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               Il
               quacquarì
 Non cercatelo sui vocabolari, è un termine che
               non esiste, inventato dai cacciatori. E' un richiamo,
               fatto con una guaina di pelle incollata ad un pezzo di
               tibia cava di animale. Basta pigiarlo, a colpetti,
               perché ne esca quel suono caratteristico che
               riproduce il canto della quaglia femmina in amore,
               quando, a partire da giugno, queste emigrano
               dall'africa per arrivare fin nei nostri campi, pronte
               ad accoppiarsi. Allora erano tempi dove c'era sempre
               da inventarsi qualcosa per la tavola, e un piatto di
               quaglie era una sciccheria alla quale non si poteva
               rinunciare.
  La
               mia storia inizia tanti anni fa, e ora che il peso
               della vita torce la mia schiena ed il fiato è
               in preda all'affanno, sento che è maturato il
               momento di raccontarla, prima di non poterlo fare
               più.E'
               una storia comune, come tante altre. Ma forse è
               solo la mia storia. E quella di una manciata di
               quacquarì, di cui uno davvero
               speciale. Rivedo
               la mia infanzia, le estati al fiume quando da ogni
               vena sgorgava acqua limpida, i bagni interminabili a
               cacciare lasche con le mani per rimediare qualcosa con
               cui sfamarsi. Ricordo la fame, il freddo che si
               insinuava nei sandali consunti, le invernate che
               regalavano gelide lenzuola di neve ogni giorno e
               ghiacciavano le poche cannelle distribuite lungo la
               via. Si dormiva (ma chi dormiva?) su materassi farciti
               con foglie di pannocchie di granturco che frusciavano
               ad ogni movimento nel sonno. I giochi erano pochi,
               tutto era inventato. Ma c'era l'amore, capace di
               addomesticare ogni miseria, di colmare ogni
               mancanza. Poi
               venne la giovinezza, e insieme ad essa il tempo della
               fatica. Eravamo
               sei figli, e mentre le due sorelle aiutavano nei mille
               bisogni domestici, io e i miei fratelli spalavamo rena
               da mattina a sera. Possedevamo due autocarri
               sgangherati che allora ci sembravano un sogno, tanta
               era la miseria che incombeva, mentre oggi farebbero
               ridere il più umile dei
               commercianti.Sembravamo
               i quattro dell'AveMaria. Trasportavamo montagne di
               rena prelevata con immane fatica, dalle spiagge
               vergini della marina, ed io lavoravo col fratello
               più giovane, che spesso mi punzecchiava mentre
               ero alla guida. Sapeva che ero perennemente in carenza
               di sonno, poiché la sera, dopo la pala, per
               quanto fossi stanco uscivo a cantare e fare scherzi
               con gli amici sotto la malia delle stelle che
               danzavano talmente vicine da poter essere toccate. La
               gioia di vivere era grande almeno quanto la
               stanchezza. Finché un ubriaco tagliò la
               strada a mio fratello mentre girava con un Benelli che
               era la sua vita, e la nera signora dalla gelida falce
               mi derubò per sempre della sua
               complicità.Quella
               fu la prima volta. Il
               tempo passa, la vita avviene e opera
               mutamenti... Avevo
               tentato la via del pioniere, del marinaio che
               s'imbarca pur consapevole delle burrasche cui
               andrà incontro. Mi ero indebitato per comprare
               un camion di seconda mano per trasportare materiali di
               edilizia. Di lavoro ce n'era, le ore erano piene e la
               fatica in abbondanza. Ero innamorato di una donna mite
               e stupenda, che dopo alcuni anni di fidanzamento e di
               serenate al chiaro di luna avevo sposato. Dopo pochi
               anni avevamo già tre splendidi
               maschietti.Sono
               sempre stato un tipo gioviale, che ama stare con la
               gente e a cui piace la vita, ma non mi è mai
               dispiaciuto isolarmi. Così la sera, appena
               messi a letto i figli, mi trasformavo in quel
               vagabondo che in fondo sono sempre stato. Talvolta,
               armato di canne, passavo le serate al fiume vicino,
               tirando spesso fin quasi l'alba, anche se conscio dei
               gravosi impegni del giorno dopo. C'erano buone
               stagioni che promettevano tante anguille, e quella
               era
               una leccornia che a tavola non mancava
               mai.Mi
               affascinava il poter vagare dei pensieri che
               s'intrecciavano liberi nella notte, finché il
               trillare festoso di uno dei campanellini fissati alle
               canne mi destava da quel torpore.Quell'impalpabile
               silenzio, rotto solamente dal tintinnare alle tirate
               delle anguille, è una musica che mi ha
               accompagnato per tante sere.Talvolta
               invece mi cacciavo in tasca un quacquarì, mi
               nascondevo nei campi di grano dopo aver piazzato una
               rete e nel cuore della notte mi mettevo a suonare per
               attirare quaglie.Ma
               anche se ero a pesca il quacquarì non mancava
               mai. Talvolta
               le cose accadono. Forse per coincidenza, forse per
               mano di quel destino beffardo a cui piace intersecare
               gli eventi, per vederne poi gli effetti.Ci
               esibiamo sul palcoscenico della vita finché il
               tempo, inevitabilmente, ci sospinge oltre il suo
               bordo.Oppure
               siamo noi, che, con moto d'impaccio, scivoliamo di
               sotto,  mentre gli altri attori non possono fare
               nient'altro che restare a guardare. Stavolta ero stato
               io a sospingere mio figlio oltre il palcoscenico.
