- Il
quacquarì
Non cercatelo sui vocabolari, è un termine che
non esiste, inventato dai cacciatori. E' un richiamo,
fatto con una guaina di pelle incollata ad un pezzo di
tibia cava di animale. Basta pigiarlo, a colpetti,
perché ne esca quel suono caratteristico che
riproduce il canto della quaglia femmina in amore,
quando, a partire da giugno, queste emigrano
dall'africa per arrivare fin nei nostri campi, pronte
ad accoppiarsi. Allora erano tempi dove c'era sempre
da inventarsi qualcosa per la tavola, e un piatto di
quaglie era una sciccheria alla quale non si poteva
rinunciare.
-
-
- La
mia storia inizia tanti anni fa, e ora che il peso
della vita torce la mia schiena ed il fiato è
in preda all'affanno, sento che è maturato il
momento di raccontarla, prima di non poterlo fare
più.
- E'
una storia comune, come tante altre. Ma forse è
solo la mia storia. E quella di una manciata di
quacquarì, di cui uno davvero
speciale.
-
- Rivedo
la mia infanzia, le estati al fiume quando da ogni
vena sgorgava acqua limpida, i bagni interminabili a
cacciare lasche con le mani per rimediare qualcosa con
cui sfamarsi. Ricordo la fame, il freddo che si
insinuava nei sandali consunti, le invernate che
regalavano gelide lenzuola di neve ogni giorno e
ghiacciavano le poche cannelle distribuite lungo la
via. Si dormiva (ma chi dormiva?) su materassi farciti
con foglie di pannocchie di granturco che frusciavano
ad ogni movimento nel sonno. I giochi erano pochi,
tutto era inventato. Ma c'era l'amore, capace di
addomesticare ogni miseria, di colmare ogni
mancanza.
-
- Poi
venne la giovinezza, e insieme ad essa il tempo della
fatica.
-
- Eravamo
sei figli, e mentre le due sorelle aiutavano nei mille
bisogni domestici, io e i miei fratelli spalavamo rena
da mattina a sera. Possedevamo due autocarri
sgangherati che allora ci sembravano un sogno, tanta
era la miseria che incombeva, mentre oggi farebbero
ridere il più umile dei
commercianti.
- Sembravamo
i quattro dell'AveMaria. Trasportavamo montagne di
rena prelevata con immane fatica, dalle spiagge
vergini della marina, ed io lavoravo col fratello
più giovane, che spesso mi punzecchiava mentre
ero alla guida. Sapeva che ero perennemente in carenza
di sonno, poiché la sera, dopo la pala, per
quanto fossi stanco uscivo a cantare e fare scherzi
con gli amici sotto la malia delle stelle che
danzavano talmente vicine da poter essere toccate. La
gioia di vivere era grande almeno quanto la
stanchezza. Finché un ubriaco tagliò la
strada a mio fratello mentre girava con un Benelli che
era la sua vita, e la nera signora dalla gelida falce
mi derubò per sempre della sua
complicità.
- Quella
fu la prima volta.
-
- Il
tempo passa, la vita avviene e opera
mutamenti...
-
- Avevo
tentato la via del pioniere, del marinaio che
s'imbarca pur consapevole delle burrasche cui
andrà incontro. Mi ero indebitato per comprare
un camion di seconda mano per trasportare materiali di
edilizia. Di lavoro ce n'era, le ore erano piene e la
fatica in abbondanza. Ero innamorato di una donna mite
e stupenda, che dopo alcuni anni di fidanzamento e di
serenate al chiaro di luna avevo sposato. Dopo pochi
anni avevamo già tre splendidi
maschietti.
- Sono
sempre stato un tipo gioviale, che ama stare con la
gente e a cui piace la vita, ma non mi è mai
dispiaciuto isolarmi. Così la sera, appena
messi a letto i figli, mi trasformavo in quel
vagabondo che in fondo sono sempre stato.
-
- Talvolta,
armato di canne, passavo le serate al fiume vicino,
tirando spesso fin quasi l'alba, anche se conscio dei
gravosi impegni del giorno dopo. C'erano buone
stagioni che promettevano tante anguille, e quella
- era
una leccornia che a tavola non mancava
mai.
- Mi
affascinava il poter vagare dei pensieri che
s'intrecciavano liberi nella notte, finché il
trillare festoso di uno dei campanellini fissati alle
canne mi destava da quel torpore.
