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               I
               LUPI DI VARGAS  Li vidi per la
               prima volta una gelida mattina d'inverno. La fitta
               foschia che ricopriva l'isola aveva cancellato in
               parte il tagliente profilo della scogliera, che
               appariva come un insieme di frastagliate
               asperità sospese nel vuoto. Sospinto da una
               forte corrente, il kayak avanzava rapido per le acque
               silenziose verso quell'orizzonte indistinto di cielo e
               mare.Mi fissavano da
               lontano in quella spiaggia dimenticata. Riuscii a
               scorgere le loro orecchie puntute, triangolarmente
               erette nello stato d'allerta. Da sempre amavo quegli
               animali. Li amavo.Li avevo visti
               inseguire un alce per otto chilometri, finché
               la preda non era crollata a terra esausta.
               Infaticabili cacciatori. Li avevo visti difendere i
               piccoli da un grizzly affamato. Coraggiosi guerrieri.
               Li avevo visti giocare nella taiga, inseguire una
               libellula e stupirsi per lo scorrere di un ruscello.
               Ogni cosa come fosse la prima. Amavo il loro sguardo
               impenetrabile, il loro umido tartufo nero, la loro
               folta pelliccia. Volevo essere come loro.Li amavo,
               perché sopravvivevano ovunque, perché
               non avevano paura di niente, perché erano
               lupi.Si stavano cibando
               dei resti di un'enorme balenottera azzurra, morta per
               cause misteriose, e trasportata in quei lidi ventosi
               dalla fredda corrente marina. Facevano a brani il
               corpulento cetaceo. Azzannavano, masticavano,
               sbavavano, rimpinzandosi lo stomaco con quel
               succulento pasto venuto dalle acque. Lupi che mangiano
               balene. Una visione surreale, intima fusione di
               elementi. Solo in quell'isola spettrale poteva
               accadere.Non appena misi
               piede a terra, quelle bestie volsero lo sguardo verso
               di me, assumendo una venatoria postura d'attesa.
               Fiutarono l'aria come se avessero percepito qualche
               usta. Mi sentii preda. Per qualche istante.
               L'immobilità di quei carnivori m'inquietava
               considerevolmente. Filtravano ricettacoli d'odori col
               muso verso il cielo, le orecchie tese, pronti a
               catturare il più flebile segnale acustico: un
               motivo per allontanarsi, un altro per avvicinarsi.
               Olfatto, udito. Era il loro modo d'orientarsi, il loro
               modo di decifrare l'ingannevole
               realtà.Poi cominciarono a
               trottare nella mia direzione e fu il panico. Il mio
               primo istinto fu quello di precipitarmi sul kayak,
               brandire la pagaya e difendermi, ma osservando
               attentamente il costante sventolare delle code e il
               loro andamento baldanzoso, compresi che quei lupi non
               mi si stavano scagliando contro. Mi stavano venendo
               incontro. L'inquietudine s'affievolì fino a
               scomparire dietro quelle esuberanti code oscillanti e
               quelle penzolanti lingue amichevoli. Protesi
               coraggiosamente la mano verso quei cacciatori d'alci.
               Il primo lupo, un enorme maschio grigio di circa
               cinquanta chili, avvicinò il muso alle mie
               dita. Annusò per qualche istante, mentre il mio
               spirito veniva nuovamente invaso da sottili scosse
               adrenaliniche.Con quelle bestie
               enormi non si scherzava e alla minima avvisaglia di
               pericolo ero pronto a ritirare la mano e a
               fuggire.Stranamente,
               inspiegabilmente, il lupo cominciò a leccarmi.
               L'altro, una femmina di circa quaranta chili, si
               sedette in disparte, puntando su di me i suoi occhi
               giallastri. Sembravano aver dimenticato la loro natura
               schiva nella speranza di procacciarsi cibo a buon
               mercato direttamente dalla mano dell'uomo.
               Probabilmente qualcuno li aveva abituati così.
