanzo
appassionante. Ma in lui c'era passione. Io mi sono
battuto, ah se mi sono battuto, è stato bello
però, pensa che un vecchietto, un omino bianco
bianco di capelli, gentile, mi voleva bene, proprio il
primo giorno, ero appena arrivato e stavo passando la
soglia della chiesa che, da quel pomeriggio era
ufficialmente mia, mi ha detto sei matto ma sei bravo!
Mi sono capitate delle cose straordinarie,
straordinarie in quella chiesa, una volta non avevo
più un soldo, nemmeno per mangiare, verso l'una
mi affaccio sulla porta, guardo a destra, guardo a
sinistra, come a cercare un'idea, un'ispirazione... e
proprio davanti al mio naso, bella stesa sul selciato
di pietra vedo una bella banconata da cinquantamila
lire. Dico cinquantamila lire. La mia chiesa era un
posto miracoloso ti dico, il lato a nord del campanile
pensa si illuminava solo d'inverno, al tramonto... ah
che meraviglia!
- Parlava
fitto e con un sacco di ah ad effetto, e aveva
opinioni su qualsiasi cosa e anche questo facevo
fatica a riconoscere, lo ricordavo come un ragazzotto
timido, provinciale, non troppo intelligente ma
servizievole e, allora perlomeno, innamorato di
me.
- A
quell'epoca, benché più giovane di lui,
giudicavo il suo un amore da bambino.
- Talvolta
con quella volontà di sedurre comunque, al di
là dell'oggetto, un po' tipica delle donne, o
forse chissà era semplicemente giovinezza o
bisogno d'amore, spingevo, affondavo per trovare
sincerità, forza in quel suo sentimento ma non
trovavo che vuoto.
- Così
inconsistente era quell'amore che me ne ero
dimenticata. Completamente.
- Ero
quasi contenta di non dovere parlare di me, di come
avessi smesso di cantare per un persistente problema
di afonia che spariva per incanto non appena la
smettevo con il canto, una magia rovesciata.
Bizzarramente le mie corde vocali, fotografate da un
grande luminare, erano intatte. Tuttavia appena
tornavo a cantare, o almeno a studiare per poter
tornare a cantare, il problema dell'afonia si
ripresentava. Troppa infelicità aveva suggerito
il mio medico di base di fronte alla marea di diagnosi
e di ricette, tutte parzialmente illuminanti della
verità, con cui avevo sommerso la sua
scrivania. Troppa infelicità, insomma caro
Paolo, per dirla tutta, della mia magnifica voce di
mezzosoprano non ho fatto un bel niente, molto studio,
pochi soldi, qualche concerto in biblioteca, un paio
d'incisioni, la mia carica quella che m'imponeva,
quella che inchiodava al mio apparire, quando la voce
era solo una promessa, agra come un limone, be' la mia
carica se ne è andata. Vorrei entrare in un
coro di un qualche teatro lirico, il posto fisso sai?
Ma la voce si ribella, troppa infelicità. E il
tempo è passato così in fretta. Ero la
regina della tragedia, squilli di trombe dorate al mio
arrivo, incedevo sul tappeto di velluto rosso che si
srotolava in avanti, sempre e solo in avanti... bene
sono atterrata, niente più trombe e niente
più tappeti di velluto rosso, il tempo
incancrenisce ogni cosa caro Paolo. No, non mi sono
sposata, no non ho nemmeno un compagno, avrei risposto
così se me l'avesse chiesto. Il famoso,
peraltro quasi sempre inaffidabile, istinto femminile
mi suggeriva che anche lui era libero. Sono in cerca
di riconversione, così avrei celiato, sempre se
mi avesse domandato qualcosa, ma non mi chiedeva
niente.
- Raccontava
invece, senza mai prendere fiato, salendo di tono
progressivamente, e la sua voce, impennandosi, perdeva
man mano di virilità.
- Chiudendo
gli occhi avrei potuto credere di trovarmi davanti ad
una donna sui cinquanta, di persona larga, gli occhi
bassi, la gonna appena sotto il ginocchio e sopra il
grembiule stazzonato, ferma sull'androne di una
vecchia casa di un qualche paese tra Milano e il
Canton Ticino, lì sull'androne a ciarlare con
una vicina, con tanto di zeta affilate e consonanti
gutturali. Sua madre forse è così. Non
avevo mai saputo niente della sua famiglia. Non ne
parlava mai.
