- I
LUPI DI VARGAS
-
-
- Li vidi per la
prima volta una gelida mattina d'inverno. La fitta
foschia che ricopriva l'isola aveva cancellato in
parte il tagliente profilo della scogliera, che
appariva come un insieme di frastagliate
asperità sospese nel vuoto. Sospinto da una
forte corrente, il kayak avanzava rapido per le acque
silenziose verso quell'orizzonte indistinto di cielo e
mare.
- Mi fissavano da
lontano in quella spiaggia dimenticata. Riuscii a
scorgere le loro orecchie puntute, triangolarmente
erette nello stato d'allerta. Da sempre amavo quegli
animali. Li amavo.
- Li avevo visti
inseguire un alce per otto chilometri, finché
la preda non era crollata a terra esausta.
Infaticabili cacciatori. Li avevo visti difendere i
piccoli da un grizzly affamato. Coraggiosi guerrieri.
Li avevo visti giocare nella taiga, inseguire una
libellula e stupirsi per lo scorrere di un ruscello.
Ogni cosa come fosse la prima. Amavo il loro sguardo
impenetrabile, il loro umido tartufo nero, la loro
folta pelliccia. Volevo essere come loro.
- Li amavo,
perché sopravvivevano ovunque, perché
non avevano paura di niente, perché erano
lupi.
- Si stavano cibando
dei resti di un'enorme balenottera azzurra, morta per
cause misteriose, e trasportata in quei lidi ventosi
dalla fredda corrente marina. Facevano a brani il
corpulento cetaceo. Azzannavano, masticavano,
sbavavano, rimpinzandosi lo stomaco con quel
succulento pasto venuto dalle acque. Lupi che mangiano
balene. Una visione surreale, intima fusione di
elementi. Solo in quell'isola spettrale poteva
accadere.
- Non appena misi
piede a terra, quelle bestie volsero lo sguardo verso
di me, assumendo una venatoria postura d'attesa.
Fiutarono l'aria come se avessero percepito qualche
usta. Mi sentii preda. Per qualche istante.
L'immobilità di quei carnivori m'inquietava
considerevolmente. Filtravano ricettacoli d'odori col
muso verso il cielo, le orecchie tese, pronti a
catturare il più flebile segnale acustico: un
motivo per allontanarsi, un altro per avvicinarsi.
Olfatto, udito. Era il loro modo d'orientarsi, il loro
modo di decifrare l'ingannevole
realtà.
- Poi cominciarono a
trottare nella mia direzione e fu il panico. Il mio
primo istinto fu quello di precipitarmi sul kayak,
brandire la pagaya e difendermi, ma osservando
attentamente il costante sventolare delle code e il
loro andamento baldanzoso, compresi che quei lupi non
mi si stavano scagliando contro. Mi stavano venendo
incontro. L'inquietudine s'affievolì fino a
scomparire dietro quelle esuberanti code oscillanti e
quelle penzolanti lingue amichevoli. Protesi
coraggiosamente la mano verso quei cacciatori d'alci.
Il primo lupo, un enorme maschio grigio di circa
cinquanta chili, avvicinò il muso alle mie
dita. Annusò per qualche istante, mentre il mio
spirito veniva nuovamente invaso da sottili scosse
adrenaliniche.
- Con quelle bestie
enormi non si scherzava e alla minima avvisaglia di
pericolo ero pronto a ritirare la mano e a
fuggire.
- Stranamente,
inspiegabilmente, il lupo cominciò a leccarmi.
L'altro, una femmina di circa quaranta chili, si
sedette in disparte, puntando su di me i suoi occhi
giallastri. Sembravano aver dimenticato la loro natura
schiva nella speranza di procacciarsi cibo a buon
mercato direttamente dalla mano dell'uomo.
Probabilmente qualcuno li aveva abituati così.
