- IL
LUNGOMARE DI MENTONE
-
- Niente è
più bello del lungomare di Mentone in un
qualsiasi giorno d'estate.
- A pochi chilometri
dal confine, si capisce già che siamo in
Francia. Lo si capisce, prima ancora che dalle
insegne, da come sono allineati i ristorantini sul
mare, e dalla cura con cui sono apparecchiati i
tavoli: due tovaglie di colore differente, che formano
un delicato contrasto; il menu al centro, il
tovagliolo ripiegato sul piatto come un
origami.
- I tavolini dei
ristoranti francesi sono rassicuranti, perché
sono tutti piccoli. Se si è in quattro se ne
uniscono due, se si è in cinque, o in sei, se
ne uniscono tre e così via. I tavoloni di
alcune pizzerie siciliane non sono rassicuranti.
Lasciano presumere che tu puoi mangiare al ristorante
solo se hai una famiglia o un'allegra brigata di
amici.
- Io non ho ne' l'una
ne' l'altra.
- E' così
rilassante la spiaggia che si affaccia direttamente
sul lungomare di Mentone. Ciottoli piatti sulla riva,
sabbia poco più indietro.
- Non c'è il
lusso inutile e faticoso della Promenade des Anglais
di Nizza o della Croisette di Cannes.
- L'assurdo, nel
lusso, è che non bastano i soldi per poterselo
comprare. Non serve presentarsi al Negresco con le
banconote in mano, per essere trattati come si deve:
bisogna far capire che a quel lusso che si richiede,
si è avvezzi. Che si appartiene all'ambiente.
Non importa essere uno che conta, ma essere abituati a
stare in mezzo a quelli che, in quell'ambiente,
contano. Strana cosa, il lusso, se richiede, in
aggiunta al danaro, le stesse condizioni del bar
più malfamato della Vucciria. Come dire che la
dimensione sociale, in ogni paese e situazione,
è assolutamente inevitabile. E
indispensabile.
- Trovo facilmente un
parcheggio. Scendo. Non fatico nemmeno a comprendere
il sistema di pagamento.
- Mi incammino verso
i ristorantini del lungomare. Sono tutti sul lato che
dà verso l'interno, ma i tavolini, sotto
ombrelloni di tela o di paglia, sono sul lato del
mare, e i camerieri fanno la spola destreggiandosi tra
le auto che passano sulla strada.
- Quale era quello
dove andavo con André, a mangiare le moules
frites? Non ho mai avuto memoria visiva, solo i nomi
mi dicono qualcosa. Li leggo, ma non mi viene in mente
nulla: George V, Octopus, Le Calypso,
L'Escargot.
- Del resto cambiano
ogni anno, cambiano i colori delle tovaglie, la
posizione delle lavagnette con il plat du jour, gli
ombrelloni.
- Io e André,
in verità, eravamo stati qui a Mentone una
volta sola. Gli avevo scattato delle foto e avevamo
riso. L'estate successiva ero tornata passando per
andare da lui, mi ero fermata a pranzo nello stesso
ristorante, e avevo rubato il posacenere per
portarglielo in regalo. Anche quel giorno ero sola, ma
in realtà non lo ero.
- Scelgo il primo
della fila, quello che si chiama Octopus. Ha le sedie
di paglia con cuscini verdi. Mi siedo nel tavolino a
fianco del parapetto che lo separa dalla spiaggia. La
spiaggia è alcuni metri più in basso.
André avrebbe scelto questo posto, lui che
voleva sempre stare in prima linea sul
mare.
- Il cameriere
è un ragazzetto poco più che
adolescente, ha gli occhi azzurri un po' acquosi,
un'espressione poco sveglia. Mi si
avvicina.
- "Vous êtes
deux?" chiede.
- Sono da sola,
cretino, non lo vedi ? Evidentemente deve sembrargli
più logico che l'"altro" se ne sia andato al
cesso prima ancora di prendere posizione, piuttosto
che avere davanti una persona sola che intende
mangiare.
- "Une, seulement"
rispondo nascondendo accuratamente l'irritazione, come
ho imparato a fare. Il ragazzo accenna un sorrisetto
che non apprezzo. Toglie i piatti e i bicchieri in
eccedenza e mi porge il menu. Non serve. So già
quello che voglio ordinare.
- "Moules frites,
s'il vous plaît. Une bière pression, et
une carafe d'eau. »
- La carafe d'eau
è un'altra prerogativa dei ristoranti francesi.
Ti arriva, di solito, anche se non la chiedi. Da noi
nessuno ti porterebbe una caraffa di acqua di
rubinetto, avrebbe il timore che poi non gli ordini
nient'altro da bere.
