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               Il
               ventiduesimo arcano L'avevo
               riincontrato per caso, dopo vent'anni, in tarda
               mattinata sulla ripa. Era d'estate, forse la prima
               delle strane estati di questi ultimi anni, con
               l'agosto monsonico. Non un gran caldo quindi e nemmeno
               afa. La città andava spopolandosi. Non l'avevo
               riconosciuto immediatamente. Come un altro, pasciuto,
               gonfio, dall'andatura volgare ma esitante, avesse
               preso il posto del ragazzo agile, non bello ma
               grazioso che ricordavo.Inghid?Di
               colpo avevo rammentato la sua fatica nel pronunciare
               il mio nome Ingrid.Paolo?Avevo
               notato, scrutandolo con attenzione per ritrovare
               qualcosa dell'antica fisionomia, che indossava
               pantaloni di velluto troppo pesanti per la stagione. E
               piuttosto macchiati.Mi
               aveva invitato a pranzo.Andiamo
               dal mio amico, mi vuol bene, a me tutti vogliono bene,
               mi secca eh andare qua, mi secca perché non
               vuole mai che paghi!Aria
               condizionata, tubi di rame ben lucidati, travi spesse,
               due camerierine: straniere. Una con sottili capelli
               color lino e l'aria timida, forse ucraina, l'altra con
               occhi neri, sfrontati, sudamericana magari o rumena,
               tutte e due annegate in certi grembiuloni immacolati,
               l'atteggiamento attento, pronte ad entrare in scena.
               Luci fioche dai globi opachi, targhe pubblicitarie di
               vini fini e dadi per brodo. Tutta un'atmosfera
               retrò a cui noi che abitiamo sui navigli ci
               siamo abituati per forza, ma di vero non c'è
               proprio niente. Escluso il magnifico cane, grande,
               peloso, di incerta ascendenza che aveva fatto
               irruzione nel locale vanamente inseguito dalla
               camerierina con gli occhi neri, e che mi si era
               gettato addosso leccandomi con veemenza.Franz...
               Franz.Finalmente
               la camerierina dagli occhi neri aveva agguantato un
               riottoso Franz per il collare e l'aveva trascinato nel
               retro.Mi
               scusi tanto, davvero tanto, è il mio cane - si
               era affrettato a spiegare con ansia il maitre che
               dapprima pareva atterrito poi si era via via
               rinfrancato constatando il mio palese divertimento. -
               devo portarlo con me in questi giorni perché mi
               stanno ristrutturando la casa e lui con gli estranei
               non so se mi spiego. Morde. Non tutti, anzi ha visto
               è buono, giocherellone, morde solo quelli che
               gli sembrano strani. C'è un cortiletto qui
               dietro, il cancello è bassino a dire la
               verità ma non credo che riesca a
               saltare.Paolo
               ed io ci eravamo seduti ad un tavolo accanto alla
               vetrina. A quell'ora, con quella luce, in
               quell'angolo, i riflessi dell'acqua sul vetro, i
               baluginii del sole e un albero di limone infilato in
               un grande vaso di terracotta, mettevano insieme
               un'illusione di giardino intimo, segreto.Avevamo
               ordinato.Poi
               Paolo aveva preso a raccontarmi la storia che aveva
               segnato la sua vita.Mi
               aveva raccontato di come avesse comprato una chiesa
               diroccata del quattrocento, lì dalle sue parti,
               di come l'avesse in seguito perduta.Era
               bellissima, tardo romanica col campanile del
               quattrocento, romanico comacino, non ricordo
               più quale storico dell'arte ha scritto che tra
               il duecento ed il quattrocento sul lago di Como
               è fiorita una scuola artistica di rilevanza e
               qualità internazionali. Eh avercene di roba
               così, una scuola nata e morta in due secoli.
               Tutto in due secoli pensa. Com'è cominciata
               è finita. Uno di quegli inspiegabili misteri
               della storia dell'arte. La mia chiesa pensa aveva il
               tetto sfondato, tutti mi dicevano che ero matto e
               però venivano poi tutti lì d'estate, ah
               se venivano, era diventato un luogo di ritrovo, di
               chiacchiere, di sogni. Io lo sai che sono un
               sognatore. Mi ero fatto prestare persino i soldi per
               comprare le cambiali, pensa.Parlava
               fitto come raccontasse la trama di un romanzo
               appassionante. Ma in lui c'era passione. Io mi sono
               battuto, ah se mi sono battuto, è stato bello
               però, pensa che un vecchietto, un omino bianco
               bianco di capelli, gentile, mi voleva bene, proprio il
               primo giorno, ero appena arrivato e stavo passando la
               soglia della chiesa che, da quel pomeriggio era
               ufficialmente mia, mi ha detto sei matto ma sei bravo!