Avevano perso la loro indole selvaggia, ma non
sarebbero mai diventati animali domestici. E
ciò poteva essere pericoloso. Sarebbero sempre
appartenuti alla gelida brina del mattino, ai grigiori
nebbiosi di quella selva, e il loro insopprimibile
istinto li avrebbe spinti a percorrere oscuri sentieri
inesplorati dall'uomo e dalla sua morale.
- Mangiarono dalla
mia mano due polposi pezzi di carne cruda, e dal loro
sguardo sembrò provenire un vibratile segnale
di ringraziamento. Scattai qualche foto a quegli
splendidi esemplari, e decisi d'accamparmi nell'isola
per quella notte.
- Fu una notte
stellata quella, una notte passata ad ascoltare il
suggestivo ululato di quei temibili cacciatori che ora
consideravo fratelli. Sì, perché mi
avevano accettato nel branco. Non so come, avevo
passato la selezione, e in qualche modo ero riuscito
ad instaurare un rapporto comunicativo ed armonioso
con quegli animali.
- Mi comparvero in
sogno in un protettivo girotondo notturno, come se mi
facessero la guardia. A volte si stendevano a terra,
appoggiando il muso e la folta pelliccia del collo sul
mio corpo, per riscaldarmi dalle gelide folate del
vento. Li accarezzavo mentre si strusciavano sopra di
me.
- Sognavo o stavo
fluttuando in un fragile dormiveglia?
- Li viziavo e avrei
voluto viziarli per sempre, perché mi avevano
aiutato a ritrovare la mia parte selvaggia, il mio
spirito libero che la società cercava
subdolamente ogni giorno di reprimere.
- Il mondo cercava di
soffocarmi. Avevo sempre pensato di amare il mio
lavoro di giornalista, ma mi sbagliavo. La redazione
era una stridente macchina di tortura, dotata
d'ingranaggi infernali, che asfissiava e smembrava la
mia libertà. Stampa nera, avvelenata dai luoghi
comuni, dalla politica, dal qualunquismo, dalla
spettacolarizzazione della morte. Scrivevo per sadici
repressi, per annoiati cronici, per sterili grida di
protesta, per deboli e ottusi che consideravano le
disgrazie stampate lontane dalla loro dimensione,
dalla loro vita, per la superficialità
imperante dell'asettica era telematica, per la
disarmante avidità umana, invisibile come una
malattia venerea, perfida come un'ipodermica
manipolazione surrettizia. Ma da quella notte tutta
quell'immonda lordura sarebbe precipitata
nell'oblio.
- Respirare, bere,
mangiare, defecare, dormire, amare. Questo era vivere.
Un viaggio psichico alla scoperta del preistorico, di
ciò che da sempre sapevo di
possedere.
- Pappa, cacca,
nanna, mamma. Ed ero in loro compagnia quella notte in
quella gita meravigliosa.
- Pappa, cacca,
nanna, mamma. In compagnia dei lupi. Mi coccolavano,
perché li avevo viziati, li viziavo
perché li amavo: mamma lupo, papà lupo,
fratello lupo, sorella lupo.
- Viaggiammo nei
pensieri
- esplorandone i
fondali,
- scoprendo quei
tesori
- che da tempo
cercavamo.
-
- Ma presto sarebbe
arrivata l'estate e le cose sarebbero precipitate.
Centinaia di turisti avrebbero invaso l'isola di
Vargas, e l'invernale regno dei lupi sarebbe stato
teatro d'una tragedia.
-
- Agosto. Mi ero
licenziato. La redazione era stata violentemente
spazzata via dalla mia galassia. Non guadagnavo
più niente da sei mesi, ma potevo sopravvivere.
I miei cospicui risparmi mi avrebbero permesso di
condurre un'esistenza dignitosa per almeno un'altra
stagione e dopotutto non avevo mai dato un grande
valore al denaro. Potevo concedermi il lusso di
dedicare gran parte del mio tempo a me stesso. Alle
mie passioni. Ai lupi.
