Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Maurizio Mariscoli
Con questo racconto ha vinto il secondo premio ex aequo al concorso
Marguerite Yourcenar 2004, sezione narrativa

I LUPI DI VARGAS
 
 
Li vidi per la prima volta una gelida mattina d'inverno. La fitta foschia che ricopriva l'isola aveva cancellato in parte il tagliente profilo della scogliera, che appariva come un insieme di frastagliate asperità sospese nel vuoto. Sospinto da una forte corrente, il kayak avanzava rapido per le acque silenziose verso quell'orizzonte indistinto di cielo e mare.
Mi fissavano da lontano in quella spiaggia dimenticata. Riuscii a scorgere le loro orecchie puntute, triangolarmente erette nello stato d'allerta. Da sempre amavo quegli animali. Li amavo.
Li avevo visti inseguire un alce per otto chilometri, finché la preda non era crollata a terra esausta. Infaticabili cacciatori. Li avevo visti difendere i piccoli da un grizzly affamato. Coraggiosi guerrieri. Li avevo visti giocare nella taiga, inseguire una libellula e stupirsi per lo scorrere di un ruscello. Ogni cosa come fosse la prima. Amavo il loro sguardo impenetrabile, il loro umido tartufo nero, la loro folta pelliccia. Volevo essere come loro.
Li amavo, perché sopravvivevano ovunque, perché non avevano paura di niente, perché erano lupi.
Si stavano cibando dei resti di un'enorme balenottera azzurra, morta per cause misteriose, e trasportata in quei lidi ventosi dalla fredda corrente marina. Facevano a brani il corpulento cetaceo. Azzannavano, masticavano, sbavavano, rimpinzandosi lo stomaco con quel succulento pasto venuto dalle acque. Lupi che mangiano balene. Una visione surreale, intima fusione di elementi. Solo in quell'isola spettrale poteva accadere.
Non appena misi piede a terra, quelle bestie volsero lo sguardo verso di me, assumendo una venatoria postura d'attesa. Fiutarono l'aria come se avessero percepito qualche usta. Mi sentii preda. Per qualche istante. L'immobilità di quei carnivori m'inquietava considerevolmente. Filtravano ricettacoli d'odori col muso verso il cielo, le orecchie tese, pronti a catturare il più flebile segnale acustico: un motivo per allontanarsi, un altro per avvicinarsi. Olfatto, udito. Era il loro modo d'orientarsi, il loro modo di decifrare l'ingannevole realtà.
Poi cominciarono a trottare nella mia direzione e fu il panico. Il mio primo istinto fu quello di precipitarmi sul kayak, brandire la pagaya e difendermi, ma osservando attentamente il costante sventolare delle code e il loro andamento baldanzoso, compresi che quei lupi non mi si stavano scagliando contro. Mi stavano venendo incontro. L'inquietudine s'affievolì fino a scomparire dietro quelle esuberanti code oscillanti e quelle penzolanti lingue amichevoli. Protesi coraggiosamente la mano verso quei cacciatori d'alci. Il primo lupo, un enorme maschio grigio di circa cinquanta chili, avvicinò il muso alle mie dita. Annusò per qualche istante, mentre il mio spirito veniva nuovamente invaso da sottili scosse adrenaliniche.
Con quelle bestie enormi non si scherzava e alla minima avvisaglia di pericolo ero pronto a ritirare la mano e a fuggire.
Stranamente, inspiegabilmente, il lupo cominciò a leccarmi. L'altro, una femmina di circa quaranta chili, si sedette in disparte, puntando su di me i suoi occhi giallastri. Sembravano aver dimenticato la loro natura schiva nella speranza di procacciarsi cibo a buon mercato direttamente dalla mano dell'uomo. Probabilmente qualcuno li aveva abituati così. Avevano perso la loro indole selvaggia, ma non sarebbero mai diventati animali domestici. E ciò poteva essere pericoloso. Sarebbero sempre appartenuti alla gelida brina del mattino, ai grigiori nebbiosi di quella selva, e il loro insopprimibile istinto li avrebbe spinti a percorrere oscuri sentieri inesplorati dall'uomo e dalla sua morale.
Mangiarono dalla mia mano due polposi pezzi di carne cruda, e dal loro sguardo sembrò provenire un vibratile segnale di ringraziamento. Scattai qualche foto a quegli splendidi esemplari, e decisi d'accamparmi nell'isola per quella notte.
Fu una notte stellata quella, una notte passata ad ascoltare il suggestivo ululato di quei temibili cacciatori che ora consideravo fratelli. Sì, perché mi avevano accettato nel branco. Non so come, avevo passato la selezione, e in qualche modo ero riuscito ad instaurare un rapporto comunicativo ed armonioso con quegli animali.
Mi comparvero in sogno in un protettivo girotondo notturno, come se mi facessero la guardia. A volte si stendevano a terra, appoggiando il muso e la folta pelliccia del collo sul mio corpo, per riscaldarmi dalle gelide folate del vento. Li accarezzavo mentre si strusciavano sopra di me.
Sognavo o stavo fluttuando in un fragile dormiveglia?
Li viziavo e avrei voluto viziarli per sempre, perché mi avevano aiutato a ritrovare la mia parte selvaggia, il mio spirito libero che la società cercava subdolamente ogni giorno di reprimere.
Il mondo cercava di soffocarmi. Avevo sempre pensato di amare il mio lavoro di giornalista, ma mi sbagliavo. La redazione era una stridente macchina di tortura, dotata d'ingranaggi infernali, che asfissiava e smembrava la mia libertà. Stampa nera, avvelenata dai luoghi comuni, dalla politica, dal qualunquismo, dalla spettacolarizzazione della morte. Scrivevo per sadici repressi, per annoiati cronici, per sterili grida di protesta, per deboli e ottusi che consideravano le disgrazie stampate lontane dalla loro dimensione, dalla loro vita, per la superficialità imperante dell'asettica era telematica, per la disarmante avidità umana, invisibile come una malattia venerea, perfida come un'ipodermica manipolazione surrettizia. Ma da quella notte tutta quell'immonda lordura sarebbe precipitata nell'oblio.
Respirare, bere, mangiare, defecare, dormire, amare. Questo era vivere. Un viaggio psichico alla scoperta del preistorico, di ciò che da sempre sapevo di possedere.
Pappa, cacca, nanna, mamma. Ed ero in loro compagnia quella notte in quella gita meravigliosa.
Pappa, cacca, nanna, mamma. In compagnia dei lupi. Mi coccolavano, perché li avevo viziati, li viziavo perché li amavo: mamma lupo, papà lupo, fratello lupo, sorella lupo.
Viaggiammo nei pensieri
esplorandone i fondali,
scoprendo quei tesori
che da tempo cercavamo.
 
