- LA
GENTILEZZA INVISIBILE
-
-
- Al
suonar del campanello della porta la signorina
Annalena si riscosse. Stava sognando di quella
volta, là, nel Kashmir, e la voce del
muezzin era così reale che le era sembrato
proprio di stare rivivendo quell'attimo di
allora.
- Chi
poteva essere? Nessuno veniva mai a casa sua, se
non, ogni tanto, il portalettere con qualche
comunicazione della banca; ma ormai, quel giorno,
l'ora della consegna della posta era
trascorsa.
- Chi
mai poteva essere, allora?
- Si
passò una mano sul viso, come per cancellare
l'espressione di serenità che il sogno aveva
pennellato nei suoi occhi. Si alzò dalla
poltrona e si strinse la vestaglia intorno al corpo
scarno, sentendosi a disagio per quel color rosso
acceso, che a lei piaceva tanto, ma che nessuno le
aveva mai visto addosso.
- Aprì
piano, mentre il suono del campanello continuava
sbarazzino a irrompere in quel silenzio di vecchie
pareti; appena una fessura, con la porta ben
assicurata alla catenella.
- Un
gruppo di persone sorridenti se ne stava sul
pianerottolo illuminato; un bambino fece un passo
avanti, in mano un pacchetto colorato, con un gran
fiocco azzurro.
- La
signorina Annalena fu certa che il sogno sul
Kashmir si fosse spostato in un altro luogo
onirico, in un'altra dimensione che non le
apparteneva. Pensò, insomma, di stare ancora
sognando.
-
-
- ***
-
-
- Da
bambina la signorina Annalena di cose ne aveva
imparate mille, come tutti i bambini. Ma
soprattutto una regola le si era ben presto incisa
nella mente: non fare mai vedere le tue emozioni;
quindi non sorridere, non piangere, non gridare di
gioia, non mostrarti, non dividere mai con altri
quello che provi. La madre era stata la sua grande
maestra.
- Il
silenzio aveva fatto da grigia colonna sonora alla
sua infanzia. O meglio, non proprio il silenzio, ma
una totale assenza di calore. La madre - una donna
con contorni vacui, alta e bianca, con gli occhi di
antracite opaca - le aveva imposto fin da
piccolissima toni smorti, silenzi, gesti misurati,
scostandosi quando lei cercava di abbracciarla,
rimproverandola se correva lungo il corridoio,
criticandola se lei piangeva.
- Come
quella volta che la bambina si era rattristata per
la partenza di una compagna di scuola che stava
cambiando città.
- "Hai
visto? Non bisogna affezionarsi a nessuno. Tanto
prima o poi tutti ti lasciano, e allora a che
servono l'amore, la gentilezza, a che serve essere
gradevoli verso gli altri? A nulla, Annalena, a
nulla. Meglio rimanere soli, fare la propria vita.
Non permettere mai a nessuno di prenderti il cuore,
Annalena!. Io... mah, lasciamo
perdere."
- La
signorina Annalena non sapeva chi fosse suo padre,
non lo aveva mai conosciuto. Non aveva mai
incontrato nessun parente, all'infuori di questa
madre così parca di risposte che alla fine
la signorina Annalena bambina aveva cessato di
porre domande. Solo poco prima di morire la madre
le aveva raccontato con poche smozzicate parole una
storia di abbandono e ripudio: l'uomo sposato ma
pieno di promesse mai mantenute, la gravidanza, i
genitori di lei sulla porta, il braccio teso,
sparisci, le avevano detto, sei la nostra
vergogna.
- Ma
la signorina Annalena aveva già i capelli
bianchi, e la fame di risposte che le aveva
consumato
- gran
parte dell'esistenza si era ormai
esaurita.
-
-
- Nonostante
tutto, la bambina Annalena a volte pensava alla sua
anima come se fosse un atleta pronto a scattare
sulla linea di partenza; sentiva, a volte, le sue
mani colme di carezze da elargire; focalizzava, a
volte, l'immagine delle sue labbra in procinto di
aprirsi al sorriso; tremava, a volte, per
l'impazienza della sua voce di modulare vocali e
consonanti che componessero parole amorevoli; le
pareva, a volte, di avere grandi orecchie
spalancate per udire frasi gentili. Ma le gambe
rimanevano bloccate da pesi di piombo; le mani se
ne stavano strette a pugno; le labbra continuavano
ad avere un disegno sottile e pallido; le dolci
parole venivano ingoiate, e le orecchie riempite di
ovatta, predisposte ad ascoltare solo amare,
ciniche sentenze.
- Con
il passare degli anni quella sensazione di
movimento, di spinta verso i colori dell'esistenza
si era del tutto assopita. La madre le aveva ben
tatuato addosso una rappresentazione in cui i
sentimenti erano miserie e ceppi, e l'essere soli
lo stato ideale per vivere in pace. E così
la signorina Annalena aveva fatto della solitudine,
della non relazione con gli altri, il suo punto di
forza.