- Taro e Jara,
così avevo battezzato quegli splendidi animali,
scorazzavano felici per Vargas, e avevano dato alla
luce due piccoli. Era nata una famiglia. Quei lupi
erano diventati gli esseri viventi a me più
cari, tanto che sentivo la loro nostalgia, quando non
mi recavo all'isola per tre giorni consecutivi. In
città, da quando ero diventato disoccupato
oltre che scapolo, mi guardavano con sospetto, come se
fossi un pericoloso ribelle che stesse tramando
chissà quali intrighi ai danni della
società. Quelli che una volta consideravo amici
mi rivolgevano parole compassionevoli, esortandomi a
riprendere la mia sfolgorante carriera giornalistica,
troncata senza una giustificazione plausibile. Io
rispondevo a quelle insulse domande parlando di lupi,
di vita selvaggia, di libertà. Non
capivano.
- Il nostro dialogo
era finto, ostacolato da vertiginose barriere
culturali. Mi sentivo distante anni luce dalla loro
concezione della vita. Il tempo è denaro.
Denaro da accumulare, da dilapidare, case da
costruire, terreni da disboscare, senza il minimo
rispetto della natura. Della vita. Pensavano di dover
prestar soccorso a quel povero cittadino che aveva
smarrito la via a causa dei lupi, al contrario io ero
dell'opinione che fossero loro ad aver bisogno di me.
Ero orgoglioso di aver svenduto le pusillanimi
certezze della civiltà per la vita selvaggia
che valorizza ogni singolo respiro.
- All'emporio, al
bar, all'osteria, per le strade, ovunque intorno a me
si era così creato un vuoto difficile da
colmare, un vuoto che non volevo colmare. E non si
sarebbe colmato.
- Trascorrevo la
maggior parte del tempo nell'isola coi lupi. A volte
ci passavo anche la notte. Piantavo la tenda,
allestivo un poetico falò arrostendo prelibate
carni d'agnello e insieme ai miei fratelli ululanti
banchettavo spensierato, contento di niente, felice di
essere vivo. Jara, la femmina, dimostrava la sua
riconoscenza porgendomi la zampa sinistra anteriore,
mentre Taro, il maschio alfa, sfregava la sua folta
pelliccia contro la mia pelle, emettendo dei profondi
suoni ringhianti. I cuccioli trotterellavano intorno a
noi, animati da quella inestinguibile curiosità
che caratterizza tutti i neonati. I lupi erano sempre
pronti ad afferrare qualunque cosa fosse commestibile
o distruttibile, e mi ritrovavo a giocare con loro al
chiaro di luna con la competitività e
l'entusiasmo di un bambino. Spesso li osservavo
inseguire lepri, catturare arvicole, ruzzolare sulla
spiaggia, gettarsi nell'acqua del mare sulle tracce di
qualche gambero. A volte rimanevano immobili,
ipnotizzati dal movimento dei pesci o dalla loro
immagine riflessa nel cristallino specchio
dell'oceano. C'era un forte legame tra i lupi e gli
animali dell'isola di Vargas: predatori e prede
stabilivano dialoghi di morte fatti di sguardi
impenetrabili, attacchi vincenti e fughe disperate.
Spesso venivano uccise prede ammalate o anziane.
Alcune volte avevo addirittura l'impressione che alci
e cervi comunicassero ai lupi il loro desiderio di
morire da una sfumatura dello sguardo, dall'andatura
anomala, dall'alito rancido, da ferite, infezioni o
cospicue perdite di peli. I lupi notavano quei segnali
e svolgevano senza indugi il loro ruolo di morte. Non
erano crudeli. Seguivano il corso della natura. Su un
libro poi avevo letto che i miei fratelli erano i
segreti alleati della foresta; infatti la loro
pelliccia raccoglieva e trasportava i semi caduti
dagli alberi disperdendoli lungo i sentieri a
chilometri di distanza. Coltivavano il loro universo.