               Mi sono capitate delle cose straordinarie,
               straordinarie in quella chiesa, una volta non avevo
               più un soldo, nemmeno per mangiare, verso l'una
               mi affaccio sulla porta, guardo a destra, guardo a
               sinistra, come a cercare un'idea, un'ispirazione... e
               proprio davanti al mio naso, bella stesa sul selciato
               di pietra vedo una bella banconata da cinquantamila
               lire. Dico cinquantamila lire. La mia chiesa era un
               posto miracoloso ti dico, il lato a nord del campanile
               pensa si illuminava solo d'inverno, al tramonto... ah
               che meraviglia!Parlava
               fitto e con un sacco di ah ad effetto, e aveva
               opinioni su qualsiasi cosa e anche questo facevo
               fatica a riconoscere, lo ricordavo come un ragazzotto
               timido, provinciale, non troppo intelligente ma
               servizievole e, allora perlomeno, innamorato di
               me.A
               quell'epoca, benché più giovane di lui,
               giudicavo il suo un amore da bambino.Talvolta
               con quella volontà di sedurre comunque, al di
               là dell'oggetto, un po' tipica delle donne, o
               forse chissà era semplicemente giovinezza o
               bisogno d'amore, spingevo, affondavo per trovare
               sincerità, forza in quel suo sentimento ma non
               trovavo che vuoto.Così
               inconsistente era quell'amore che me ne ero
               dimenticata. Completamente.Ero
               quasi contenta di non dovere parlare di me, di come
               avessi smesso di cantare per un persistente problema
               di afonia che spariva per incanto non appena la
               smettevo con il canto, una magia rovesciata.
               Bizzarramente le mie corde vocali, fotografate da un
               grande luminare, erano intatte. Tuttavia appena
               tornavo a cantare, o almeno a studiare per poter
               tornare a cantare, il problema dell'afonia si
               ripresentava. Troppa infelicità aveva suggerito
               il mio medico di base di fronte alla marea di diagnosi
               e di ricette, tutte parzialmente illuminanti della
               verità, con cui avevo sommerso la sua
               scrivania. Troppa infelicità, insomma caro
               Paolo, per dirla tutta, della mia magnifica voce di
               mezzosoprano non ho fatto un bel niente, molto studio,
               pochi soldi, qualche concerto in biblioteca, un paio
               d'incisioni, la mia carica quella che m'imponeva,
               quella che inchiodava al mio apparire, quando la voce
               era solo una promessa, agra come un limone, be' la mia
               carica se ne è andata. Vorrei entrare in un
               coro di un qualche teatro lirico, il posto fisso sai?
               Ma la voce si ribella, troppa infelicità. E il
               tempo è passato così in fretta. Ero la
               regina della tragedia, squilli di trombe dorate al mio
               arrivo, incedevo sul tappeto di velluto rosso che si
               srotolava in avanti, sempre e solo in avanti... bene
               sono atterrata, niente più trombe e niente
               più tappeti di velluto rosso, il tempo
               incancrenisce ogni cosa caro Paolo. No, non mi sono
               sposata, no non ho nemmeno un compagno, avrei risposto
               così se me l'avesse chiesto. Il famoso,
               peraltro quasi sempre inaffidabile, istinto femminile
               mi suggeriva che anche lui era libero. Sono in cerca
               di riconversione, così avrei celiato, sempre se
               mi avesse domandato qualcosa, ma non mi chiedeva
               niente.Raccontava
               invece, senza mai prendere fiato, salendo di tono
               progressivamente, e la sua voce, impennandosi, perdeva
               man mano di virilità.Chiudendo
               gli occhi avrei potuto credere di trovarmi davanti ad
               una donna sui cinquanta, di persona larga, gli occhi
               bassi, la gonna appena sotto il ginocchio e sopra il
               grembiule stazzonato, ferma sull'androne di una
               vecchia casa di un qualche paese tra Milano e il
               Canton Ticino, lì sull'androne a ciarlare con
               una vicina, con tanto di zeta affilate e consonanti
               gutturali. Sua madre forse è così. Non
               avevo mai saputo niente della sua famiglia. Non ne
               parlava mai.E
               lui intanto proseguiva, proseguiva e si inerpicava, si
               inerpicava.Temevo
               potesse rovinare da un momento all'altro tanto la sua