- E
lui intanto proseguiva, proseguiva e si inerpicava, si
inerpicava.
- Temevo
potesse rovinare da un momento all'altro tanto la sua
voce divenuta sottile, accuminata. Avevo notato che
rimarcava i punti salienti con curiose smorfie che
avevo osservato spesso sui volti dei paesani di una
certa età. Mangiava con estrema lentezza,
troppo preso dalla conversazione.
- Avevo
notato che anche la scelta dei cibi era curiosa, aveva
ordinato risotto con i funghi, pollo in umido, patate
al forno, si era versato all'inizio un bicchiere di
vino che centellinava, ma senza goderne
davvero.
- Il
suo volto ed il suo ventre avevano preso a lievitare,
lievitare.
- A
vista d'occhio. Possibile?
- Avevo
notato ancora che biascicava piuttosto che masticare,
con quell'ingordigia che, nei vecchi, talvolta
sostituisce l'appetito..
- Ho
sacrificato la mia giovinezza eh se l'ho sacrificata,
matto, matto che non sei altro mi ripetevano tutti,
allora sai no che facevo il cinema, ero segretario di
produzione, anzi segretario di produzione era la mia
qualifica ufficiale, perché poi ho fatto di
tutto, persino lo scenografo e l'aiuto regista, pensa
che una volta con Jaques Vernier, il regista di
pubblicità, straordinario, straordinario, ah
che genio, mi voleva bene poi. Pensa stavano girando
per la valle delle primizie, avevano già speso
un mucchio di soldi e non funzionava, ti dico che non
funzionava, tutti asini alla fine. Allora la
produzione chiama Jaques Vernier, lui dice che
farà tutto da solo, chiede a me di
accompagnarlo; arriviamo al paesello, il nome l'ho
dimenticato, sui colli piacentini, troviamo la valle,
la valle delle primizie, lui dà un'occhiata,
ride, ah che simpatico, che simpatico, aveva
già capito tutto, il perché la valle
così com'era non funzionava, il cinema è
rappresentazione non realtà, ah grande lezione,
grande lezione. Poi andiamo di nuovo in paese, al bar,
mentre beviamo il caffè, scova un pittore di
santi, gli chiede di dipingere zucchine, pomodori,
patate, cipolle, carote, sedani. Gli offre forse un
milione, a patto che riesca a fare tutto in giornata.
Quello... figurati non stava più nella pelle,
non gli sembrava mica vero. Intanto che il pittore
dipinge noi andiamo in trattoria. Alla faccia di
tutti. Poi nel tardo pomeriggio lui con la macchina da
presa in spalla, io con i fondali del pittore di santi
sotto il braccio, torniamo alla valle. In due ore era
finito tutto. L'hai vista no la pubblicità
della valle delle primizie? Quella di sei o sette anni
fa? L'hai vista? - non aveva atteso la risposta - eh
potevo far carriera e fare anche la bella vita ma io
tutto quello che avevo lo buttavo nella chiesa, eh
sì, anche le donne, pensa che stavo con una,
bellissima, voleva fare la modella, bella eh, la
Betta, pensa che si giravano tutti a guardarla,
credimi Inghid- e si inceppava nel pronunciare il mio
nome, come se il mio nome fosse un groviglio suoni
irripetibili. Mi innervosiva
- Ingrid,
Ingrid avrei voluto strillare, cominciavo a sentirmi a
disagio, tutte quelle parole che insieme al volto ed
al ventre lievitavano, lievitavano.
- E
quegli eh.
- E
quegli ah.
- E
quei pensa.
- E
quel sugo fumante arancione e occhiuto del
pollo.
- In
fondo io sono vegetariana. Allora mi ero servita
ancora da bere: due o tre o forse anche quattro
bicchieri. Sedata e vagamente assonnata mi ero
sistemata più comodamente sulla sedia,
rammemorandomi delle antiche tecniche di ascolto
fittizio elaborate sui banchi delle
superiori.
- Non
non un romanzo, una pessima sceneggiatura con l'eroe
troppo eroe, troppo puro, troppo solo contro tutti,
amici codardi, donne vanesie, speculatori con canini
appuntiti e cappello a cilindro e dita rapaci. Anche
se poi un mucchio di gente gli voleva bene. Per un
attimo avevo sospettato che si stesse inventando
tutto.