               Alcuni elementi si erano intersecati e una vita
               inesorabilmente si era dissolta, stroncata da una
               manovra errata del mio camion, tramutatosi in una
               inesorabile belva d'acciaio.Poi
               fu solo disperazione pura, e nient'altro.Tutto
               si tinse di grigio, e i colori del mondo si
               spensero. Quando,
               con una lentezza esasperante, quell'anno se ne
               andò, una moltitudine di lacrime erano state
               versate, tante dolorose sorelle che avevano temprato i
               selciati del viso.Mi
               accorsi, nonostante una perdurante cappa di
               disperazione, che il sole si alzava puntuale bagnando
               i prati di sudori d'aurora e tramontava forgiando nel
               suo braciere.Il
               mondo non si era fermato. Ripresi a suonare il
               quacquarì tra mareggiate di grano, sotto
               voragini di notti che grondavano stelle.E
               ricominciai a vivere. Un
               giorno, mentre scaricavo da un cliente, mi giunse
               all'orecchio di un quacquarì fenomenale, che
               attirava quaglie che erano già
               accoppiate.Chiesi
               con quali materiali fosse costruito; il segreto era
               che l'osso capace di produrre il fischio
               caratteristico era di una tibia umana, riesumata
               insieme ad altre ossa per essere spostata in una
               cassetta poco più grande di una scatola di
               scarpe.Fui
               subito incuriosito, andai a chiederlo in prestito al
               proprietario che me lo diede quasi fosse una
               liberazione. Solo dopo capii il
               perché. Il
               quacquarì funzionava davvero. Prendevo quaglie
               anche dove non ce n'erano. Talvolta, invischiate nella
               rete, ne contavo parecchie.Raccattavo
               il tutto e via, per i campi, poiché quelli
               della venatoria erano sempre all'erta e non si
               mostravano teneri con chi spandeva tremagli nel
               grano. Poi
               cominciarono a succedere cose che mi turbavano. Nella
               più totale bonaccia di giugno il vento si
               levava impetuoso per poi ricadere all'improvviso nella
               sua più totale assenza. Quindi cominciò
               il rumore; dapprima ovattato, nelle ore più
               buie della notte diventava nitido e forte. Sembrava
               il tonfo sordo di una zappa che insistentemente
               frantumava zolle. E succedeva solo quando
               suonavo.Fino
               a quel momento non avevo mai avuto paura di
               nulla. La
               vita intanto continuava nell'inganno della
               normalità, e le apparenze mitigavano le ferite.
               Ma aveva lasciato un'ombra, un solco scavato
               nell'anima. Quel solco lo vedevo sul viso del mio
               figlio maggiore. Era conscio di aver partecipato al
               truce gioco del destino. Cresceva abbastanza
               taciturno, e la cosa un po' ci preoccupava. Per
               fortuna, gli impegni di scuola e lavoro non davano
               tregua ai mille ricordi che struggevano ancora. Poi di
               lì a poco venne al mondo una bimba, dopo un
               monopolio di maschi, e la vita cambiò davvero.
               Dopo la nascita di nostra figlia, che veramente
               portò una ventata di primavera, ritrovammo
               appieno la serenità. Ripresi a suonare col
               quacquarì magico e, per rischiarare ogni
               dubbio, mi portai un amico per cercare di capire se
               quei rumori erano un'invenzione della mia mente.
