- L'idolo
di stracci
-
- Era già
stata laggiù. Oltre i campi di girasole. Al di
là della selva. In fondo al ripido sentiero.
Laggiù, fra la bianca schiuma delle onde, a
piangere. Eppure non lo aveva mai visto prima. Seduto
su uno scoglio con la schiena ricurva, sembrava un
mucchio di stracci abbandonato sulla spiaggia. Il mare
mugghiava versi di morte, mentre lei si avvicinava
circospetta a quel relitto sconosciuto. Né le
minacciose creste spumeggianti, né le
voluminose montagne d'acque, lo atterrivano. Presto il
cielo plumbeo avrebbe scatenato la sua ira furibonda
con scariche elettriche e torrenti di lacrime, ma lui
non se ne curava. Cosa stava facendo? Spinta
dalla curiosità la ragazza procedeva a stento,
sfidando eroicamente le forze della natura. Terribili
onde grigie la ghermivano con raffiche di spruzzi.
Rabbrividiva, tuttavia era irresistibilmente attratta
da quella figura immobile. Ma cosa stava
facendo? Rifletteva. Una riflessione magnetica
sui fini del cosmo e le creature che vi respirano?
No. Disegnava. Vedeva il suo dito solcare la battigia
con lenti movimenti circolari. Svolgeva il suo compito
con devozione straordinaria. Nulla intaccava la sua
quiete. Nulla importava all'infuori di quei segni, che
venivano inesorabilmente spazzati via dalla violenta
invasione delle acque. A volte la sua nera figura
scompariva per pochi istanti, sommersa dai flutti
salmastri, per poi ricomparire magicamente nella
stessa posizione. In quella tragica situazione di
pericolo i suoi gesti acquistavano la sacralità
del rito, la misteriosa religiosità
dell'inviolabile. Abbarbicato su quello scoglio come
un enorme mollusco nero. Respirava tempesta.
Respirava? Forse per le gelide frustate d'aria, forse
per le onde sempre più vertiginose, forse
perché qualcosa l'aveva ferita al piede, la
ragazza si fermò. No. La stava guardando. Occhi
vitrei. Proiettavano insondabili abissi
spazio-temporali: foreste, montagne, oceani, deserti.
Spalancati e al contempo impenetrabili come quelli
della sfinge. Il sasso sotto il suo piede si
colorò di sangue. Con uno scatto repentino quel
tenebroso stilita abbandonò la sua roccia.
Qualcosa d'agghiacciante, sottile, della stessa
consistenza del pensiero, s'irradiò nei
tessuti, prendendosi poi in un labirinto di nervi.
Un'ondata imponente la scaraventò a terra. La
lattea schiuma di Venere travolse il suo corpo in un
gelido abbraccio, mentre sassi di ogni forma e
dimensione si insinuarono con forza tra le sue vesti,
invadendone i recessi più intimi e nascosti. Il
mare la baciò con la sua lingua spumeggiante,
profanando quelle labbra dischiuse. La lasciò
senza fiato per istanti interminabili. Tossì,
scalciò, sputò. respirò
avidamente aria, acqua, aria e ancora acqua. Fu
trascinata, risucchiata dalla corrente. Il mare voleva
inghiottirla, e lei lottava per rimanere attaccata
alla vita. Intravide per un attimo nel turbinio
furibondo degli elementi la sua lugubre sagoma. Poi fu
scaraventata nuovamente sott'acqua da vorticosi,
soffocanti inferni blu. Cercò disperatamente di
rialzarsi. Si ritrovò genuflessa, con gli occhi
catafratti dietro fastidiose cataratte d'acqua. Vide
attraverso quell'opaca trasparenza liquida l'ossuta
immagine di lui. A meno di due passi da lei si
stagliava in tutta la sua incrollabile fierezza. Un
vago senso di panico le nuotò dentro. Quello
sguardo corrosivo la torturava, e si accorse di
desiderare ardentemente che un'ondata mortale la
portasse via per sempre. Ma il mare, pur continuando
ad infuriare, aveva improvvisamente perso ogni potere
su di lei. Non aveva mai creduto in un dio, in quel
mondo senza amore. Poi deflesse il suo sguardo, e
capì di essere vittima. Intorno a lei tutto
scomparve. Le frustate d'acqua non la scalfivano
più e il vento si era trasformato in una
carezzevole brezza marina, come se fosse stata
inglobata da una sovrannaturale barriera protettiva.