               voce divenuta sottile, accuminata. Avevo notato che
               rimarcava i punti salienti con curiose smorfie che
               avevo osservato spesso sui volti dei paesani di una
               certa età. Mangiava con estrema lentezza,
               troppo preso dalla conversazione.Avevo
               notato che anche la scelta dei cibi era curiosa, aveva
               ordinato risotto con i funghi, pollo in umido, patate
               al forno, si era versato all'inizio un bicchiere di
               vino che centellinava, ma senza goderne
               davvero.Il
               suo volto ed il suo ventre avevano preso a lievitare,
               lievitare.A
               vista d'occhio. Possibile?Avevo
               notato ancora che biascicava piuttosto che masticare,
               con quell'ingordigia che, nei vecchi, talvolta
               sostituisce l'appetito..Ho
               sacrificato la mia giovinezza eh se l'ho sacrificata,
               matto, matto che non sei altro mi ripetevano tutti,
               allora sai no che facevo il cinema, ero segretario di
               produzione, anzi segretario di produzione era la mia
               qualifica ufficiale, perché poi ho fatto di
               tutto, persino lo scenografo e l'aiuto regista, pensa
               che una volta con Jaques Vernier, il regista di
               pubblicità, straordinario, straordinario, ah
               che genio, mi voleva bene poi. Pensa stavano girando
               per la valle delle primizie, avevano già speso
               un mucchio di soldi e non funzionava, ti dico che non
               funzionava, tutti asini alla fine. Allora la
               produzione chiama Jaques Vernier, lui dice che
               farà tutto da solo, chiede a me di
               accompagnarlo; arriviamo al paesello, il nome l'ho
               dimenticato, sui colli piacentini, troviamo la valle,
               la valle delle primizie, lui dà un'occhiata,
               ride, ah che simpatico, che simpatico, aveva
               già capito tutto, il perché la valle
               così com'era non funzionava, il cinema è
               rappresentazione non realtà, ah grande lezione,
               grande lezione. Poi andiamo di nuovo in paese, al bar,
               mentre beviamo il caffè, scova un pittore di
               santi, gli chiede di dipingere zucchine, pomodori,
               patate, cipolle, carote, sedani. Gli offre forse un
               milione, a patto che riesca a fare tutto in giornata.
               Quello... figurati non stava più nella pelle,
               non gli sembrava mica vero. Intanto che il pittore
               dipinge noi andiamo in trattoria. Alla faccia di
               tutti. Poi nel tardo pomeriggio lui con la macchina da
               presa in spalla, io con i fondali del pittore di santi
               sotto il braccio, torniamo alla valle. In due ore era
               finito tutto. L'hai vista no la pubblicità
               della valle delle primizie? Quella di sei o sette anni
               fa? L'hai vista? - non aveva atteso la risposta - eh
               potevo far carriera e fare anche la bella vita ma io
               tutto quello che avevo lo buttavo nella chiesa, eh
               sì, anche le donne, pensa che stavo con una,
               bellissima, voleva fare la modella, bella eh, la
               Betta, pensa che si giravano tutti a guardarla,
               credimi Inghid- e si inceppava nel pronunciare il mio
               nome, come se il mio nome fosse un groviglio suoni
               irripetibili. Mi innervosivaIngrid,
               Ingrid avrei voluto strillare, cominciavo a sentirmi a
               disagio, tutte quelle parole che insieme al volto ed
               al ventre lievitavano, lievitavano.E
               quegli eh.E
               quegli ah.E
               quei pensa.E
               quel sugo fumante arancione e occhiuto del
               pollo.In
               fondo io sono vegetariana. Allora mi ero servita
               ancora da bere: due o tre o forse anche quattro
               bicchieri. Sedata e vagamente assonnata mi ero
               sistemata più comodamente sulla sedia,
               rammemorandomi delle antiche tecniche di ascolto
               fittizio elaborate sui banchi delle
               superiori.Non
               non un romanzo, una pessima sceneggiatura con l'eroe
               troppo eroe, troppo puro, troppo solo contro tutti,
               amici codardi, donne vanesie, speculatori con canini
               appuntiti e cappello a cilindro e dita rapaci. Anche
               se poi un mucchio di gente gli voleva bene. Per un
               attimo avevo sospettato che si stesse inventando
               tutto.Il
               lavoro nella pubblicità, la chiesa, gli amori,
