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                  LA
                  GENTILEZZA INVISIBILE  Al
                  suonar del campanello della porta la signorina
                  Annalena si riscosse. Stava sognando di quella
                  volta, là, nel Kashmir, e la voce del
                  muezzin era così reale che le era sembrato
                  proprio di stare rivivendo quell'attimo di
                  allora.Chi
                  poteva essere? Nessuno veniva mai a casa sua, se
                  non, ogni tanto, il portalettere con qualche
                  comunicazione della banca; ma ormai, quel giorno,
                  l'ora della consegna della posta era
                  trascorsa.Chi
                  mai poteva essere, allora?Si
                  passò una mano sul viso, come per cancellare
                  l'espressione di serenità che il sogno aveva
                  pennellato nei suoi occhi. Si alzò dalla
                  poltrona e si strinse la vestaglia intorno al corpo
                  scarno, sentendosi a disagio per quel color rosso
                  acceso, che a lei piaceva tanto, ma che nessuno le
                  aveva mai visto addosso.Aprì
                  piano, mentre il suono del campanello continuava
                  sbarazzino a irrompere in quel silenzio di vecchie
                  pareti; appena una fessura, con la porta ben
                  assicurata alla catenella.Un
                  gruppo di persone sorridenti se ne stava sul
                  pianerottolo illuminato; un bambino fece un passo
                  avanti, in mano un pacchetto colorato, con un gran
                  fiocco azzurro.La
                  signorina Annalena fu certa che il sogno sul
                  Kashmir si fosse spostato in un altro luogo
                  onirico, in un'altra dimensione che non le
                  apparteneva. Pensò, insomma, di stare ancora
                  sognando.  ***  Da
                  bambina la signorina Annalena di cose ne aveva
                  imparate mille, come tutti i bambini. Ma
                  soprattutto una regola le si era ben presto incisa
                  nella mente: non fare mai vedere le tue emozioni;
                  quindi non sorridere, non piangere, non gridare di
                  gioia, non mostrarti, non dividere mai con altri
                  quello che provi. La madre era stata la sua grande
                  maestra.Il
                  silenzio aveva fatto da grigia colonna sonora alla
                  sua infanzia. O meglio, non proprio il silenzio, ma
                  una totale assenza di calore. La madre - una donna
                  con contorni vacui, alta e bianca, con gli occhi di
                  antracite opaca - le aveva imposto fin da
                  piccolissima toni smorti, silenzi, gesti misurati,
                  scostandosi quando lei cercava di abbracciarla,
                  rimproverandola se correva lungo il corridoio,
                  criticandola se lei piangeva.Come
                  quella volta che la bambina si era rattristata per
                  la partenza di una compagna di scuola che stava
                  cambiando città."Hai
                  visto? Non bisogna affezionarsi a nessuno. Tanto
                  prima o poi tutti ti lasciano, e allora a che
                  servono l'amore, la gentilezza, a che serve essere
                  gradevoli verso gli altri? A nulla, Annalena, a
                  nulla. Meglio rimanere soli, fare la propria vita.
                  Non permettere mai a nessuno di prenderti il cuore,
                  Annalena!. Io... mah, lasciamo
                  perdere."La
                  signorina Annalena non sapeva chi fosse suo padre,
                  non lo aveva mai conosciuto. Non aveva mai
                  incontrato nessun parente, all'infuori di questa
                  madre così parca di risposte che alla fine
                  la signorina Annalena bambina aveva cessato di
                  porre domande. Solo poco prima di morire la madre
                  le aveva raccontato con poche smozzicate parole una
                  storia di abbandono e ripudio: l'uomo sposato ma
                  pieno di promesse mai mantenute, la gravidanza, i
                  genitori di lei sulla porta, il braccio teso,
                  sparisci, le avevano detto, sei la nostra
                  vergogna.Ma
                  la signorina Annalena aveva già i capelli
                  bianchi, e la fame di risposte che le aveva
                  consumatogran
                  parte dell'esistenza si era ormai
                  esaurita.  Nonostante
                  tutto, la bambina Annalena a volte pensava alla sua
                  anima come se fosse un atleta pronto a scattare