- Una
volta, avrà avuto una decina d'anni, era
caduta dalla bicicletta. Una signora si era
avvicinata per chiederle se si era fatta male, e
lei non l'aveva neppure guardata, poi aveva
risposto:
- "Non
capire, non italiana."
- Non
si doveva mai aver bisogno di nessuno, mai farsi
vedere fragili. Era risalita sulla bicicletta, un
ginocchio sanguinante, e se ne era tornata a casa,
dove sapeva che nessuna madre affettuosa si sarebbe
presa veramente cura di lei, se non per
disinfettarla con gesti bruschi.
-
-
- Eppure
una volta si era innamorata.
-
- Era
da poco finita la guerra, e c'erano questi ragazzi
che tornavano dal fronte, gli occhi grandi e
smarriti, colmi di visioni di sangue e paure e
disillusioni.
- Lui
si chiamava Marco e portava sul volto scarnito i
segni della devastante guerra di Russia. Un giorno
Annalena se lo trovò vicino, ultimo
centralinista assunto nella società
telefonica per cui lei lavorava da qualche
mese.
- Lei
era allora una ragazza vestita di colori spenti,
molto diversa dalle sue colleghe che portavano
abiti colorati, i disegni delle stoffe piene di
fiori allegri, come a cancellare i lunghi anni di
desolazione che avevano caratterizzato fino a quel
momento la loro giovinezza. Si riempivano la bocca
di risate, ammiccavano non appena un uomo entrava
nello stanzone dove lavoravano, rispondevano
distrattamente alle chiamate, per tornare subito
dopo alle loro chiacchiere, fatte di divi, di bei
ragazzi, di speranze.
- Annalena
non aveva legato con nessuna di loro, la
infastidiva tutto quel cicaleccio, la irritavano i
profumi dozzinali che riempivano l'ufficio, e i
progetti di uscite e appuntamenti del sabato sera.
Il suo sabato sera non era diverso dalle altre sei
sere della settimana: una silenziosa cena con la
madre, un'oretta di radio, e poi il
letto.
-
- E
ora questo ragazzo aveva cominciato fin dal primo
giorno a tessere un ponte di parole fra lui e la
ragazza schiva che gli stava accanto. Con il suo
dolce e cantilenante accento veneto le raccontava
la sua vita degli ultimi anni, i mattini freddi, le
sere zuppe di lacrime, gli orrori ed i terrori, le
nostalgie, le disumanità della guerra.
Annalena rimaneva sempre in silenzio, lo sguardo
fisso sugli spinotti, il busto eretto, mentre il
suo cuore cominciava ad accelerare i battiti, e si
sentiva dentro, nel petto, qualcosa di diverso, un
liquido calore che la invadeva. Quando il loro
turno non coincideva si ritrovava a chiedersi cosa
lui stesse facendo, con chi parlasse, chi vedesse.
Marco (le capitava quando era sola di pronunciare
il suo nome a fior di labbra, assaporandolo,
facendolo scivolare giù, lungo la gola) le
aveva detto che i suoi erano della provincia di
Treviso, e che qui, nella città in cui
lavorava, conosceva poche persone. Quando si
accorgeva di pensare troppo a lui, sbatteva forte
le palpebre, raddrizzava ancora di più la
schiena, e scacciava quel languore che la
prendeva.
- Poi
un sabato pomeriggio si ritrovarono per caso in
centro. Marco arrossì, mentre le tendeva la
mano per salutarla. Poi divenne euforico, e la
invitò in pasticceria.
- Annalena
non si accorse neppure di accettare, ma si
ritrovò seduta ad un tavolino nella piazza
illuminata dal sole di quella prima estate di
dopoguerra. La gente passeggiava lenta, camminava
vicino alle transenne piantate intorno ad un
palazzo bombardato, ma vociava allegra, e tutto,
lì, sapeva, nonostante tutto, di
rinascita.
- Ad
Annalena girava la testa. Improvvisamente sentiva
di nuovo la sua anima-atleta, e le mani, le labbra,
la voce, le orecchie pronte ad elargire e a
ricevere. Lui parlava un po' affannato, del lavoro,
dei suoi, del settantotto giri americano che era
riuscito a comprare attraverso un amico. Annalena
lo ascoltava, ma ascoltava anche se stessa, e
percepiva i mutamenti che stavano avvenendo in lei.
Sbatté forte le palpebre, raddrizzò
il busto, ma quel languore, quella specie di
incantesimo, persistevano.
-
- "Vuoi
uscire con me, domani, Annalena?" chiese lui ad un
tratto
- "Sì,
certo!"
