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               IL
               LUNGOMARE DI MENTONE Niente è
               più bello del lungomare di Mentone in un
               qualsiasi giorno d'estate.A pochi chilometri
               dal confine, si capisce già che siamo in
               Francia. Lo si capisce, prima ancora che dalle
               insegne, da come sono allineati i ristorantini sul
               mare, e dalla cura con cui sono apparecchiati i
               tavoli: due tovaglie di colore differente, che formano
               un delicato contrasto; il menu al centro, il
               tovagliolo ripiegato sul piatto come un
               origami.I tavolini dei
               ristoranti francesi sono rassicuranti, perché
               sono tutti piccoli. Se si è in quattro se ne
               uniscono due, se si è in cinque, o in sei, se
               ne uniscono tre e così via. I tavoloni di
               alcune pizzerie siciliane non sono rassicuranti.
               Lasciano presumere che tu puoi mangiare al ristorante
               solo se hai una famiglia o un'allegra brigata di
               amici.Io non ho ne' l'una
               ne' l'altra.E' così
               rilassante la spiaggia che si affaccia direttamente
               sul lungomare di Mentone. Ciottoli piatti sulla riva,
               sabbia poco più indietro.Non c'è il
               lusso inutile e faticoso della Promenade des Anglais
               di Nizza o della Croisette di Cannes.L'assurdo, nel
               lusso, è che non bastano i soldi per poterselo
               comprare. Non serve presentarsi al Negresco con le
               banconote in mano, per essere trattati come si deve:
               bisogna far capire che a quel lusso che si richiede,
               si è avvezzi. Che si appartiene all'ambiente.
               Non importa essere uno che conta, ma essere abituati a
               stare in mezzo a quelli che, in quell'ambiente,
               contano. Strana cosa, il lusso, se richiede, in
               aggiunta al danaro, le stesse condizioni del bar
               più malfamato della Vucciria. Come dire che la
               dimensione sociale, in ogni paese e situazione,
               è assolutamente inevitabile. E
               indispensabile.Trovo facilmente un
               parcheggio. Scendo. Non fatico nemmeno a comprendere
               il sistema di pagamento. Mi incammino verso
               i ristorantini del lungomare. Sono tutti sul lato che
               dà verso l'interno, ma i tavolini, sotto
               ombrelloni di tela o di paglia, sono sul lato del
               mare, e i camerieri fanno la spola destreggiandosi tra
               le auto che passano sulla strada.Quale era quello
               dove andavo con André, a mangiare le moules
               frites? Non ho mai avuto memoria visiva, solo i nomi
               mi dicono qualcosa. Li leggo, ma non mi viene in mente
               nulla: George V, Octopus, Le Calypso,
               L'Escargot.Del resto cambiano
               ogni anno, cambiano i colori delle tovaglie, la
               posizione delle lavagnette con il plat du jour, gli
               ombrelloni.Io e André,
               in verità, eravamo stati qui a Mentone una
               volta sola. Gli avevo scattato delle foto e avevamo
               riso. L'estate successiva ero tornata passando per
               andare da lui, mi ero fermata a pranzo nello stesso
               ristorante, e avevo rubato il posacenere per
               portarglielo in regalo. Anche quel giorno ero sola, ma
               in realtà non lo ero.Scelgo il primo
               della fila, quello che si chiama Octopus. Ha le sedie
               di paglia con cuscini verdi. Mi siedo nel tavolino a
               fianco del parapetto che lo separa dalla spiaggia. La
               spiaggia è alcuni metri più in basso.
               André avrebbe scelto questo posto, lui che
               voleva sempre stare in prima linea sul
               mare.Il cameriere
               è un ragazzetto poco più che
               adolescente, ha gli occhi azzurri un po' acquosi,
               un'espressione poco sveglia. Mi si
               avvicina."Vous êtes
               deux?" chiede.Sono da sola,
               cretino, non lo vedi ? Evidentemente deve sembrargli
               più logico che l'"altro" se ne sia andato al
               cesso prima ancora di prendere posizione, piuttosto
               che avere davanti una persona sola che intende
               mangiare."Une, seulement"
               rispondo nascondendo accuratamente l'irritazione, come
               ho imparato a fare. Il ragazzo accenna un sorrisetto
               che non apprezzo. Toglie i piatti e i bicchieri in
               eccedenza e mi porge il menu. Non serve. So già
               quello che voglio ordinare."Moules frites,
               s'il vous plaît. Une bière pression, et
               une carafe d'eau. »La carafe d'eau
               è un'altra prerogativa dei ristoranti francesi.
               Ti arriva, di solito, anche se non la chiedi. Da noi
               nessuno ti porterebbe una caraffa di acqua di
               rubinetto, avrebbe il timore che poi non gli ordini
               nient'altro da bere.La birra arriva
               quasi subito. Bevo un sorso, è piuttosto calda.