Ma presto sarebbe arrivata l'estate e le cose sarebbero precipitate. Centinaia di turisti avrebbero invaso l'isola di Vargas, e l'invernale regno dei lupi sarebbe stato teatro d'una tragedia.
 
Agosto. Mi ero licenziato. La redazione era stata violentemente spazzata via dalla mia galassia. Non guadagnavo più niente da sei mesi, ma potevo sopravvivere. I miei cospicui risparmi mi avrebbero permesso di condurre un'esistenza dignitosa per almeno un'altra stagione e dopotutto non avevo mai dato un grande valore al denaro. Potevo concedermi il lusso di dedicare gran parte del mio tempo a me stesso. Alle mie passioni. Ai lupi.
Taro e Jara, così avevo battezzato quegli splendidi animali, scorazzavano felici per Vargas, e avevano dato alla luce due piccoli. Era nata una famiglia. Quei lupi erano diventati gli esseri viventi a me più cari, tanto che sentivo la loro nostalgia, quando non mi recavo all'isola per tre giorni consecutivi. In città, da quando ero diventato disoccupato oltre che scapolo, mi guardavano con sospetto, come se fossi un pericoloso ribelle che stesse tramando chissà quali intrighi ai danni della società. Quelli che una volta consideravo amici mi rivolgevano parole compassionevoli, esortandomi a riprendere la mia sfolgorante carriera giornalistica, troncata senza una giustificazione plausibile. Io rispondevo a quelle insulse domande parlando di lupi, di vita selvaggia, di libertà. Non capivano.
Il nostro dialogo era finto, ostacolato da vertiginose barriere culturali. Mi sentivo distante anni luce dalla loro concezione della vita. Il tempo è denaro. Denaro da accumulare, da dilapidare, case da costruire, terreni da disboscare, senza il minimo rispetto della natura. Della vita. Pensavano di dover prestar soccorso a quel povero cittadino che aveva smarrito la via a causa dei lupi, al contrario io ero dell'opinione che fossero loro ad aver bisogno di me. Ero orgoglioso di aver svenduto le pusillanimi certezze della civiltà per la vita selvaggia che valorizza ogni singolo respiro.
All'emporio, al bar, all'osteria, per le strade, ovunque intorno a me si era così creato un vuoto difficile da colmare, un vuoto che non volevo colmare. E non si sarebbe colmato.
Trascorrevo la maggior parte del tempo nell'isola coi lupi. A volte ci passavo anche la notte. Piantavo la tenda, allestivo un poetico falò arrostendo prelibate carni d'agnello e insieme ai miei fratelli ululanti banchettavo spensierato, contento di niente, felice di essere vivo. Jara, la femmina, dimostrava la sua riconoscenza porgendomi la zampa sinistra anteriore, mentre Taro, il maschio alfa, sfregava la sua folta pelliccia contro la mia pelle, emettendo dei profondi suoni ringhianti. I cuccioli trotterellavano intorno a noi, animati da quella inestinguibile curiosità che caratterizza tutti i neonati. I lupi erano sempre pronti ad afferrare qualunque cosa fosse commestibile o distruttibile, e mi ritrovavo a giocare con loro al chiaro di luna con la competitività e l'entusiasmo di un bambino. Spesso li osservavo inseguire lepri, catturare arvicole, ruzzolare sulla spiaggia, gettarsi nell'acqua del mare sulle tracce di qualche gambero. A volte rimanevano immobili, ipnotizzati dal movimento dei pesci o dalla loro immagine riflessa nel cristallino specchio dell'oceano. C'era un forte legame tra i lupi e gli animali dell'isola di Vargas: predatori e prede stabilivano dialoghi di morte fatti di sguardi impenetrabili, attacchi vincenti e fughe disperate. Spesso venivano uccise prede ammalate o anziane. Alcune volte avevo addirittura l'impressione che alci e cervi comunicassero ai lupi il loro desiderio di morire da una sfumatura dello sguardo, dall'andatura anomala, dall'alito rancido, da ferite, infezioni o cospicue perdite di peli. I lupi notavano quei segnali e svolgevano senza indugi il loro ruolo di morte. Non erano crudeli. Seguivano il corso della natura. Su un libro poi avevo letto che i miei fratelli erano i segreti alleati della foresta; infatti la loro pelliccia raccoglieva e trasportava i semi caduti dagli alberi disperdendoli lungo i sentieri a chilometri di distanza. Coltivavano il loro universo. Inconsapevolmente.