- Il
lavoro nella pubblicità, la chiesa, gli amori,
tutto.
- Avevo
notato che pian piano aveva divorato ogni cosa, tranne
una patata che alla fine del pranzo stava lì
con la crosta dorata e bisunta, miserevole, senza
più vita, né calore. Ma nonostante
avesse avanzato la patata come se questa non potesse
proprio più entrare in quel corpaccione satollo
e ormai deformato per l'enorme sforzo libatorio, aveva
ordinato un po' di formaggio molle, così
l'aveva chiamato. Al grappino finale mentre con gli
occhi scontornati, umidi e la voce del tutto sbiancata
mi dichiarava il suo amore sempieterno avevo avuto una
specie di epifania fugace, no, non mentiva,
deformava.
- Anche
quel suo amore per me, gracile, bambinesco, poco
ricambiato, era divenuto romanzesco, anzi
cinematografico.
- Avevo
notato nell'alzarmi finalmente dal tavolo la bocca
semiaperta piegata all'ingiù, smarrita,
tremula.
- E i
capelli radi, di un castano apatico, che si diradavano
sulla sommità del capo.
- E
un'impressione sgradevole che emanava da tutta la
persona: un implorare, un mendicare senza
umiltà.
- Avevo
anche notato però che nel suo sorriso c'era una
bontà fanciullesca che inteneriva. Era
indifeso. E insieme arrogante.
- Nel
pagare il portafoglio gli era caduto: sul pavimento di
cotto polveroso si erano riversati una sola banconota
da centomila, e molti assegni con un timbro viola:
respinto, respinto, respinto. Nonostante la grande
familiarità con il proprietario, che del resto
non si era visto, non c'erano stati sconti. E le
centomila si erano rivelate inesaustive
dell'importo.
- Non
hai un cinquantamila, poi te li restituisco, faccio il
bancomat qui dietro.
- Tieni...
lascia stare, devo andare, davvero. Grazie di
tutto.
- Per
tutto il pomeriggio avevo lottato con quel senso di
pena. E soprattutto con quel senso di vuoto, il vuoto
di quei suoi occhi miopi dal colore acquoso,
indefinibile, che mi fissavano disperati mentre, dopo
averlo salutato, mi incamminavo veloce, per mettere
distanze. Perfavore ripeteva, o chiamami.
- Il
vuoto di quell'ultima grottesca immagine.
- Lui
lì infagottato nel suo stesso corpo, le spalle
cadute in avanti, stagliato davanti all'insegna di
latta verde scuro, antica trattoria scritto in giallo
con tanto di macchie di ruggine, alla maniera dei
bistrot parigini, la ripa ne è
invasa.
- Le
nuvole che andavano velando il sole, un senso
improvviso di autunno incipiente, chiamami, perfavore,
chiamami.
- E
il balzo di Franz dal cancello. Spettacolare. Balzo
perfetto di muscoli perfetti.
- E
la caduta invece di un Paolo timoroso dei cani grandi,
caduta ridicola, e quei suoi pantaloni a coste, troppo
pesanti, e quel pranzo che mi aveva quasi offerto,
troppo oneroso.
- E
infine quel gesto di balordaggine canina.
- Pieno
di bestiale, pazza allegria.
- Vedendolo
lì inerme, spaventato Franz che sicuramente
l'aveva infilato nella categoria degli strani, aveva
addentato Paolo per i pantaloni, tirando forte. Fino a
scoprirgli il culo.
-
-
- Nota:
Il Matto
-
- Ventiduesima
lama. Completa il ciclo dei ventidue arcani maggiori.
Viene computato in realtà come numero zero. Non
conosce verità. Il suo percorso si perde in un
labirinto senza vita, perché sta scivolando
sulla lama della morte iniziatica. Non conosce la luce
ma la cerca da sempre, inconsciamente. Quando qualcuno
lo libererà dallo stato passivo per mostrargli
l'inganno in cui vive, traendo se stesso, forse
sarà salvato, poiché oltre la sostanza
materiale e mortale vibra sempre una scintilla divina.
Colui che vorrebbe divenire un Iniziato insegue
vanamente il Bagatto, facendo il conto alla
rovescia.
- Viene
rappresentato come un uomo dalle vesti logore,
stravaganti con un cane che gli afferra i pantaloni e
gli scopre il posteriore.
-
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