- Poi
si corresse subito:
- "Cioè,
no, non posso." E si passò una mano sugli
occhi.
- "Hai
un altro impegno? O forse non ti va di uscire con
me? Io... Tu mi piaci, Annalena, mi sento bene
quando parlo con te. Tu non mi dici mai niente, ma
sento la tua comprensione, anche se cerchi di
mascherarla. Sai, io vedo la maschera che indossi,
tu dentro sei diversa da come vuoi mostrarti,
dentro non sei così indifferente come vuoi
apparire. Lo avverto anche sul lavoro: quando
rispondi alle telefonate sei gentilissima e
paziente, molto più di tutti noi. È
come se tu avessi paura di rapportarti con chi
conosci. La tua... sì, la tua è una
gentilezza che vuole essere...
invisibile."
- Fu
come se lui le avesse radiografato l'anima. Ma non
si sentì turbata. Al contrario si
sentì più leggera, il respiro che
finalmente poteva librarsi ovunque senza
orpelli.
- Allungò
una mano e sfiorò le dita di Marco, che
stava giocherellando con una bustina di
fiammiferi.
- "Uscirò
con te, domani. Posso, voglio uscire con
te."
-
- A
casa, la madre notò subito che la figlia
aveva qualcosa di diverso. Una diversa postura, gli
occhi più brillanti, un sorriso appena
frenato.
-
- Il
giorno dopo Annalena non si presentò
all'appuntamento.
-
- Quel
sabato sera aveva raccontato tutto alla madre,
sperando di stabilire una qualche comunicazione con
lei, illudendosi che la donna sarebbe stata
contenta di vedere la figlia felice. Dimenticandosi
di tutti gli insegnamenti, di tutti gli
avvertimenti, di tutte le leggi anti-emozioni che
lei le aveva imposto.
- "Povera
stupida", le aveva detto la madre "e cosa vuoi
ricavare, da questa storia? Perché ti vuoi
illudere? Non capisci che è una fortuna non
avere nessuno, non avere bisogni, non dovere
dipendere dai sentimenti? Mettiti, mettiti con lui,
poi vedrai... E poi l'altro giorno non mi hai detto
che vuole trovare lavoro al suo paese? E tu? Tu lo
seguiresti, lasciando l'impiego, la casa, me...?
Ricordati: tu ed io siamo uguali: possiamo solo far
affidamento una sull'altra. Se la cominci, questa
storia, ti porterà solo
sofferenze."
- Quella
notte, gli occhi spalancati nel buio, Annalena
aveva rivissuto tutto quel sabato pomeriggio, e poi
la sera, a casa. Piano piano la luce della piazza,
il calore del sole, la voce di Marco, i suoi occhi
dallo sguardo intenso, l'incantesimo di quei
momenti, erano sbiaditi, si erano raggrinziti come
un palloncino scoppiato. E le parole della madre
avevano riempito lo spazio, con contorni precisi,
con cornici di ferro battuto.
-
- Il
lunedì mattina la signorina Annalena aveva
chiesto al capoufficio di cambiarle postazione di
lavoro.
- Quando
andò a ritirare alcuni oggetti di
cancelleria dal vecchio cassetto trovò un
mazzetto di fiori colorati sul tavolo. Marco la
guardò e fece per parlare, ma lei lo
prevenne:
- "Lasciami
in pace. Scusami, ma è così che deve
andare."
- Si
allontanò, la schiena eretta, le matite fra
le dita contratte, lasciandosi dietro lo sguardo
ferito di Marco e quei fiori, troppo vivaci per
potere essere tollerati.
- Due
mesi dopo sentì dire dalle sue colleghe che
Marco aveva ottenuto il trasferimento a Treviso.
L'ultimo giorno di lavoro del ragazzo lei si diede
malata. Sua madre aveva proprio ragione: prima o
poi tutti se ne vanno.
-
-
- Gli
anni erano passati lentissimi, per la signorina
Annalena. Non aveva amiche, né tantomeno
amici. I suoi sabati sera erano sempre uguali, la
televisione aveva sostituito la radio, ma per il
resto nulla era mutato. Quando sua madre si era
ammalata, la signorina Annalena era già
andata in pensione, e aveva potuto così
dedicare ogni ora della giornata alla sua
assistenza.
- Il
giorno in cui la donna morì la signorina
Annalena scoprì di non avere neppure una
fotografia della madre, e dovette adoperare per la
lapide la foto tessera della carta
d'identità. Al funerale non ci venne
nessuno, solo le solite beghine che non si perdono
mai una funzione.
- Dietro
il carro funebre la signorina Annalena
immaginò se stessa, dentro quella bara.