Il cielo cominciò a scagliare le sue
maledizioni di pioggia e fulmini, ma la vicinanza di
quel demone vestito di stracci, rendeva la
perturbazione simile ad un piacevole e vivificante
massaggio. Quello sguardo carico di minacciose
promesse le ottenebrò la coscienza. Nella sua
testa esplose una voce. Senza volerlo si
ritrovò in piedi ad osservare quei lunghi
capelli ribelli, velenoso viluppo di serpenti. Si
sentì un girasole, uno di quei girasoli che
crescevano in quel campo lassù, in cima al
sentiero che si inerpicava per la selva. Un girasole,
costretto a volgersi sempre e comunque verso l'astro
lucente. Ma quella luce era malata. L'influsso di
quell'oscuro tropismo le fece perdere il controllo di
sé. Annebbiata, intorpidita. Una sonnambula.
Corrispose il suo sguardo. Intrecciò la sua
mano. Camminarono insieme respirando tempesta, come
innamorati superstiti di un naufragio. Al terrore, si
sovrappose uno strano senso d'imperturbabile
serenità. La salda stretta di quella mano la
rassicurava, e le sue dita lunghe e sottili dolcemente
incrociate alle sue generavano nel suo spirito tepori
di coperte e camini in una notte d'inverno. Ebbe
l'impressione di conoscerlo da sempre. Ma chi
era? Incedevano sulla battigia senza parlare,
senza guardarsi. Non ce n'era bisogno. Il loro
contatto era assoluto. Da dove veniva? Dai suoi
occhi le intime confidenze della buonanotte. Si
fermarono vicino allo scoglio. Lei aveva già
inclinato la testa di lato, mettendo in mostra il suo
candido collo. Era un'opera d'arte. Era quello che
voleva. Ed era pronta a dargli tutto. Aveva bisogno di
lei. Per vivere. Non era forse quello un bisogno
d'amore? Aveva messo l'orgoglio sotto i piedi. Era
come un bambino assetato di latte, in attesa
dell'estatica soddisfazione orale. Aveva messo
l'orgoglio sotto i piedi. Un vero innamorato. Lei non
aveva trovato nessuno nel mondo al di là del
sentiero disposto ad abbandonarsi in quella maniera
così assoluta. I suoi amori erano stati
fallimenti. Ardori artificiali tenuti in vita da una
noia rassicurante. Più volte aveva atteso la
grande fiamma, quella che avrebbe bruciato l'orgoglio
in nome della divina abnegazione, della completa e
incondizionata dipendenza. oltrepassare i limiti
corporei significava fondersi fino a non comprendere
più il possesso. Né mio, né tuo.
Gli avrebbe dato tutto. E pretese tutto. Sentì
la sua lingua fredda sul collo pulsante. Beveva.
Beveva. Né mio, né tuo. Dare tutto. Come
di fronte a un dio. E tale le appariva in quel
grigiore di tempesta. Un idolo. L'idolo di stracci.
Svuotata, annebbiata si ritrovò a succhiare
miracolosi zampilli rossi che sgorgavano dalle vene di
lui. Né mio, né tuo. Ubriaca. Si diffuse
nella sua testa una suadente melodia frigia. Infuriava
il nubifragio, ma non faceva rumore. poi la visione di
quel disegno. Quegli strani geroglifici che prima
aveva intravisto da lontano erano... lettere. Lettere
date in pasto alle onde. Formavano un nome: il suo.
Fragili lettere con un potere magnetico? La
pioggia cadeva, ma non faceva rumore. La visione si
dissolse, e lo vide di nuovo seduto al suo scoglio.
Scriveva ancora il suo nome? Una lettera.
Un'altra ancora. No. Stavolta non era il suo. Le onde
assediavano le rocce, ma non facevano rumore. Presa
dal panico la ragazza si scagliò contro il suo
innamorato per scongiurarlo. Aveva un terribile
presentimento. Ma di chi era quel nome?
Andavano, venivano, mentre lei era la disperazione che
lottava inutilmente contro l'ineluttabile. Stringeva
con forza quegli stracci scuri, zuppi del sale del
mondo. Tornarono, s'infransero, e lo portarono via. La
bianca schiuma ribollì. Quella di un mare
infernale, che non faceva rumore. E lei si
ritrovò sola, abbracciata a quel mucchio di
stracci putridi che non avevano più sostanza,
spogliata di ogni speranza. Aveva dato tutto, e non
aveva più niente per sé. Un urlo
lancinante esplose in quella spiaggia devastata
dall'uragano. Lacrime come pioggia allagavano il mare
sotto il diluvio. Assordante, insopportabile, invadeva
la spiaggia, percorreva il sentiero scuotendo gli
alberi, su per la selva, sempre più su, fino a
raggiungere quel campo dove ora tremavano i girasoli.
Quel rumore sovrastava il fragore del mare, l'ululato
del vento e il boato del tuono. Impetuoso, iroso,
rabbioso era lo straziante urlo della disillusione.
Sola, svuotata, riempita di niente. Il suo era il
pianto dell'universo.
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