                  sulla linea di partenza; sentiva, a volte, le sue
                  mani colme di carezze da elargire; focalizzava, a
                  volte, l'immagine delle sue labbra in procinto di
                  aprirsi al sorriso; tremava, a volte, per
                  l'impazienza della sua voce di modulare vocali e
                  consonanti che componessero parole amorevoli; le
                  pareva, a volte, di avere grandi orecchie
                  spalancate per udire frasi gentili. Ma le gambe
                  rimanevano bloccate da pesi di piombo; le mani se
                  ne stavano strette a pugno; le labbra continuavano
                  ad avere un disegno sottile e pallido; le dolci
                  parole venivano ingoiate, e le orecchie riempite di
                  ovatta, predisposte ad ascoltare solo amare,
                  ciniche sentenze.Con
                  il passare degli anni quella sensazione di
                  movimento, di spinta verso i colori dell'esistenza
                  si era del tutto assopita. La madre le aveva ben
                  tatuato addosso una rappresentazione in cui i
                  sentimenti erano miserie e ceppi, e l'essere soli
                  lo stato ideale per vivere in pace. E così
                  la signorina Annalena aveva fatto della solitudine,
                  della non relazione con gli altri, il suo punto di
                  forza.Una
                  volta, avrà avuto una decina d'anni, era
                  caduta dalla bicicletta. Una signora si era
                  avvicinata per chiederle se si era fatta male, e
                  lei non l'aveva neppure guardata, poi aveva
                  risposto:"Non
                  capire, non italiana."Non
                  si doveva mai aver bisogno di nessuno, mai farsi
                  vedere fragili. Era risalita sulla bicicletta, un
                  ginocchio sanguinante, e se ne era tornata a casa,
                  dove sapeva che nessuna madre affettuosa si sarebbe
                  presa veramente cura di lei, se non per
                  disinfettarla con gesti bruschi.  Eppure
                  una volta si era innamorata. Era
                  da poco finita la guerra, e c'erano questi ragazzi
                  che tornavano dal fronte, gli occhi grandi e
                  smarriti, colmi di visioni di sangue e paure e
                  disillusioni.Lui
                  si chiamava Marco e portava sul volto scarnito i
                  segni della devastante guerra di Russia. Un giorno
                  Annalena se lo trovò vicino, ultimo
                  centralinista assunto nella società
                  telefonica per cui lei lavorava da qualche
                  mese.Lei
                  era allora una ragazza vestita di colori spenti,
                  molto diversa dalle sue colleghe che portavano
                  abiti colorati, i disegni delle stoffe piene di
                  fiori allegri, come a cancellare i lunghi anni di
                  desolazione che avevano caratterizzato fino a quel
                  momento la loro giovinezza. Si riempivano la bocca
                  di risate, ammiccavano non appena un uomo entrava
                  nello stanzone dove lavoravano, rispondevano
                  distrattamente alle chiamate, per tornare subito
                  dopo alle loro chiacchiere, fatte di divi, di bei
                  ragazzi, di speranze.Annalena
                  non aveva legato con nessuna di loro, la
                  infastidiva tutto quel cicaleccio, la irritavano i
                  profumi dozzinali che riempivano l'ufficio, e i
                  progetti di uscite e appuntamenti del sabato sera.
                  Il suo sabato sera non era diverso dalle altre sei
                  sere della settimana: una silenziosa cena con la
                  madre, un'oretta di radio, e poi il
                  letto. E
                  ora questo ragazzo aveva cominciato fin dal primo
                  giorno a tessere un ponte di parole fra lui e la
                  ragazza schiva che gli stava accanto. Con il suo
                  dolce e cantilenante accento veneto le raccontava
                  la sua vita degli ultimi anni, i mattini freddi, le
                  sere zuppe di lacrime, gli orrori ed i terrori, le
                  nostalgie, le disumanità della guerra.
                  Annalena rimaneva sempre in silenzio, lo sguardo
                  fisso sugli spinotti, il busto eretto, mentre il
                  suo cuore cominciava ad accelerare i battiti, e si
                  sentiva dentro, nel petto, qualcosa di diverso, un
                  liquido calore che la invadeva. Quando il loro
                  turno non coincideva si ritrovava a chiedersi cosa
                  lui stesse facendo, con chi parlasse, chi vedesse.