La notte dormivano fuori della tenda. Li udivo russare, uggiolare, zampettare, correre, ululare. Quei suoni mi tenevano compagnia rendendo più dolce la mia solitudine. Sì, perché a volte mi sentivo solo, l'unico essere umano sulla faccia della terra. Gli altri erano così diversi da me...ed io avevo preso una strada così diversa dalla loro...Avevo a tal punto bisogno d'affetto che una volta mi azzardai addirittura a dormire all'aperto sul dorso di Jara. La lupa sembrò comprendere il mio disperato bisogno d'amore. Mi accettò e mi coccolò, come se fossi stato uno dei suoi cuccioli. Quella notte Taro mi annusò circospetto, curioso, forse domandandosi come mai dormissi all'aperto con loro. C'era qualche problema? No, almeno così sembrava. Pago delle sue indagini, l'enorme lupo grigio sbadigliò ostentando fiero tutta la sua poderosa dentatura, si sistemò col muso sul mio fianco e si addormentò. Quella fu l'ultima notte che trascorremmo insieme.
 
Per due giorni mi assentai dall'isola. Due giorni soltanto. Un gruppo di diciassette turisti raggiunse a bordo dei kayak la costa nord-ovest di Vargas. Durante la notte, uno dei componenti del gruppo perse buona parte dello scalpo per il morso di un lupo. Dai resoconti delle autorità sembra che il lupo avesse trascinato il sacco a pelo del turista fuori dalla tenda e quest'ultimo, colto dal panico, avesse cercato di scacciarlo con un bastone. L'animale aveva reagito azzannandolo alla testa. Gli altri turisti, svegliati dalle grida dello sventurato, allontanarono il lupo e chiamarono i soccorsi.
Un elicottero trasportò il ferito all'ospedale. L'uomo fu abbastanza fortunato da riuscire a salvarsi.
Vidi il servizio alla televisione e mi precipitai direttamente fuori di casa, diretto a Vargas. Ero preda di terribili palpitazioni, non per quello che era successo al turista, ma per le parole che erano state pronunciate dalla voce fuori campo del giornalista.
Saltai sulla sella della mia moto da enduro e schizzai come un pazzo lungo la strada deserta. Erano le quattro del mattino. Grigio ovunque, in tutte le sue sfumature. In giro non c'era nessuno, e il ruggito della mia moto era il folle urlo d'agonia d'un disperato. Giunsi in spiaggia come una scheggia. Non parcheggiai la moto, ma la lasciai cadere sulla breccia sabbiosa. Caddi a terra davanti al deposito dei kayak. Un dolore lancinante attraversò la mia spalla sinistra. Il mio ginocchio sanguinava copiosamente. Ma non era niente in confronto a quella lugubre sensazione di morte portata da quelle parole ascoltate alla televisione. Mi rialzai sgomento. Sanguinavo, ma imperterrito continuavo a correre. Sanguinavo, ma sollevai il kayak con una forza sovrannaturale, spinto da una furia omicida che potenziava tutto il mio apparato muscolare, rendendolo un concentrato di tensione esplosiva. Salii a bordo e come un ossesso cominciai a fendere violentemente l'acqua con la pagaya. Zampilli salati mi sferzavano il viso, portati dal gelido vento del nord. Avevo l'impressione che un gonfiore abnorme si stesse insinuando fra gli organi del mio corpo. Il suo effetto devastante avrebbe presto sconvolto il mio equilibrio psico-fisico. Solcato da rivoli di lacrime, dipinto del turgido rossore del pianto, mi catapultavo sull'isola come se ci fosse una speranza. Non c'era. Scavavano nel mio animo, corrodendolo, riducendolo ad una fradicia poltiglia senza vita, quelle terribili parole, insulse lettere intrecciate insieme nel telaio della morte. Comunque proprio questa mattina due ranger hanno raggiunto Vargas e hanno ucciso a colpi di fucile due grossi lupi. Abbiamo ragione di pensare che fossero gli ultimi esemplari rimasti nell'isola, quindi non dovrebbe esserci più pericolo per i turisti.
A Vargas i lupi sono estinti!
 