- Quell'impalpabile
silenzio, rotto solamente dal tintinnare alle tirate
delle anguille, è una musica che mi ha
accompagnato per tante sere.
- Talvolta
invece mi cacciavo in tasca un quacquarì, mi
nascondevo nei campi di grano dopo aver piazzato una
rete e nel cuore della notte mi mettevo a suonare per
attirare quaglie.
- Ma
anche se ero a pesca il quacquarì non mancava
mai.
-
- Talvolta
le cose accadono. Forse per coincidenza, forse per
mano di quel destino beffardo a cui piace intersecare
gli eventi, per vederne poi gli effetti.
- Ci
esibiamo sul palcoscenico della vita finché il
tempo, inevitabilmente, ci sospinge oltre il suo
bordo.
- Oppure
siamo noi, che, con moto d'impaccio, scivoliamo di
sotto, mentre gli altri attori non possono fare
nient'altro che restare a guardare. Stavolta ero stato
io a sospingere mio figlio oltre il palcoscenico.
Alcuni elementi si erano intersecati e una vita
inesorabilmente si era dissolta, stroncata da una
manovra errata del mio camion, tramutatosi in una
inesorabile belva d'acciaio.
- Poi
fu solo disperazione pura, e nient'altro.
- Tutto
si tinse di grigio, e i colori del mondo si
spensero.
-
- Quando,
con una lentezza esasperante, quell'anno se ne
andò, una moltitudine di lacrime erano state
versate, tante dolorose sorelle che avevano temprato i
selciati del viso.
- Mi
accorsi, nonostante una perdurante cappa di
disperazione, che il sole si alzava puntuale bagnando
i prati di sudori d'aurora e tramontava forgiando nel
suo braciere.
- Il
mondo non si era fermato. Ripresi a suonare il
quacquarì tra mareggiate di grano, sotto
voragini di notti che grondavano stelle.
- E
ricominciai a vivere.
-
- Un
giorno, mentre scaricavo da un cliente, mi giunse
all'orecchio di un quacquarì fenomenale, che
attirava quaglie che erano già
accoppiate.
- Chiesi
con quali materiali fosse costruito; il segreto era
che l'osso capace di produrre il fischio
caratteristico era di una tibia umana, riesumata
insieme ad altre ossa per essere spostata in una
cassetta poco più grande di una scatola di
scarpe.
- Fui
subito incuriosito, andai a chiederlo in prestito al
proprietario che me lo diede quasi fosse una
liberazione. Solo dopo capii il
perché.
-
- Il
quacquarì funzionava davvero. Prendevo quaglie
anche dove non ce n'erano. Talvolta, invischiate nella
rete, ne contavo parecchie.
- Raccattavo
il tutto e via, per i campi, poiché quelli
della venatoria erano sempre all'erta e non si
mostravano teneri con chi spandeva tremagli nel
grano.
-
- Poi
cominciarono a succedere cose che mi turbavano. Nella
più totale bonaccia di giugno il vento si
levava impetuoso per poi ricadere all'improvviso nella
sua più totale assenza. Quindi cominciò
il rumore; dapprima ovattato, nelle ore più
buie della notte diventava nitido e forte.
-
- Sembrava
il tonfo sordo di una zappa che insistentemente
frantumava zolle. E succedeva solo quando
suonavo.
- Fino
a quel momento non avevo mai avuto paura di
nulla.
-
- La
vita intanto continuava nell'inganno della
normalità, e le apparenze mitigavano le ferite.
Ma aveva lasciato un'ombra, un solco scavato
nell'anima. Quel solco lo vedevo sul viso del mio
figlio maggiore. Era conscio di aver partecipato al
truce gioco del destino. Cresceva abbastanza
taciturno, e la cosa un po' ci preoccupava. Per
fortuna, gli impegni di scuola e lavoro non davano
tregua ai mille ricordi che struggevano ancora. Poi di
lì a poco venne al mondo una bimba, dopo un
monopolio di maschi, e la vita cambiò davvero.
Dopo la nascita di nostra figlia, che veramente
portò una ventata di primavera, ritrovammo
appieno la serenità. Ripresi a suonare col
quacquarì magico e, per rischiarare ogni
dubbio, mi portai un amico per cercare di capire se
quei rumori erano un'invenzione della mia mente.