               Avevano perso la loro indole selvaggia, ma non
               sarebbero mai diventati animali domestici. E
               ciò poteva essere pericoloso. Sarebbero sempre
               appartenuti alla gelida brina del mattino, ai grigiori
               nebbiosi di quella selva, e il loro insopprimibile
               istinto li avrebbe spinti a percorrere oscuri sentieri
               inesplorati dall'uomo e dalla sua morale.Mangiarono dalla
               mia mano due polposi pezzi di carne cruda, e dal loro
               sguardo sembrò provenire un vibratile segnale
               di ringraziamento. Scattai qualche foto a quegli
               splendidi esemplari, e decisi d'accamparmi nell'isola
               per quella notte.Fu una notte
               stellata quella, una notte passata ad ascoltare il
               suggestivo ululato di quei temibili cacciatori che ora
               consideravo fratelli. Sì, perché mi
               avevano accettato nel branco. Non so come, avevo
               passato la selezione, e in qualche modo ero riuscito
               ad instaurare un rapporto comunicativo ed armonioso
               con quegli animali.Mi comparvero in
               sogno in un protettivo girotondo notturno, come se mi
               facessero la guardia. A volte si stendevano a terra,
               appoggiando il muso e la folta pelliccia del collo sul
               mio corpo, per riscaldarmi dalle gelide folate del
               vento. Li accarezzavo mentre si strusciavano sopra di
               me.Sognavo o stavo
               fluttuando in un fragile dormiveglia?Li viziavo e avrei
               voluto viziarli per sempre, perché mi avevano
               aiutato a ritrovare la mia parte selvaggia, il mio
               spirito libero che la società cercava
               subdolamente ogni giorno di reprimere.Il mondo cercava di
               soffocarmi. Avevo sempre pensato di amare il mio
               lavoro di giornalista, ma mi sbagliavo. La redazione
               era una stridente macchina di tortura, dotata
               d'ingranaggi infernali, che asfissiava e smembrava la
               mia libertà. Stampa nera, avvelenata dai luoghi
               comuni, dalla politica, dal qualunquismo, dalla
               spettacolarizzazione della morte. Scrivevo per sadici
               repressi, per annoiati cronici, per sterili grida di
               protesta, per deboli e ottusi che consideravano le
               disgrazie stampate lontane dalla loro dimensione,
               dalla loro vita, per la superficialità
               imperante dell'asettica era telematica, per la
               disarmante avidità umana, invisibile come una
               malattia venerea, perfida come un'ipodermica
               manipolazione surrettizia. Ma da quella notte tutta
               quell'immonda lordura sarebbe precipitata
               nell'oblio.Respirare, bere,
               mangiare, defecare, dormire, amare. Questo era vivere.
               Un viaggio psichico alla scoperta del preistorico, di
               ciò che da sempre sapevo di
               possedere.Pappa, cacca,
               nanna, mamma. Ed ero in loro compagnia quella notte in
               quella gita meravigliosa.Pappa, cacca,
               nanna, mamma. In compagnia dei lupi. Mi coccolavano,
               perché li avevo viziati, li viziavo
               perché li amavo: mamma lupo, papà lupo,
               fratello lupo, sorella lupo.Viaggiammo nei
               pensieriesplorandone i
               fondali,scoprendo quei
               tesoriche da tempo
               cercavamo. Ma presto sarebbe
               arrivata l'estate e le cose sarebbero precipitate.
               Centinaia di turisti avrebbero invaso l'isola di
               Vargas, e l'invernale regno dei lupi sarebbe stato
               teatro d'una tragedia. Agosto. Mi ero
               licenziato. La redazione era stata violentemente
               spazzata via dalla mia galassia. Non guadagnavo
               più niente da sei mesi, ma potevo sopravvivere.