                  Marco (le capitava quando era sola di pronunciare
                  il suo nome a fior di labbra, assaporandolo,
                  facendolo scivolare giù, lungo la gola) le
                  aveva detto che i suoi erano della provincia di
                  Treviso, e che qui, nella città in cui
                  lavorava, conosceva poche persone. Quando si
                  accorgeva di pensare troppo a lui, sbatteva forte
                  le palpebre, raddrizzava ancora di più la
                  schiena, e scacciava quel languore che la
                  prendeva.Poi
                  un sabato pomeriggio si ritrovarono per caso in
                  centro. Marco arrossì, mentre le tendeva la
                  mano per salutarla. Poi divenne euforico, e la
                  invitò in pasticceria.Annalena
                  non si accorse neppure di accettare, ma si
                  ritrovò seduta ad un tavolino nella piazza
                  illuminata dal sole di quella prima estate di
                  dopoguerra. La gente passeggiava lenta, camminava
                  vicino alle transenne piantate intorno ad un
                  palazzo bombardato, ma vociava allegra, e tutto,
                  lì, sapeva, nonostante tutto, di
                  rinascita.Ad
                  Annalena girava la testa. Improvvisamente sentiva
                  di nuovo la sua anima-atleta, e le mani, le labbra,
                  la voce, le orecchie pronte ad elargire e a
                  ricevere. Lui parlava un po' affannato, del lavoro,
                  dei suoi, del settantotto giri americano che era
                  riuscito a comprare attraverso un amico. Annalena
                  lo ascoltava, ma ascoltava anche se stessa, e
                  percepiva i mutamenti che stavano avvenendo in lei.
                  Sbatté forte le palpebre, raddrizzò
                  il busto, ma quel languore, quella specie di
                  incantesimo, persistevano. "Vuoi
                  uscire con me, domani, Annalena?" chiese lui ad un
                  tratto"Sì,
                  certo!"Poi
                  si corresse subito:"Cioè,
                  no, non posso." E si passò una mano sugli
                  occhi."Hai
                  un altro impegno? O forse non ti va di uscire con
                  me? Io... Tu mi piaci, Annalena, mi sento bene
                  quando parlo con te. Tu non mi dici mai niente, ma
                  sento la tua comprensione, anche se cerchi di
                  mascherarla. Sai, io vedo la maschera che indossi,
                  tu dentro sei diversa da come vuoi mostrarti,
                  dentro non sei così indifferente come vuoi
                  apparire. Lo avverto anche sul lavoro: quando
                  rispondi alle telefonate sei gentilissima e
                  paziente, molto più di tutti noi. È
                  come se tu avessi paura di rapportarti con chi
                  conosci. La tua... sì, la tua è una
                  gentilezza che vuole essere...
                  invisibile."Fu
                  come se lui le avesse radiografato l'anima. Ma non
                  si sentì turbata. Al contrario si
                  sentì più leggera, il respiro che
                  finalmente poteva librarsi ovunque senza
                  orpelli.Allungò
                  una mano e sfiorò le dita di Marco, che
                  stava giocherellando con una bustina di
                  fiammiferi."Uscirò
                  con te, domani. Posso, voglio uscire con
                  te." A
                  casa, la madre notò subito che la figlia
                  aveva qualcosa di diverso. Una diversa postura, gli
                  occhi più brillanti, un sorriso appena
                  frenato. Il
                  giorno dopo Annalena non si presentò
                  all'appuntamento. Quel
                  sabato sera aveva raccontato tutto alla madre,
                  sperando di stabilire una qualche comunicazione con
                  lei, illudendosi che la donna sarebbe stata
                  contenta di vedere la figlia felice. Dimenticandosi
                  di tutti gli insegnamenti, di tutti gli
                  avvertimenti, di tutte le leggi anti-emozioni che
                  lei le aveva imposto."Povera
                  stupida", le aveva detto la madre "e cosa vuoi
                  ricavare, da questa storia? Perché ti vuoi
                  illudere? Non capisci che è una fortuna non
                  avere nessuno, non avere bisogni, non dovere
                  dipendere dai sentimenti? Mettiti, mettiti con lui,
                  poi vedrai... E poi l'altro giorno non mi hai detto
                  che vuole trovare lavoro al suo paese? E tu? Tu lo
                  seguiresti, lasciando l'impiego, la casa, me...?
