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               Staffetta È
               giovedì, ed ho tempo. Il tempo per qualsiasi
               cosa voglia. Dovrò aspettare almeno
               lunedì perché il dovere bussi alla mia
               porta, forse anche di più. Credo leggerò
               qualcosa oppure mi farò ipnotizzare dalla TV,
               ma non uscirò di casa. La
               mia casa ha un lungo corridoio, e non è uno
               scherzo attraversarla.Sono
               cinquantuno passi, li ho contati. Se c'è da
               muoversi dalla mia camera al salotto, mi assicuro
               sempre di aver portato con me tutto quello di cui
               potrei aver bisogno: rubrica, telefono, penna,
               quaderno, fazzoletti, libri. La mia casa è
               lunga, e mentre l'attraversi hai tempo per
               riflettere. Rifletto
               sul fatto che più nulla mi emoziona. Non voglio
               nulla e nulla mi manca. Non mi importano più le
               persone e la loro ammirazione. Sto immobile sul letto
               nella mia camera e non so nemmeno cosa augurarmi. Ho
               tutto alla portata di un telecomando, e non lascerei
               il mio letto se il citofono non mi costringesse ad
               alzarmi ed attraversare il corridoio. Quando
               attraverso il corridoio non posso fare a meno di
               concentrarmi su me stesso, sul mio corpo. Oltre alle
               spoglie pareti, il mio corpo è l'unica cosa ad
               esistere qui. Non che sia poco. Il mio corpo in
               movimento è quanto basta per fare apparire
               insignificanti le mie facoltà di comprensione:
               vengo travolto da un mare di intuizioni sulla mia
               natura, sull'evoluzione della mia specie, su come sto
               spendendo la mia vita. Fra le tante intuizioni
               incompiute, mi sembra di scorgerne alcune importanti.
               Mi sembra di scorgere il percorso del mio destino, e
               mi viene voglia di seguirlo. Uscire
               con Massimo era l'ultima cosa di cui avevo
               voglia.<Ciao
               Maurizio, che fai?><Niente>.<Ti
               va di fare un giro?><Scendo>.Massimo
               deve comperarsi un cappotto. Lo accompagno in
               silenzio. Nella testa mi sforzo di mettere in riga i
               miei pensieri, ma l'impresa è oltre le mie
               capacità. I pensieri hanno vita propria, non
               accettano ordini. Ognuno di loro infila le sue nervose
               radici nel tuo cervello, e pretende la sua parte di
               ragione: pretendere che tu assaggi i suoi frutti. Di
               tanto in tanto compare un'idea più forte, e
               prova a coagularne un grappolo intorno ad un unico
               ramo. Ho
               sempre avuto paura delle idee: o le contieni tutte o
               è meglio non averne alcuna. Le idee sono come
               virus. Si diffondono di cellula in cellula e ti
               uccidono, prendono il tuo posto. Le devi combattere
               tutte, o accettare di soccombere alla più
               forte, alla più resistente. Arrendermi ad
               un'idea, una qualsiasi, era la malattia cui ero
               destinato. <Massimo,
               non mi sento bene, torno a casa>. Giro i tacchi e
               mi allontano, ignorando le sue proteste. Ho un
               improvviso bisogno del mio corridoio, che mi faccia di
               nuovo affacciare su di un mare di idee in cui cercare
               comprensione. Faccio in fretta, faccio in un attimo, e
               sono di nuovo solo con le mie due pareti. Sono con la
               mia carne e con tutto ciò che un uomo
               può pensare di se stesso. Cosa
               può pensare un uomo di se stesso senza
               affogare? Si può semplificare l'oggetto, certo.
               Si può fare uno schizzo, ma gli schizzi sono
               carta ed inchiostro. "Io sono...", non ho mai
               cominciato una frase con queste parole: sarebbe come
               morire. Non voglio avere caratteristiche. Non voglio
               un carattere. Ci
               vogliono almeno quattro piani per racchiudere uno
               spazio, ma a me ne è sempre mancato uno, e per
               questo imbarco acqua. Ci sono "io", c'è il
               "mondo" e tra me ed il mondo una "rappresentazione".
               Se fosse tutto qui, sarebbe uno scherzo di cattivo
               gusto. Non
               voglio credere che la vita sia tutto uno scherzo, ed
               è per questo che passeggio, come uno
               squilibrato, avanti ed indietro per il corridoio.
               Nessuna magica intuizione arriva a soccorrermi, i
               pensieri mi scoppiano in faccia come bolle di sapone.
               La mia intelligenza non sopporta l'infinita
               varietà e grandezza dell'universo personale in
               cui sono immerso. Consumo
               la cena in un silenzio insopportabile e non
               sarò io ad interromperlo. Negli occhi di mio
               padre e di mia madre c'è il mio stesso
               smarrimento. Fuggo da tavola con ancora in bocca
               l'ultimo morso, deciso, una volta per tutte, a
               perdermi nella folla felice delle immagini televisive,
               a lasciarmi cadere nel vuoto. Sono
               al dodicesimo dei cinquantuno passi, quando una
               improvvisa vertigine mi fa barcollare. Appoggio le mie
               due mani alle due pareti e mi fermo. Sto forse
               morendo? Non
               sento più le mani e sudo freddo. Ancora una
               volta mi è concesso di scegliere, purificato
               del superfluo e dei particolari, mi si ripresenta il
               bivio del mio destino: fidarmi di un'unica idea che le
               contiene tutte oppure rinunciare, per sempre, a sapere
               quanto vale il mio tempo. |