               I miei cospicui risparmi mi avrebbero permesso di
               condurre un'esistenza dignitosa per almeno un'altra
               stagione e dopotutto non avevo mai dato un grande
               valore al denaro. Potevo concedermi il lusso di
               dedicare gran parte del mio tempo a me stesso. Alle
               mie passioni. Ai lupi.Taro e Jara,
               così avevo battezzato quegli splendidi animali,
               scorazzavano felici per Vargas, e avevano dato alla
               luce due piccoli. Era nata una famiglia. Quei lupi
               erano diventati gli esseri viventi a me più
               cari, tanto che sentivo la loro nostalgia, quando non
               mi recavo all'isola per tre giorni consecutivi. In
               città, da quando ero diventato disoccupato
               oltre che scapolo, mi guardavano con sospetto, come se
               fossi un pericoloso ribelle che stesse tramando
               chissà quali intrighi ai danni della
               società. Quelli che una volta consideravo amici
               mi rivolgevano parole compassionevoli, esortandomi a
               riprendere la mia sfolgorante carriera giornalistica,
               troncata senza una giustificazione plausibile. Io
               rispondevo a quelle insulse domande parlando di lupi,
               di vita selvaggia, di libertà. Non
               capivano.Il nostro dialogo
               era finto, ostacolato da vertiginose barriere
               culturali. Mi sentivo distante anni luce dalla loro
               concezione della vita. Il tempo è denaro.
               Denaro da accumulare, da dilapidare, case da
               costruire, terreni da disboscare, senza il minimo
               rispetto della natura. Della vita. Pensavano di dover
               prestar soccorso a quel povero cittadino che aveva
               smarrito la via a causa dei lupi, al contrario io ero
               dell'opinione che fossero loro ad aver bisogno di me.
               Ero orgoglioso di aver svenduto le pusillanimi
               certezze della civiltà per la vita selvaggia
               che valorizza ogni singolo respiro.All'emporio, al
               bar, all'osteria, per le strade, ovunque intorno a me
               si era così creato un vuoto difficile da
               colmare, un vuoto che non volevo colmare. E non si
               sarebbe colmato.Trascorrevo la
               maggior parte del tempo nell'isola coi lupi. A volte
               ci passavo anche la notte. Piantavo la tenda,
               allestivo un poetico falò arrostendo prelibate
               carni d'agnello e insieme ai miei fratelli ululanti
               banchettavo spensierato, contento di niente, felice di
               essere vivo. Jara, la femmina, dimostrava la sua
               riconoscenza porgendomi la zampa sinistra anteriore,
               mentre Taro, il maschio alfa, sfregava la sua folta
               pelliccia contro la mia pelle, emettendo dei profondi
               suoni ringhianti. I cuccioli trotterellavano intorno a
               noi, animati da quella inestinguibile curiosità
               che caratterizza tutti i neonati. I lupi erano sempre
               pronti ad afferrare qualunque cosa fosse commestibile
               o distruttibile, e mi ritrovavo a giocare con loro al
               chiaro di luna con la competitività e
               l'entusiasmo di un bambino. Spesso li osservavo
               inseguire lepri, catturare arvicole, ruzzolare sulla
               spiaggia, gettarsi nell'acqua del mare sulle tracce di
               qualche gambero. A volte rimanevano immobili,
               ipnotizzati dal movimento dei pesci o dalla loro
               immagine riflessa nel cristallino specchio
               dell'oceano. C'era un forte legame tra i lupi e gli
               animali dell'isola di Vargas: predatori e prede
               stabilivano dialoghi di morte fatti di sguardi
               impenetrabili, attacchi vincenti e fughe disperate.
               Spesso venivano uccise prede ammalate o anziane.
               Alcune volte avevo addirittura l'impressione che alci
               e cervi comunicassero ai lupi il loro desiderio di
               morire da una sfumatura dello sguardo, dall'andatura
               anomala, dall'alito rancido, da ferite, infezioni o
               cospicue perdite di peli. I lupi notavano quei segnali
               e svolgevano senza indugi il loro ruolo di morte. Non
               erano crudeli. Seguivano il corso della natura. Su un
               libro poi avevo letto che i miei fratelli erano i
               segreti alleati della foresta; infatti la loro
               pelliccia raccoglieva e trasportava i semi caduti
               dagli alberi disperdendoli lungo i sentieri a
               chilometri di distanza. Coltivavano il loro universo.