Regolarmente tutto si ripetè e il mio amico,
che anche lui percepiva l'inspiegabile, appena seppe
che il quacquarì era di un osso umano, mi
riempì di rimproveri mentre falcava nel grano a
gambe levate. E io dietro a lui, finché non
fummo entrambi senza fiato.
- Intanto
la fama del quacquarì si era allargata ed in
tanti venivano a chiederlo in prestito per provare
nuove emozioni.
- Ma
tutti, inevitabilmente, lo riportavano indietro con lo
sgomento dipinto sul volto. Decisi allora di non
adoperarlo più. Forse stavo disturbando il
sonno di un'anima.
-
- Passarono
parecchi anni, i miei figli si erano sistemati e le
ombre che ci avevano assillato riguardo il primogenito
parevano dissolte.
- Ogni
tanto ero assalito dalla nostalgia di tante notti
accovacciato nel grano e in piena solitudine ritornavo
a suonare.
- Poi
vennero numerosi i nipoti portando una gioia
incontenibile, donando sussulti di vita a noi che
cominciavamo ad avvertire il fardello
dell'età.
-
- La
mia collezione di quacquarì giaceva impolverata
sulla mensola, in quanto le quaglie erano ormai solo
un ricordo dovuto alla civiltà con tutte le
conseguenze che comporta.
-
- Quando
si è vecchi si ha tempo per
pensare.
- Quante
uscite ad ascoltare il suono ammaliatore di
quell'incredibile richiamo, fedele compagno di tante
notti intessute di stelle.
- E
nel momento del grande sconforto, chissà, forse
era stato un appiglio per non sprofondare nell'abisso
più grande.
-
- I
nostri figli ci venivano a trovare regolarmente con le
loro famiglie, soprattutto il maggiore. Con lui non
parlavamo mai di quell'anno buio, ma ci rendevamo
conto che in parte se ne sentisse responsabile;
l'indulgenza dell'età aveva permesso alla sua
mano di lasciarsi sfuggire quella del fratellino che
poi era stato investito...
-
- Poi
successe: fece una visita da uno di quei dottori ai
quali non daresti un soldo di fiducia, quelli che
praticano strani massaggi e altre diavolerie del
genere, oppure ti bucano con una manciata di spilli
come fossi una bambola vodoo. Si parlava di
disequilibrio di energie, di fluidi bloccati, forse
proprio a causa di un trauma interiore consumato in
tenera età.
- Dopo
quei trattamenti mio figlio di colpo cambiò; la
diga che era dentro di lui era ormai troppo piena, e
dopo aver scricchiolato per tanti anni cedette di
schianto, non potendo più trattenere oltre
l'accumulo di rancori ammassatisi nel tempo. Divenne
un animo ancora più sensibile di quello che era
sempre stato e d'un tratto, dal niente, si mise a
scrivere stupende poesie. Cominciò, così
per scherzo, a partecipare a dei concorsi e subito
vinse.
- Leggevo
le sue cose e notai, per quello che potevo
comprenderne, che a livello letterario si esprimeva in
un modo che mi lasciava stupefatto, visto che la sua
cultura di base era andata poco più in
là delle scuole medie.
-
- Ormai
conscio del suo talento, cominciò a spedire
liriche a livello nazionale. Subito arrivarono
importanti piazzamenti, encomi, spesso davanti a
professoroni molto più preparati.
- Dopo
tanti anni nell'ombra, forse per un inesplorato
disegno di Dio, era sbocciato.
- La
sofferenza e il rammarico avevano forgiato un'anima
nuova.
- Il
gambo di spine aveva partorito una rosa.
-
-
- La
storia è terminata e vi garantisco che ogni
riga di quanto scritto è assolutamente vera.
Una sola cosa non lo è. Non l'ha scritta il
padre, ma il figlio. Che è penetrato nel cuore
del padre per poterla rivivere, e finalmente ne ha
compreso appieno le lacrime furtive, i frequenti
silenzi. Dunque sono io il figlio, io il fratello
penetrato nel baratro del dolore per estrapolarne i
ricordi.
-
- Mentre
tento d'imbastire il vivere
- ingiunge
la falce che miete illusioni,
- e
si leva l'assordante silenzio
- che
nessuna musica estingue...
-
- ...Una
manciata di secondi o di
secoli
- dovrò
aspettare per incontrarlo
- il
Dio che s'incespica ad ogni
spina,
- che
mi s'infrange ad ogni
distacco...
-
- Si,
sono io il poeta.
-
- Ora
posso piangere.
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