Vidi i loro corpi sulla spiaggia, martoriati dai colpi di fucile. Non avevano tentato neanche di fuggire. Erano andati incontro ai ranger come erano venuti incontro a me la prima volta. Di corsa, scodinzolando. Non conoscevano le armi da fuoco e non sapevano che l'aggressione della notte precedente sarebbe loro costata la vita. Taro aveva il ventre spappolato, le viscere adagiate sulla spiaggia coloravano la sabbia di dense macchie rosse. L'enorme maschio alfa, che misurava al garrese settantacinque centimetri, ora non era altro che una carcassa senza vita, cibo per i corvi imperiali. Jara era stata colpita sotto il collo, e giaceva esanime con la zampa protesa in avanti come per salutarmi, quella zampa che tante volte avevo stretto nella mano. E pensare che solo tre giorni prima avevo dormito su quella soffice pelliccia, ora imbrattata di sangue.
Taro, Jara. Quanto mi avevano insegnato! Eravamo diversi. Eravamo uguali. Quanto li avevo amati! Vittime di un malinteso, di un equivoco, dell'ancestrale maledizione dei bestiari medievali, del Malleus Maleficarum, di Cappuccetto rosso. Dolce seduttore, efferato assassino, il demone del lupo era ancora una volta stato esorcizzato col sangue nella palude dell'ignoranza. Quei lupi non avrebbero attaccato nessuno se non fossero stati provocati. Ne ero certo. Per un delitto del genere non esisteva alcuna forma di perdono. Abbiamo ragione di pensare che fossero gli ultimi esemplari rimasti nell'isola, quindi non dovrebbe esserci più pericolo per i turisti. A Vargas i lupi sono estinti!
E i cuccioli? Che fine avevano fatto? Forse erano ancora vivi.
Mi scagliai nel cuore della foresta graffiandomi coi rami, lacerandomi i vestiti. Il sangue scorreva copioso dalle numerose ferite che mi si erano aperte sulle braccia e sul petto. Mi fermai ansimando in una radura. Sporadici cinguettii, fugaci rumori di piccoli mammiferi, striscianti creature del sottobosco. Nessuna traccia dei cuccioli.
A Vargas i lupi sono estinti!
Era mattino ormai, anche se la luce per me non sarebbe mai arrivata. Mi liberai di tutti i vestiti, e mi rotolai per terra nudo, agitando le braccia e le gambe verso il cielo, urlando a perdifiato finché la voce non mi si strozzò in gola. Mi rialzai sporco di terra e sangue e avanzai a quattro zampe, ricettivo ad ogni arborea vibrazione. Un peromisco dalle grandi orecchie stava rosicchiando qualcosa dall'aspetto vegetale. Mi guardava diffidente, mentre si cibava di quella verde protuberanza, nata dalla terra. Feci un balzo nella sua direzione, ma il piccolo roditore mi sfuggì. Con un rapido guizzo scomparve nel folto degli alberi. Avrei imparato.
Presto la natura si sarebbe risvegliata. Presto sarebbero arrivati i turisti. Li avrei aspettati.
A Vargas i lupi sono estinti!
Non ancora, pensai.
Non ancora.

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