               Inconsapevolmente.La notte dormivano
               fuori della tenda. Li udivo russare, uggiolare,
               zampettare, correre, ululare. Quei suoni mi tenevano
               compagnia rendendo più dolce la mia solitudine.
               Sì, perché a volte mi sentivo solo,
               l'unico essere umano sulla faccia della terra. Gli
               altri erano così diversi da me...ed io avevo
               preso una strada così diversa dalla
               loro...Avevo a tal punto bisogno d'affetto che una
               volta mi azzardai addirittura a dormire all'aperto sul
               dorso di Jara. La lupa sembrò comprendere il
               mio disperato bisogno d'amore. Mi accettò e mi
               coccolò, come se fossi stato uno dei suoi
               cuccioli. Quella notte Taro mi annusò
               circospetto, curioso, forse domandandosi come mai
               dormissi all'aperto con loro. C'era qualche problema?
               No, almeno così sembrava. Pago delle sue
               indagini, l'enorme lupo grigio sbadigliò
               ostentando fiero tutta la sua poderosa dentatura, si
               sistemò col muso sul mio fianco e si
               addormentò. Quella fu l'ultima notte che
               trascorremmo insieme. Per due giorni mi
               assentai dall'isola. Due giorni soltanto. Un gruppo di
               diciassette turisti raggiunse a bordo dei kayak la
               costa nord-ovest di Vargas. Durante la notte, uno dei
               componenti del gruppo perse buona parte dello scalpo
               per il morso di un lupo. Dai resoconti delle
               autorità sembra che il lupo avesse trascinato
               il sacco a pelo del turista fuori dalla tenda e
               quest'ultimo, colto dal panico, avesse cercato di
               scacciarlo con un bastone. L'animale aveva reagito
               azzannandolo alla testa. Gli altri turisti, svegliati
               dalle grida dello sventurato, allontanarono il lupo e
               chiamarono i soccorsi.Un elicottero
               trasportò il ferito all'ospedale. L'uomo fu
               abbastanza fortunato da riuscire a
               salvarsi.Vidi il servizio
               alla televisione e mi precipitai direttamente fuori di
               casa, diretto a Vargas. Ero preda di terribili
               palpitazioni, non per quello che era successo al
               turista, ma per le parole che erano state pronunciate
               dalla voce fuori campo del giornalista.Saltai sulla sella
               della mia moto da enduro e schizzai come un pazzo
               lungo la strada deserta. Erano le quattro del mattino.
               Grigio ovunque, in tutte le sue sfumature. In giro non
               c'era nessuno, e il ruggito della mia moto era il
               folle urlo d'agonia d'un disperato. Giunsi in spiaggia
               come una scheggia. Non parcheggiai la moto, ma la
               lasciai cadere sulla breccia sabbiosa. Caddi a terra
               davanti al deposito dei kayak. Un dolore lancinante
               attraversò la mia spalla sinistra. Il mio
               ginocchio sanguinava copiosamente. Ma non era niente
               in confronto a quella lugubre sensazione di morte
               portata da quelle parole ascoltate alla televisione.
               Mi rialzai sgomento. Sanguinavo, ma imperterrito
               continuavo a correre. Sanguinavo, ma sollevai il kayak
               con una forza sovrannaturale, spinto da una furia
               omicida che potenziava tutto il mio apparato
               muscolare, rendendolo un concentrato di tensione
               esplosiva. Salii a bordo e come un ossesso cominciai a
               fendere violentemente l'acqua con la pagaya. Zampilli
               salati mi sferzavano il viso, portati dal gelido vento
               del nord. Avevo l'impressione che un gonfiore abnorme
               si stesse insinuando fra gli organi del mio corpo. Il
               suo effetto devastante avrebbe presto sconvolto il mio
               equilibrio psico-fisico. Solcato da rivoli di lacrime,
               dipinto del turgido rossore del pianto, mi catapultavo
               sull'isola come se ci fosse una speranza. Non c'era.