               Qualcuno tra i miei amici di un tempo l'avrebbe
               rimandata indietro. Io non lo faccio. In questi casi
               ho sempre paura che il cameriere decida che sono una
               cliente rompicoglioni, e si vendichi sputandomi nel
               piatto che ho ordinato.Mi accendo una
               sigaretta, aspiro il fumo lentamente.A Milano Claudia,
               poco prima di sparire come tutti gli altri, una sera
               mi aveva trascinato a cena con due tipi insulsi e alla
               prima sigaretta che avevo acceso aveva
               detto:"Io non riesco
               proprio a capire perché fumi. Non capisco il
               perché, sapendo che il fumo fa male, tu insista
               a fumare" Lo aveva detto con voce chioccia, con l'aria
               di chi sale in cattedra.Dopotutto, Claudia
               era insegnante. Di sostegno."Fumo perché
               mi va di fumare" avevo risposto "del resto, se mi
               limito nella quantità, non vedo perché
               non dovrei, se mi va" e avevo aggiunto: "Il mio medico
               racconta sempre di suoi pazienti che non hanno mai
               fumato ne' bevuto, che hanno passato la vita evitando
               i fritti e i grassi e i conservanti, e sono morti di
               tumore a trent'anni"Uno dei due uomini,
               che sono certa portasse il parrucchino, mi aveva
               guardato con aria paternalistica. "Questa risposta
               proprio non me la aspettavo. Da una persona
               intelligente come te.""Ma questo è
               fatalismo! E il calcolo delle probabilità dove
               lo metti? Tu non ti vuoi bene" aveva aggiunto Claudia
               con insistenza, e la voce le si era fatta ancora
               più stridula "fumi perché non ti vuoi
               bene""Guarda me, io mi
               voglio bene" era intervenuto l'altro, con spesse lenti
               da miope, e sotto i miei occhi stupefatti si era messo
               a darsi dei baci sull'avambraccio "guarda, guarda,
               come mi voglio bene."Cosa mi era
               successo, com'ero messa, per finire a passare il mio
               tempo con quell'amica cerebrale e saccente, che mi
               faceva la predica, e quei due bellimbusti?Con i miei amici di
               prima fumavamo Gauloises blondes, ne accendevamo una
               dietro l'altra, nelle nostre notti francesi, e
               rubavamo il bicchiere della birra che aveva la scritta
               più colorata, poi a casa lo riempivamo di cera
               e lo trasformavamo in una candela con cui illuminavamo
               il terrazzo, dove facevamo l'alba parlando di
               sciocchezze, e André preparava le crèpes
               per tutti, e Claudia non li sopportava.Claudia ha smesso
               di telefonarmi dopo aver chiamato egoismo la mia
               malinconia, infliggendomi la stessa beffa che subisce
               chi vede scambiata per superbia la propria
               timidezza.Il cameriere mi
               porta le moules e il piatto di patatine fritte. Devo
               ricordargli la caraffe d'eau.Le moules sono
               abbondanti, e piccolissime. Mio zio, che le pescava,
               diceva che piccole sono migliori. Ma queste sono poco
               più grandi dell'unghia di un pollice, e non
               riesco a mangiarle senza usare le mani. Le patatine,
               al contrario, sono tagliate troppo grosse. Quando
               finalmente il cameriere arriva con la caraffa, gli
               domando un rince-doigts. Mi meraviglia che non me lo
               abbia portato spontaneamente, come a quelli del
               tavolino di fianco. Sembra quasi che sappia le cose,
               questo ragazzetto, allineandosi tra coloro che mi
               canzonano o mi ignorano. Tra canzonare una persona e
               ignorarla non passa poi così tanta differenza.
               Comincio a sperare che venga travolto attraversando
               per l'ennesima volta la strada. Provo simpatia,
               invece, per quelli del tavolino a fianco, che si fanno
               i fatti loro, e hanno tutto il diritto di farlo, dal
               momento che a loro non chiedo nulla.Della Sicilia della
               mia adolescenza lontana non ho alcuna nostalgia. Qui
               ero approdata, e qui volevo restare.Sulla spiaggia di
               Mentone, nessun bambino urla, la gente non fa casino,
               si gode la giornata di sole come fosse l'ultima
               dell'estate. Hanno portato gli asciugamani a fantasie
               provenzali, piantato ombrelloni che restano bassi,
               estraggono bottiglie da borse termiche di dimensioni
               ragionevoli e discrete, sono immersi in letture che
               immagino interessanti. Due ombrelloni portano la
               scritta dell'Orangina, uno della Perrier. Avevo sempre
               cercato un ombrellone con una di quelle scritte
               pubblicitarie. Qualcuno mi aveva detto che bisognava
               chiederlo a qualcuno che aveva un bar. Con
               André, che parlava con tutti, prima o poi un
               proprietario di un bar l'avremmo
               conosciuto.La gente di Mentone
               non ti rompe le scatole. Da quando ho deciso di stare
               sola e di non annoiarmi mai, c'è sempre qualche
               uomo che mi si avvicina e attacca discorso. Di solito
               sono corretti, educatamente galanti, alla fine mi
               lasciano il loro numero di cellulare su un pezzetto di
               carta stropicciato che finisco per buttare nel primo
               cestino, ma non si rendono conto della quantità
               di stupidaggini che dicono per non sembrare stupidi.