- La birra arriva
quasi subito. Bevo un sorso, è piuttosto calda.
Qualcuno tra i miei amici di un tempo l'avrebbe
rimandata indietro. Io non lo faccio. In questi casi
ho sempre paura che il cameriere decida che sono una
cliente rompicoglioni, e si vendichi sputandomi nel
piatto che ho ordinato.
- Mi accendo una
sigaretta, aspiro il fumo lentamente.
- A Milano Claudia,
poco prima di sparire come tutti gli altri, una sera
mi aveva trascinato a cena con due tipi insulsi e alla
prima sigaretta che avevo acceso aveva
detto:
- "Io non riesco
proprio a capire perché fumi. Non capisco il
perché, sapendo che il fumo fa male, tu insista
a fumare" Lo aveva detto con voce chioccia, con l'aria
di chi sale in cattedra.
- Dopotutto, Claudia
era insegnante. Di sostegno.
- "Fumo perché
mi va di fumare" avevo risposto "del resto, se mi
limito nella quantità, non vedo perché
non dovrei, se mi va" e avevo aggiunto: "Il mio medico
racconta sempre di suoi pazienti che non hanno mai
fumato ne' bevuto, che hanno passato la vita evitando
i fritti e i grassi e i conservanti, e sono morti di
tumore a trent'anni"
- Uno dei due uomini,
che sono certa portasse il parrucchino, mi aveva
guardato con aria paternalistica. "Questa risposta
proprio non me la aspettavo. Da una persona
intelligente come te."
- "Ma questo è
fatalismo! E il calcolo delle probabilità dove
lo metti? Tu non ti vuoi bene" aveva aggiunto Claudia
con insistenza, e la voce le si era fatta ancora
più stridula "fumi perché non ti vuoi
bene"
- "Guarda me, io mi
voglio bene" era intervenuto l'altro, con spesse lenti
da miope, e sotto i miei occhi stupefatti si era messo
a darsi dei baci sull'avambraccio "guarda, guarda,
come mi voglio bene."
- Cosa mi era
successo, com'ero messa, per finire a passare il mio
tempo con quell'amica cerebrale e saccente, che mi
faceva la predica, e quei due bellimbusti?
- Con i miei amici di
prima fumavamo Gauloises blondes, ne accendevamo una
dietro l'altra, nelle nostre notti francesi, e
rubavamo il bicchiere della birra che aveva la scritta
più colorata, poi a casa lo riempivamo di cera
e lo trasformavamo in una candela con cui illuminavamo
il terrazzo, dove facevamo l'alba parlando di
sciocchezze, e André preparava le crèpes
per tutti, e Claudia non li sopportava.
- Claudia ha smesso
di telefonarmi dopo aver chiamato egoismo la mia
malinconia, infliggendomi la stessa beffa che subisce
chi vede scambiata per superbia la propria
timidezza.
- Il cameriere mi
porta le moules e il piatto di patatine fritte. Devo
ricordargli la caraffe d'eau.
- Le moules sono
abbondanti, e piccolissime. Mio zio, che le pescava,
diceva che piccole sono migliori. Ma queste sono poco
più grandi dell'unghia di un pollice, e non
riesco a mangiarle senza usare le mani. Le patatine,
al contrario, sono tagliate troppo grosse. Quando
finalmente il cameriere arriva con la caraffa, gli
domando un rince-doigts. Mi meraviglia che non me lo
abbia portato spontaneamente, come a quelli del
tavolino di fianco. Sembra quasi che sappia le cose,
questo ragazzetto, allineandosi tra coloro che mi
canzonano o mi ignorano. Tra canzonare una persona e
ignorarla non passa poi così tanta differenza.
Comincio a sperare che venga travolto attraversando
per l'ennesima volta la strada. Provo simpatia,
invece, per quelli del tavolino a fianco, che si fanno
i fatti loro, e hanno tutto il diritto di farlo, dal
momento che a loro non chiedo nulla.
- Della Sicilia della
mia adolescenza lontana non ho alcuna nostalgia. Qui
ero approdata, e qui volevo restare.
- Sulla spiaggia di
Mentone, nessun bambino urla, la gente non fa casino,
si gode la giornata di sole come fosse l'ultima
dell'estate. Hanno portato gli asciugamani a fantasie
provenzali, piantato ombrelloni che restano bassi,
estraggono bottiglie da borse termiche di dimensioni
ragionevoli e discrete, sono immersi in letture che
immagino interessanti. Due ombrelloni portano la
scritta dell'Orangina, uno della Perrier. Avevo sempre
cercato un ombrellone con una di quelle scritte
pubblicitarie. Qualcuno mi aveva detto che bisognava
chiederlo a qualcuno che aveva un bar. Con
André, che parlava con tutti, prima o poi un
proprietario di un bar l'avremmo
conosciuto.