               Regolarmente tutto si ripetè e il mio amico,
               che anche lui percepiva l'inspiegabile, appena seppe
               che il quacquarì era di un osso umano, mi
               riempì di rimproveri mentre falcava nel grano a
               gambe levate. E io dietro a lui, finché non
               fummo entrambi senza fiato.Intanto
               la fama del quacquarì si era allargata ed in
               tanti venivano a chiederlo in prestito per provare
               nuove emozioni.Ma
               tutti, inevitabilmente, lo riportavano indietro con lo
               sgomento dipinto sul volto. Decisi allora di non
               adoperarlo più. Forse stavo disturbando il
               sonno di un'anima. Passarono
               parecchi anni, i miei figli si erano sistemati e le
               ombre che ci avevano assillato riguardo il primogenito
               parevano dissolte.Ogni
               tanto ero assalito dalla nostalgia di tante notti
               accovacciato nel grano e in piena solitudine ritornavo
               a suonare.Poi
               vennero numerosi i nipoti portando una gioia
               incontenibile, donando sussulti di vita a noi che
               cominciavamo ad avvertire il fardello
               dell'età. La
               mia collezione di quacquarì giaceva impolverata
               sulla mensola, in quanto le quaglie erano ormai solo
               un ricordo dovuto alla civiltà con tutte le
               conseguenze che comporta. Quando
               si è vecchi si ha tempo per
               pensare.Quante
               uscite ad ascoltare il suono ammaliatore di
               quell'incredibile richiamo, fedele compagno di tante
               notti intessute di stelle.E
               nel momento del grande sconforto, chissà, forse
               era stato un appiglio per non sprofondare nell'abisso
               più grande. I
               nostri figli ci venivano a trovare regolarmente con le
               loro famiglie, soprattutto il maggiore. Con lui non
               parlavamo mai di quell'anno buio, ma ci rendevamo
               conto che in parte se ne sentisse responsabile;
               l'indulgenza dell'età aveva permesso alla sua
               mano di lasciarsi sfuggire quella del fratellino che
               poi era stato investito... Poi
               successe: fece una visita da uno di quei dottori ai
               quali non daresti un soldo di fiducia, quelli che
               praticano strani massaggi e altre diavolerie del
               genere, oppure ti bucano con una manciata di spilli
               come fossi una bambola vodoo. Si parlava di
               disequilibrio di energie, di fluidi bloccati, forse
               proprio a causa di un trauma interiore consumato in
               tenera età.Dopo
               quei trattamenti mio figlio di colpo cambiò; la
               diga che era dentro di lui era ormai troppo piena, e
               dopo aver scricchiolato per tanti anni cedette di
               schianto, non potendo più trattenere oltre
               l'accumulo di rancori ammassatisi nel tempo. Divenne
               un animo ancora più sensibile di quello che era
               sempre stato e d'un tratto, dal niente, si mise a
               scrivere stupende poesie. Cominciò, così
               per scherzo, a partecipare a dei concorsi e subito
               vinse.Leggevo
               le sue cose e notai, per quello che potevo
               comprenderne, che a livello letterario si esprimeva in
               un modo che mi lasciava stupefatto, visto che la sua
               cultura di base era andata poco più in
               là delle scuole medie. Ormai
               conscio del suo talento, cominciò a spedire
               liriche a livello nazionale. Subito arrivarono
               importanti piazzamenti, encomi, spesso davanti a
               professoroni molto più preparati.Dopo
               tanti anni nell'ombra, forse per un inesplorato
               disegno di Dio, era sbocciato.La
               sofferenza e il rammarico avevano forgiato un'anima
               nuova.Il
               gambo di spine aveva partorito una rosa.  La
               storia è terminata e vi garantisco che ogni
               riga di quanto scritto è assolutamente vera.
               Una sola cosa non lo è. Non l'ha scritta il
               padre, ma il figlio. Che è penetrato nel cuore
               del padre per poterla rivivere, e finalmente ne ha
               compreso appieno le lacrime furtive, i frequenti
               silenzi. Dunque sono io il figlio, io il fratello
               penetrato nel baratro del dolore per estrapolarne i
               ricordi. Mentre
               tento d'imbastire il vivereingiunge
               la falce che miete illusioni,e
               si leva l'assordante silenzioche
               nessuna musica estingue... ...Una
               manciata di secondi o di
               secolidovrò
               aspettare per incontrarloil
               Dio che s'incespica ad ogni
               spina,che
               mi s'infrange ad ogni
               distacco... Si,
               sono io il poeta. Ora
               posso piangere. |