               Qui non mi sembra possa accadere, non so
               perché, ed è anche per questo che sono
               qui.Non voglio che gli
               uomini mi si avvicinino. Ho imparato a stare sola. Ho
               imparato ad andare al cinema da sola, a teatro da
               sola, al ristorante - ma solo a pranzo - da sola. Non
               elemosino più contatti umani, non cerco
               relazioni, che mi farebbero ricadere ogni volta negli
               stessi errori, e subire quelli altrui.In realtà
               sono stufa di ciò che mi viene offerto. Sono
               stufa di avventure con uomini che non riescono a
               farselo rizzare, con uomini che si divertono solo se
               lo fanno di dietro, con uomini che riuniscono entrambi
               questi aspetti. Dopo André, solo questo mi
               è stato consentito di trovare.Mi arriva il
               rince-doigts, ma non è sufficiente. Le mani mi
               restano appiccicose. Mi verso l'acqua, non riesco a
               finire la birra, che ormai è calda come brodo.
               Mi accendo un'altra sigaretta. Non posso nemmeno
               impadronirmi del posacenere, è veramente
               brutto, di plastica leggermente fusa al centro e ai
               bordi da sigarette mal spente.Chiedo il conto. Pago
               con la carta di credito. Ovviamente non ritengo
               opportuno lasciare un soldo di mancia.Mi alzo e mi
               incammino senza fretta. Ho ancora mezz'ora prima che
               il parcheggio scada. Passo il Casinò, con
               quell'aria un po' lugubre di tutti i Casinò,
               che sta ad evocare drammi di viveurs rovinati da una
               puntata sbagliata allo chemin-de-fer, che finiscono
               ignorati (o canzonati?) allo stesso modo di chi ha
               perduto l'amore e gli amici in una scommessa troppo
               azzardata. Non c'è
               egoismo ne' cattiveria in chi ti lascia solo:
               semplicemente le cose vanno così. E' tutto
               così normale. E' normale che il disprezzo che
               André ha attirato su di lui sia svanito con i
               giorni, e l'antica solidarietà sia ritornata.
               E' normale che la comprensione che ho attirato su di
               me dapprima, si sia trasformata in compassione, poi in
               pietà, e dopo in un leggero fastidio, sempre
               più acuto, che ha portato ad evitarmi. Nessuno
               ha colpa: la vita funziona così. Chi perde non
               ha diritti.Passato il
               Casinò, guardo verso la facciata dei palazzi:
               noto che uno degli ultimi ristoranti si chiama Paris
               Palais. Era quello. Ma certo, nelle foto il
               Casinò era alle spalle. Non ha
               importanza.Cammino e mi lascio
               dietro gli ombrelloni dai bordi che ondeggiano nel
               vento leggero, i tavolini con le loro tovagliette e le
               loro ombre che ondeggiano, afflosciandosi di nuovo al
               termine della folata quasi volessero arrendersi,
               poiché tutto ciò che ondeggia e freme
               finisce poi per ripiegarsi verso il basso, contorcersi
               e affondare.Camminare per far
               credere agli altri e a sé stessi di dirigersi
               in una qualche direzione; camminare per guadagnarsi
               un'estate di strade e di nulla, e nascondervi dentro
               la lenta agonia dei giorni; rifugiarsi nei passi,
               ripetitivi come un'abitudine rassicurante; passiva
               come può esserlo solo chi è riuscita a
               distaccarsi dalle cose e a guardarle con
               lucidità, ormai lontana dalla gioia e dallo
               strazio, dalle stagioni dell'allegria e dai vicoli
               bui, la vita trasformata in una sequenza di gesti
               necessari e insensati, come un guardaroba di abiti
               appesi e pedantemente catalogati, per dare il senso
               dell'ordine e salvare - almeno quella, cazzo! - la
               facciata. Che chiamare dignità è ormai
               un azzardo.I miei passi sulla
               strada, questa luce, il vento leggero, la placida
               indifferenza delle cose: è tutto ciò che
               voglio.E' così
               bella, nelle giornate d'estate, la spiaggia di
               Mentone. |