Inconsapevolmente.
- La notte dormivano
fuori della tenda. Li udivo russare, uggiolare,
zampettare, correre, ululare. Quei suoni mi tenevano
compagnia rendendo più dolce la mia solitudine.
Sì, perché a volte mi sentivo solo,
l'unico essere umano sulla faccia della terra. Gli
altri erano così diversi da me...ed io avevo
preso una strada così diversa dalla
loro...Avevo a tal punto bisogno d'affetto che una
volta mi azzardai addirittura a dormire all'aperto sul
dorso di Jara. La lupa sembrò comprendere il
mio disperato bisogno d'amore. Mi accettò e mi
coccolò, come se fossi stato uno dei suoi
cuccioli. Quella notte Taro mi annusò
circospetto, curioso, forse domandandosi come mai
dormissi all'aperto con loro. C'era qualche problema?
No, almeno così sembrava. Pago delle sue
indagini, l'enorme lupo grigio sbadigliò
ostentando fiero tutta la sua poderosa dentatura, si
sistemò col muso sul mio fianco e si
addormentò. Quella fu l'ultima notte che
trascorremmo insieme.
-
- Per due giorni mi
assentai dall'isola. Due giorni soltanto. Un gruppo di
diciassette turisti raggiunse a bordo dei kayak la
costa nord-ovest di Vargas. Durante la notte, uno dei
componenti del gruppo perse buona parte dello scalpo
per il morso di un lupo. Dai resoconti delle
autorità sembra che il lupo avesse trascinato
il sacco a pelo del turista fuori dalla tenda e
quest'ultimo, colto dal panico, avesse cercato di
scacciarlo con un bastone. L'animale aveva reagito
azzannandolo alla testa. Gli altri turisti, svegliati
dalle grida dello sventurato, allontanarono il lupo e
chiamarono i soccorsi.
- Un elicottero
trasportò il ferito all'ospedale. L'uomo fu
abbastanza fortunato da riuscire a
salvarsi.
- Vidi il servizio
alla televisione e mi precipitai direttamente fuori di
casa, diretto a Vargas. Ero preda di terribili
palpitazioni, non per quello che era successo al
turista, ma per le parole che erano state pronunciate
dalla voce fuori campo del giornalista.
- Saltai sulla sella
della mia moto da enduro e schizzai come un pazzo
lungo la strada deserta. Erano le quattro del mattino.
Grigio ovunque, in tutte le sue sfumature. In giro non
c'era nessuno, e il ruggito della mia moto era il
folle urlo d'agonia d'un disperato. Giunsi in spiaggia
come una scheggia. Non parcheggiai la moto, ma la
lasciai cadere sulla breccia sabbiosa. Caddi a terra
davanti al deposito dei kayak. Un dolore lancinante
attraversò la mia spalla sinistra. Il mio
ginocchio sanguinava copiosamente. Ma non era niente
in confronto a quella lugubre sensazione di morte
portata da quelle parole ascoltate alla televisione.
Mi rialzai sgomento. Sanguinavo, ma imperterrito
continuavo a correre. Sanguinavo, ma sollevai il kayak
con una forza sovrannaturale, spinto da una furia
omicida che potenziava tutto il mio apparato
muscolare, rendendolo un concentrato di tensione
esplosiva. Salii a bordo e come un ossesso cominciai a
fendere violentemente l'acqua con la pagaya. Zampilli
salati mi sferzavano il viso, portati dal gelido vento
del nord. Avevo l'impressione che un gonfiore abnorme
si stesse insinuando fra gli organi del mio corpo. Il
suo effetto devastante avrebbe presto sconvolto il mio
equilibrio psico-fisico. Solcato da rivoli di lacrime,
dipinto del turgido rossore del pianto, mi catapultavo
sull'isola come se ci fosse una speranza. Non c'era.