- La gente di Mentone
non ti rompe le scatole. Da quando ho deciso di stare
sola e di non annoiarmi mai, c'è sempre qualche
uomo che mi si avvicina e attacca discorso. Di solito
sono corretti, educatamente galanti, alla fine mi
lasciano il loro numero di cellulare su un pezzetto di
carta stropicciato che finisco per buttare nel primo
cestino, ma non si rendono conto della quantità
di stupidaggini che dicono per non sembrare stupidi.
Qui non mi sembra possa accadere, non so
perché, ed è anche per questo che sono
qui.
- Non voglio che gli
uomini mi si avvicinino. Ho imparato a stare sola. Ho
imparato ad andare al cinema da sola, a teatro da
sola, al ristorante - ma solo a pranzo - da sola. Non
elemosino più contatti umani, non cerco
relazioni, che mi farebbero ricadere ogni volta negli
stessi errori, e subire quelli altrui.
- In realtà
sono stufa di ciò che mi viene offerto. Sono
stufa di avventure con uomini che non riescono a
farselo rizzare, con uomini che si divertono solo se
lo fanno di dietro, con uomini che riuniscono entrambi
questi aspetti. Dopo André, solo questo mi
è stato consentito di trovare.
- Mi arriva il
rince-doigts, ma non è sufficiente. Le mani mi
restano appiccicose. Mi verso l'acqua, non riesco a
finire la birra, che ormai è calda come brodo.
Mi accendo un'altra sigaretta. Non posso nemmeno
impadronirmi del posacenere, è veramente
brutto, di plastica leggermente fusa al centro e ai
bordi da sigarette mal spente.Chiedo il conto. Pago
con la carta di credito. Ovviamente non ritengo
opportuno lasciare un soldo di mancia.
- Mi alzo e mi
incammino senza fretta. Ho ancora mezz'ora prima che
il parcheggio scada. Passo il Casinò, con
quell'aria un po' lugubre di tutti i Casinò,
che sta ad evocare drammi di viveurs rovinati da una
puntata sbagliata allo chemin-de-fer, che finiscono
ignorati (o canzonati?) allo stesso modo di chi ha
perduto l'amore e gli amici in una scommessa troppo
azzardata.
- Non c'è
egoismo ne' cattiveria in chi ti lascia solo:
semplicemente le cose vanno così. E' tutto
così normale. E' normale che il disprezzo che
André ha attirato su di lui sia svanito con i
giorni, e l'antica solidarietà sia ritornata.
E' normale che la comprensione che ho attirato su di
me dapprima, si sia trasformata in compassione, poi in
pietà, e dopo in un leggero fastidio, sempre
più acuto, che ha portato ad evitarmi. Nessuno
ha colpa: la vita funziona così. Chi perde non
ha diritti.
- Passato il
Casinò, guardo verso la facciata dei palazzi:
noto che uno degli ultimi ristoranti si chiama Paris
Palais. Era quello. Ma certo, nelle foto il
Casinò era alle spalle. Non ha
importanza.
- Cammino e mi lascio
dietro gli ombrelloni dai bordi che ondeggiano nel
vento leggero, i tavolini con le loro tovagliette e le
loro ombre che ondeggiano, afflosciandosi di nuovo al
termine della folata quasi volessero arrendersi,
poiché tutto ciò che ondeggia e freme
finisce poi per ripiegarsi verso il basso, contorcersi
e affondare.
- Camminare per far
credere agli altri e a sé stessi di dirigersi
in una qualche direzione; camminare per guadagnarsi
un'estate di strade e di nulla, e nascondervi dentro
la lenta agonia dei giorni; rifugiarsi nei passi,
ripetitivi come un'abitudine rassicurante; passiva
come può esserlo solo chi è riuscita a
distaccarsi dalle cose e a guardarle con
lucidità, ormai lontana dalla gioia e dallo
strazio, dalle stagioni dell'allegria e dai vicoli
bui, la vita trasformata in una sequenza di gesti
necessari e insensati, come un guardaroba di abiti
appesi e pedantemente catalogati, per dare il senso
dell'ordine e salvare - almeno quella, cazzo! - la
facciata. Che chiamare dignità è ormai
un azzardo.
- I miei passi sulla
strada, questa luce, il vento leggero, la placida
indifferenza delle cose: è tutto ciò che
voglio.
- E' così
bella, nelle giornate d'estate, la spiaggia di
Mentone.
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