                  Ricordati: tu ed io siamo uguali: possiamo solo far
                  affidamento una sull'altra. Se la cominci, questa
                  storia, ti porterà solo
                  sofferenze."	Quella
                  notte, gli occhi spalancati nel buio, Annalena
                  aveva rivissuto tutto quel sabato pomeriggio, e poi
                  la sera, a casa. Piano piano la luce della piazza,
                  il calore del sole, la voce di Marco, i suoi occhi
                  dallo sguardo intenso, l'incantesimo di quei
                  momenti, erano sbiaditi, si erano raggrinziti come
                  un palloncino scoppiato. E le parole della madre
                  avevano riempito lo spazio, con contorni precisi,
                  con cornici di ferro battuto. Il
                  lunedì mattina la signorina Annalena aveva
                  chiesto al capoufficio di cambiarle postazione di
                  lavoro.Quando
                  andò a ritirare alcuni oggetti di
                  cancelleria dal vecchio cassetto trovò un
                  mazzetto di fiori colorati sul tavolo. Marco la
                  guardò e fece per parlare, ma lei lo
                  prevenne:"Lasciami
                  in pace. Scusami, ma è così che deve
                  andare."Si
                  allontanò, la schiena eretta, le matite fra
                  le dita contratte, lasciandosi dietro lo sguardo
                  ferito di Marco e quei fiori, troppo vivaci per
                  potere essere tollerati.Due
                  mesi dopo sentì dire dalle sue colleghe che
                  Marco aveva ottenuto il trasferimento a Treviso.
                  L'ultimo giorno di lavoro del ragazzo lei si diede
                  malata. Sua madre aveva proprio ragione: prima o
                  poi tutti se ne vanno.  Gli
                  anni erano passati lentissimi, per la signorina
                  Annalena. Non aveva amiche, né tantomeno
                  amici. I suoi sabati sera erano sempre uguali, la
                  televisione aveva sostituito la radio, ma per il
                  resto nulla era mutato. Quando sua madre si era
                  ammalata, la signorina Annalena era già
                  andata in pensione, e aveva potuto così
                  dedicare ogni ora della giornata alla sua
                  assistenza.Il
                  giorno in cui la donna morì la signorina
                  Annalena scoprì di non avere neppure una
                  fotografia della madre, e dovette adoperare per la
                  lapide la foto tessera della carta
                  d'identità. Al funerale non ci venne
                  nessuno, solo le solite beghine che non si perdono
                  mai una funzione.Dietro
                  il carro funebre la signorina Annalena
                  immaginò se stessa, dentro quella bara.
                  Anche il suo funerale sarebbe stato così,
                  anzi, ancora più desolato, dato che lei non
                  aveva neppure un figlio? Certamente, si disse,
                  sarà così. La conclusione logica di
                  una vita senza colori, appiattita e
                  brulla. Cominciarono
                  dei cambiamenti. Si spostò in centro in una
                  vecchia palazzina: sei appartamenti, il suo
                  all'ultimo piano. La finestra della cucina dava sul
                  cortile interno e lei prese l'abitudine di stare in
                  piedi, dietro le tendine, e osservare quello che
                  succedeva là sotto. Non perché fosse
                  diventata una vecchia curiosa, ma perché le
                  sembrava indirettamente di vivere quello che si era
                  negata.	Poi
                  cominciò a viaggiare. Nei dieci anni
                  successivi alla morte della madre girò per
                  mezzo mondo. Sola, lontana il più possibile
                  dal turismo organizzato, aveva vissuto attimi
                  splendidi. Aveva comunicato con tante persone senza
                  saper parlare la loro lingua, era stata presa per
                  mano da bambini scalzi che si improvvisavano guide,
                  aveva condiviso il suo cibo con donne dai volti
                  velati, che a loro volta le avevano regalato
                  fragili braccialetti di vetro. Aveva inalato
                  l'odore di un fiume sacro, accovacciata su antichi
                  scivolosi gradini, in compagnia di un vecchio che
                  la fissava con umanissimi occhi di fuoco. Persone
                  che non avrebbe mai più incontrato, e con le
                  quali quindi poteva essere se stessa, come con quei