Scavavano nel mio animo, corrodendolo, riducendolo ad
una fradicia poltiglia senza vita, quelle terribili
parole, insulse lettere intrecciate insieme nel telaio
della morte. Comunque proprio questa mattina due
ranger hanno raggiunto Vargas e hanno ucciso a colpi
di fucile due grossi lupi. Abbiamo ragione di pensare
che fossero gli ultimi esemplari rimasti nell'isola,
quindi non dovrebbe esserci più pericolo per i
turisti.
- A Vargas i lupi
sono estinti!
-
- Vidi i loro corpi
sulla spiaggia, martoriati dai colpi di fucile. Non
avevano tentato neanche di fuggire. Erano andati
incontro ai ranger come erano venuti incontro a me la
prima volta. Di corsa, scodinzolando. Non conoscevano
le armi da fuoco e non sapevano che l'aggressione
della notte precedente sarebbe loro costata la vita.
Taro aveva il ventre spappolato, le viscere adagiate
sulla spiaggia coloravano la sabbia di dense macchie
rosse. L'enorme maschio alfa, che misurava al garrese
settantacinque centimetri, ora non era altro che una
carcassa senza vita, cibo per i corvi imperiali. Jara
era stata colpita sotto il collo, e giaceva esanime
con la zampa protesa in avanti come per salutarmi,
quella zampa che tante volte avevo stretto nella mano.
E pensare che solo tre giorni prima avevo dormito su
quella soffice pelliccia, ora imbrattata di
sangue.
- Taro, Jara. Quanto
mi avevano insegnato! Eravamo diversi. Eravamo uguali.
Quanto li avevo amati! Vittime di un malinteso, di un
equivoco, dell'ancestrale maledizione dei bestiari
medievali, del Malleus Maleficarum, di Cappuccetto
rosso. Dolce seduttore, efferato assassino, il demone
del lupo era ancora una volta stato esorcizzato col
sangue nella palude dell'ignoranza. Quei lupi non
avrebbero attaccato nessuno se non fossero stati
provocati. Ne ero certo. Per un delitto del genere non
esisteva alcuna forma di perdono. Abbiamo ragione
di pensare che fossero gli ultimi esemplari rimasti
nell'isola, quindi non dovrebbe esserci più
pericolo per i turisti. A Vargas i lupi sono
estinti!
- E i cuccioli? Che
fine avevano fatto? Forse erano ancora
vivi.
- Mi scagliai nel
cuore della foresta graffiandomi coi rami, lacerandomi
i vestiti. Il sangue scorreva copioso dalle numerose
ferite che mi si erano aperte sulle braccia e sul
petto. Mi fermai ansimando in una radura. Sporadici
cinguettii, fugaci rumori di piccoli mammiferi,
striscianti creature del sottobosco. Nessuna traccia
dei cuccioli.
- A Vargas i lupi
sono estinti!
- Era mattino ormai,
anche se la luce per me non sarebbe mai arrivata. Mi
liberai di tutti i vestiti, e mi rotolai per terra
nudo, agitando le braccia e le gambe verso il cielo,
urlando a perdifiato finché la voce non mi si
strozzò in gola. Mi rialzai sporco di terra e
sangue e avanzai a quattro zampe, ricettivo ad ogni
arborea vibrazione. Un peromisco dalle grandi orecchie
stava rosicchiando qualcosa dall'aspetto vegetale. Mi
guardava diffidente, mentre si cibava di quella verde
protuberanza, nata dalla terra. Feci un balzo nella
sua direzione, ma il piccolo roditore mi
sfuggì. Con un rapido guizzo scomparve nel
folto degli alberi. Avrei imparato.
- Presto la natura si
sarebbe risvegliata. Presto sarebbero arrivati i
turisti. Li avrei aspettati.
- A Vargas i lupi
sono estinti!
- Non ancora,
pensai.
- Non
ancora.
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