               tutto.Avevo
               notato che pian piano aveva divorato ogni cosa, tranne
               una patata che alla fine del pranzo stava lì
               con la crosta dorata e bisunta, miserevole, senza
               più vita, né calore. Ma nonostante
               avesse avanzato la patata come se questa non potesse
               proprio più entrare in quel corpaccione satollo
               e ormai deformato per l'enorme sforzo libatorio, aveva
               ordinato un po' di formaggio molle, così
               l'aveva chiamato. Al grappino finale mentre con gli
               occhi scontornati, umidi e la voce del tutto sbiancata
               mi dichiarava il suo amore sempieterno avevo avuto una
               specie di epifania fugace, no, non mentiva,
               deformava.Anche
               quel suo amore per me, gracile, bambinesco, poco
               ricambiato, era divenuto romanzesco, anzi
               cinematografico.Avevo
               notato nell'alzarmi finalmente dal tavolo la bocca
               semiaperta piegata all'ingiù, smarrita,
               tremula.E i
               capelli radi, di un castano apatico, che si diradavano
               sulla sommità del capo.E
               un'impressione sgradevole che emanava da tutta la
               persona: un implorare, un mendicare senza
               umiltà.Avevo
               anche notato però che nel suo sorriso c'era una
               bontà fanciullesca che inteneriva. Era
               indifeso. E insieme arrogante.Nel
               pagare il portafoglio gli era caduto: sul pavimento di
               cotto polveroso si erano riversati una sola banconota
               da centomila, e molti assegni con un timbro viola:
               respinto, respinto, respinto. Nonostante la grande
               familiarità con il proprietario, che del resto
               non si era visto, non c'erano stati sconti. E le
               centomila si erano rivelate inesaustive
               dell'importo.Non
               hai un cinquantamila, poi te li restituisco, faccio il
               bancomat qui dietro.Tieni...
               lascia stare, devo andare, davvero. Grazie di
               tutto.Per
               tutto il pomeriggio avevo lottato con quel senso di
               pena. E soprattutto con quel senso di vuoto, il vuoto
               di quei suoi occhi miopi dal colore acquoso,
               indefinibile, che mi fissavano disperati mentre, dopo
               averlo salutato, mi incamminavo veloce, per mettere
               distanze. Perfavore ripeteva, o chiamami.Il
               vuoto di quell'ultima grottesca immagine.Lui
               lì infagottato nel suo stesso corpo, le spalle
               cadute in avanti, stagliato davanti all'insegna di
               latta verde scuro, antica trattoria scritto in giallo
               con tanto di macchie di ruggine, alla maniera dei
               bistrot parigini, la ripa ne è
               invasa.Le
               nuvole che andavano velando il sole, un senso
               improvviso di autunno incipiente, chiamami, perfavore,
               chiamami.E
               il balzo di Franz dal cancello. Spettacolare. Balzo
               perfetto di muscoli perfetti.E
               la caduta invece di un Paolo timoroso dei cani grandi,
               caduta ridicola, e quei suoi pantaloni a coste, troppo
               pesanti, e quel pranzo che mi aveva quasi offerto,
               troppo oneroso.E
               infine quel gesto di balordaggine canina.Pieno
               di bestiale, pazza allegria.Vedendolo
               lì inerme, spaventato Franz che sicuramente
               l'aveva infilato nella categoria degli strani, aveva
               addentato Paolo per i pantaloni, tirando forte. Fino a
               scoprirgli il culo.  Nota:
               Il Matto Ventiduesima
               lama. Completa il ciclo dei ventidue arcani maggiori.
               Viene computato in realtà come numero zero. Non
               conosce verità. Il suo percorso si perde in un
               labirinto senza vita, perché sta scivolando
               sulla lama della morte iniziatica. Non conosce la luce
               ma la cerca da sempre, inconsciamente. Quando qualcuno
               lo libererà dallo stato passivo per mostrargli
               l'inganno in cui vive, traendo se stesso, forse
               sarà salvato, poiché oltre la sostanza
               materiale e mortale vibra sempre una scintilla divina.
               Colui che vorrebbe divenire un Iniziato insegue
               vanamente il Bagatto, facendo il conto alla
               rovescia.Viene
               rappresentato come un uomo dalle vesti logore,
               stravaganti con un cane che gli afferra i pantaloni e
               gli scopre il posteriore.  |