               Scavavano nel mio animo, corrodendolo, riducendolo ad
               una fradicia poltiglia senza vita, quelle terribili
               parole, insulse lettere intrecciate insieme nel telaio
               della morte. Comunque proprio questa mattina due
               ranger hanno raggiunto Vargas e hanno ucciso a colpi
               di fucile due grossi lupi. Abbiamo ragione di pensare
               che fossero gli ultimi esemplari rimasti nell'isola,
               quindi non dovrebbe esserci più pericolo per i
               turisti.A Vargas i lupi
               sono estinti! Vidi i loro corpi
               sulla spiaggia, martoriati dai colpi di fucile. Non
               avevano tentato neanche di fuggire. Erano andati
               incontro ai ranger come erano venuti incontro a me la
               prima volta. Di corsa, scodinzolando. Non conoscevano
               le armi da fuoco e non sapevano che l'aggressione
               della notte precedente sarebbe loro costata la vita.
               Taro aveva il ventre spappolato, le viscere adagiate
               sulla spiaggia coloravano la sabbia di dense macchie
               rosse. L'enorme maschio alfa, che misurava al garrese
               settantacinque centimetri, ora non era altro che una
               carcassa senza vita, cibo per i corvi imperiali. Jara
               era stata colpita sotto il collo, e giaceva esanime
               con la zampa protesa in avanti come per salutarmi,
               quella zampa che tante volte avevo stretto nella mano.
               E pensare che solo tre giorni prima avevo dormito su
               quella soffice pelliccia, ora imbrattata di
               sangue.Taro, Jara. Quanto
               mi avevano insegnato! Eravamo diversi. Eravamo uguali.
               Quanto li avevo amati! Vittime di un malinteso, di un
               equivoco, dell'ancestrale maledizione dei bestiari
               medievali, del Malleus Maleficarum, di Cappuccetto
               rosso. Dolce seduttore, efferato assassino, il demone
               del lupo era ancora una volta stato esorcizzato col
               sangue nella palude dell'ignoranza. Quei lupi non
               avrebbero attaccato nessuno se non fossero stati
               provocati. Ne ero certo. Per un delitto del genere non
               esisteva alcuna forma di perdono. Abbiamo ragione
               di pensare che fossero gli ultimi esemplari rimasti
               nell'isola, quindi non dovrebbe esserci più
               pericolo per i turisti. A Vargas i lupi sono
               estinti!E i cuccioli? Che
               fine avevano fatto? Forse erano ancora
               vivi.Mi scagliai nel
               cuore della foresta graffiandomi coi rami, lacerandomi
               i vestiti. Il sangue scorreva copioso dalle numerose
               ferite che mi si erano aperte sulle braccia e sul
               petto. Mi fermai ansimando in una radura. Sporadici
               cinguettii, fugaci rumori di piccoli mammiferi,
               striscianti creature del sottobosco. Nessuna traccia
               dei cuccioli.A Vargas i lupi
               sono estinti!Era mattino ormai,
               anche se la luce per me non sarebbe mai arrivata. Mi
               liberai di tutti i vestiti, e mi rotolai per terra
               nudo, agitando le braccia e le gambe verso il cielo,
               urlando a perdifiato finché la voce non mi si
               strozzò in gola. Mi rialzai sporco di terra e
               sangue e avanzai a quattro zampe, ricettivo ad ogni
               arborea vibrazione. Un peromisco dalle grandi orecchie
               stava rosicchiando qualcosa dall'aspetto vegetale. Mi
               guardava diffidente, mentre si cibava di quella verde
               protuberanza, nata dalla terra. Feci un balzo nella
               sua direzione, ma il piccolo roditore mi
               sfuggì. Con un rapido guizzo scomparve nel
               folto degli alberi. Avrei imparato.Presto la natura si
               sarebbe risvegliata. Presto sarebbero arrivati i
               turisti. Li avrei aspettati.A Vargas i lupi
               sono estinti!Non ancora,
               pensai.Non
               ancora. |