                  clienti senza volto ai tempi del suo
                  impiego. Ma
                  il ricordo che più le era rimasto impresso,
                  e che ritornava frequentemente nei suoi sogni, era
                  l'assoluto buio di una notte a Gulmarg, un paese
                  che domina la valle principale del Kashmir. Uscendo
                  da una trattoria aveva udito la preghiera del
                  muezzin che si espandeva in quel silenzio perfetto,
                  in quel nero totale, nell'aria un po' rarefatta
                  dall'altitudine. Non c'erano stelle, non c'erano
                  rumori, non c'erano persone: solo lei e quella voce
                  che sembrava nascere contemporaneamente dal cielo
                  di lavagna, dal suolo sconnesso, dalle fitte
                  foreste di pini, dal lontano picco del Nanga
                  Parbat. Si era lasciata scivolare a terra, aveva
                  allargato le braccia. Per la prima volta in tutta
                  la sua vita si era sentita parte inscindibile
                  dell'universo. Aveva percepito in sé un
                  senso di comunione con gli altri esseri umani, con
                  chi, in quella buia sera, stava ascoltando come lei
                  quel suono così puro, ma anche con miliardi
                  di altri esseri che popolavano il pianeta,
                  qualsiasi Dio, o non dio, pregassero."Io
                  sono parte di voi, e voi siete parte di me." aveva
                  sussurrato." Si
                  ritrovò a guardare la gente in un modo
                  diverso. Scoprì che a volte le persone
                  cercavano di relazionare con lei, che avevano verso
                  di lei gesti gentili: i suoi vicini di casa, per
                  esempio... Era
                  sull'autobus affollato, le borse della spesa che le
                  pendevano pesantemente dalle braccia. Un ragazzino
                  si era alzato per cederle il posto. Lo conosceva,
                  quel ragazzino: abitava al primo piano del suo
                  palazzo, lo vedeva sempre giocare nel cortile. Per
                  un attimo aveva pensato di rifiutare, poi,
                  ringraziandolo bruscamente, si era seduta. Era
                  difficile per lei abbandonare le vecchie abitudini
                  fossilizzate da una vita. Entrava in gioco anche
                  una specie di pudore, che le impediva di essere
                  spontanea.Rientrando
                  nel suo appartamento la signorina Annalena aveva
                  ripensato a quell'episodio. Si era detta che
                  avrebbe dovuto essere più cordiale,
                  più calorosa. Era poi così difficile
                  essere apertamente grata?Lo
                  sguardo le era caduto su una rivista abbandonata
                  sul divano, aperta sulla rubrica culinaria. Ecco
                  cosa avrebbe potuto fare: dei dolcetti per quel
                  bambino, proprio quelli che erano fotografati sul
                  periodico, a forma di stella, di cuoricini, di
                  ciambelline. A lui sarebbero piaciuti. Ma poi come
                  darglieli? Le riuscì del tutto estraneo il
                  pensiero di scendere al primo piano, suonare il
                  campanello, e dire... spiegare che... E se li
                  avesse lasciati sullo stuoino, ben incartati,
                  anonimi? Le venne in mente, dopo secoli, Marco: la
                  tua è una gentilezza invisibile, le aveva
                  detto. Bene, avrebbe fatto così. Era troppo
                  avanti con gli anni per cominciare a mostrarsi, per
                  iniziare a parlare, ma voleva dare, e anche
                  imparare a ricevere.Aveva
                  preso la lente di ingrandimento senza la quale non
                  riusciva più a leggere nulla e si era seduta
                  sulla poltrona. Biscottini
                  Jolly 125
                  gr. di burroquattro
                  rossi di uovo sodo65
                  gr. di zucchero250
                  gr. di farina biancaun
                  albume d'uovo per
                  spennellarezucchero
                  a granelli. Montate
                  il burro con una spatola di legno (tenendone da
                  parte un cucchiaino) e incorporatevi i rossi d'uovo
                  sodo, dopo averli passati in un setaccio fine.
                  Aggiungete lo zucchero, il sale e la farina bianca.
                  Lavorate bene la pasta e mettetela per trenta
                  minuti nel frigorifero. Poi stendetela con il
                  matterello in una sfoglia alta mezzo centimetro.
                  Ritagliate nella pasta delle figurine a piacimento,
                  usando appositi stampini, spalmatele con l'albume e
                  spolverizzate con lo zucchero a granelli. Mettete i
                  biscotti su una placca unta di burro e passateli in
                  forno caldo per circa dieci minuti. "Bene",
                  aveva pensato la signorina Annalena "non mi
                  sembrano difficili, anche se io in cucina non
                  è che sia bravissima. Domani
                  compererò gli stampini, farò i
                  biscotti e durante la notte, quando nessuno mi
                  potrà vedere, scenderò di
                  sotto."La
                  mattina dopo aveva comprato anche dei bei
                  sacchettini colorati e metri di nastro
                  dorato."Non
                  si sa mai", si era detta "forse mi capiteranno
                  altre occasioni di fare regali!" E
                  così era stato.Biscotti
                  per il suo dirimpettaio: un signore che viveva solo
                  e che una mattina le aveva regalato un gran mazzo
                  di basilico che coltivava sul suo
                  balcone.Biscotti
                  per i due studenti del pianterreno che quel giorno
                  del blocco dell'ascensore le avevano portato fin su
                  la confezione di acqua minerale senza che lei
                  glielo avesse chiesto.Biscotti
                  per la giovane famiglia del secondo piano (quella
                  con quel bambino piccolo che aveva cominciato a
                  camminare da poco) che la salutavano sempre con un
                  gran sorriso e le tenevano aperto il portone quando
                  si trovavano ad uscire contemporaneamente a
                  lei.Biscotti
                  per l'altro inquilino del secondo piano, una
                  signora attempata e briosa, che aveva
                  l'inconsapevole merito di rallegrarla cantando arie
                  di operetta mentre faceva le pulizie di
                  casa.La
                  signorina Annalena aveva scoperto che le piaceva un
                  sacco preparare i dolci, impacchettarli, e scendere
                  in piena notte in punta di piedi (l'ascensore
                  sarebbe stato troppo rumoroso) e depositare sullo
                  stuoino il sacchetto colorato. Era come una specie
                  di gioco.Un
                  pomeriggio, sul finire di quell'estate, aveva
                  sentito dalla sua cucina alcuni condomini che in
                  cortile si interrogavano sui biscottini...
                  misteriosi. Scoprì così che dapprima
                  c'era stata un po' di diffidenza ad assaggiarli, ma
                  poi gli studenti li avevano sentiti, li avevano
                  trovati buonissimi, nessuno era morto, e
                  così ogni dubbio sulla loro
                  commestibilità era sparito. Rimaneva il
                  mistero del donatore: " Forse una buona fatina?..."
                  aveva ipotizzato il dirimpettaio della signorina
                  Annalena e a lei era sembrato che per un attimo lui
                  lanciasse uno sguardo veloce verso la sua finestra,
                  e si era ritirata in fretta.  ***  La
                  signorina Annalena tolse la catenella e aprì
                  la porta."Buongiorno!"
                  disse con voce un po' tremante, perché
                  ancora non si rendeva ben conto di quanto stava
                  succedendo."Buongiorno
                  a lei!" rispose un coro di voci."Gionno!
                  "fece eco il più piccolo del gruppo, in
                  braccio alla madre."Entrate,
                  entrate..." disse la signorina
                  Annalena.Il
                  ragazzino del primo piano entrò velocemente,
                  seguito dagli altri."Abbiamo
                  scoperto tutto! È lei la fatina
                  buona!""Sono
                  stato io a scoprirlo! L'altra sera stavo mettendo
                  la catenella alla mia porta per andarmene poi a
                  dormire, quando ho sentito la sua aprirsi, a
                  quell'ora mi è sembrato strano, allora ho
                  guardato dallo spioncino, e ho visto lei, Annalena,
                  con il sacchettino in mano, che si accingeva a
                  scendere le scale.""Sono
                  buonissimi i suoi biscotti! Mi da la
                  ricetta?""Noi
                  li abbiamo portati anche in
                  Università!""Lei
                  è veramente gentilissima!""Neanche
                  la mia nonna fa dei biscotti così
                  buoni!""Abbiamo
                  un regalo per lei. Dai, Paolo dallo alla signorina
                  Annalena!"Tutte
                  quelle frasi si accavallavano fra loro, creando una
                  benefica confusione in quella casa abituata al
                  silenzio. Regalo? pensò la signorina
                  Annalena, e poi... e poi non sapevo neppure che
                  conoscessero il mio nome...Li
                  fece sedere nel salotto, non c'erano posti per
                  tutti, e Paolo e gli studenti si sedettero per
                  terra. La signorina Annalena si trovò in
                  mano il pacchettino col fiocco azzurro. Lo
                  aprì: una scatolina di legno conteneva una
                  sottile catenella d'argento, con appeso un piccolo
                  cuore di corallo. Su un bigliettino con tante firme
                  c'era scritto: " per la signorina Annalena, che
                  è la gentilezza in persona "Gli
                  occhi di Annalena si riempirono di
                  lacrime.Dopo
                  un'ora erano ancora tutti lì, a
                  chiacchierare di tante cose, a sorridere, a
                  scherzare fra loro; fotografie di paesi lontani
                  erano sparse sul tavolino.Il
                  piccolo del secondo piano si era addormentato in
                  braccio ad Annalena, con una guancia appoggiata al
                  petto della donna, dove la fiammante vestaglia
                  rossa si era un poco aperta.
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