Anche il suo funerale sarebbe stato così,
anzi, ancora più desolato, dato che lei non
aveva neppure un figlio? Certamente, si disse,
sarà così. La conclusione logica di
una vita senza colori, appiattita e
brulla.
-
- Cominciarono
dei cambiamenti. Si spostò in centro in una
vecchia palazzina: sei appartamenti, il suo
all'ultimo piano. La finestra della cucina dava sul
cortile interno e lei prese l'abitudine di stare in
piedi, dietro le tendine, e osservare quello che
succedeva là sotto. Non perché fosse
diventata una vecchia curiosa, ma perché le
sembrava indirettamente di vivere quello che si era
negata.
- Poi
cominciò a viaggiare. Nei dieci anni
successivi alla morte della madre girò per
mezzo mondo. Sola, lontana il più possibile
dal turismo organizzato, aveva vissuto attimi
splendidi. Aveva comunicato con tante persone senza
saper parlare la loro lingua, era stata presa per
mano da bambini scalzi che si improvvisavano guide,
aveva condiviso il suo cibo con donne dai volti
velati, che a loro volta le avevano regalato
fragili braccialetti di vetro. Aveva inalato
l'odore di un fiume sacro, accovacciata su antichi
scivolosi gradini, in compagnia di un vecchio che
la fissava con umanissimi occhi di fuoco. Persone
che non avrebbe mai più incontrato, e con le
quali quindi poteva essere se stessa, come con quei
clienti senza volto ai tempi del suo
impiego.
-
- Ma
il ricordo che più le era rimasto impresso,
e che ritornava frequentemente nei suoi sogni, era
l'assoluto buio di una notte a Gulmarg, un paese
che domina la valle principale del Kashmir. Uscendo
da una trattoria aveva udito la preghiera del
muezzin che si espandeva in quel silenzio perfetto,
in quel nero totale, nell'aria un po' rarefatta
dall'altitudine. Non c'erano stelle, non c'erano
rumori, non c'erano persone: solo lei e quella voce
che sembrava nascere contemporaneamente dal cielo
di lavagna, dal suolo sconnesso, dalle fitte
foreste di pini, dal lontano picco del Nanga
Parbat. Si era lasciata scivolare a terra, aveva
allargato le braccia. Per la prima volta in tutta
la sua vita si era sentita parte inscindibile
dell'universo. Aveva percepito in sé un
senso di comunione con gli altri esseri umani, con
chi, in quella buia sera, stava ascoltando come lei
quel suono così puro, ma anche con miliardi
di altri esseri che popolavano il pianeta,
qualsiasi Dio, o non dio, pregassero.
- "Io
sono parte di voi, e voi siete parte di me." aveva
sussurrato."
-
- Si
ritrovò a guardare la gente in un modo
diverso. Scoprì che a volte le persone
cercavano di relazionare con lei, che avevano verso
di lei gesti gentili: i suoi vicini di casa, per
esempio...
-
- Era
sull'autobus affollato, le borse della spesa che le
pendevano pesantemente dalle braccia. Un ragazzino
si era alzato per cederle il posto. Lo conosceva,
quel ragazzino: abitava al primo piano del suo
palazzo, lo vedeva sempre giocare nel cortile. Per
un attimo aveva pensato di rifiutare, poi,
ringraziandolo bruscamente, si era seduta. Era
difficile per lei abbandonare le vecchie abitudini
fossilizzate da una vita. Entrava in gioco anche
una specie di pudore, che le impediva di essere
spontanea.
- Rientrando
nel suo appartamento la signorina Annalena aveva
ripensato a quell'episodio. Si era detta che
avrebbe dovuto essere più cordiale,
più calorosa. Era poi così difficile
essere apertamente grata?
- Lo
sguardo le era caduto su una rivista abbandonata
sul divano, aperta sulla rubrica culinaria. Ecco
cosa avrebbe potuto fare: dei dolcetti per quel
bambino, proprio quelli che erano fotografati sul
periodico, a forma di stella, di cuoricini, di
ciambelline. A lui sarebbero piaciuti. Ma poi come
darglieli? Le riuscì del tutto estraneo il
pensiero di scendere al primo piano, suonare il
campanello, e dire... spiegare che... E se li
avesse lasciati sullo stuoino, ben incartati,
anonimi? Le venne in mente, dopo secoli, Marco: la
tua è una gentilezza invisibile, le aveva
detto. Bene, avrebbe fatto così. Era troppo
avanti con gli anni per cominciare a mostrarsi, per
iniziare a parlare, ma voleva dare, e anche
imparare a ricevere.
- Aveva
preso la lente di ingrandimento senza la quale non
riusciva più a leggere nulla e si era seduta
sulla poltrona.
-
- Biscottini
Jolly
-
- 125
gr. di burro
- quattro
rossi di uovo sodo
- 65
gr. di zucchero
- 250
gr. di farina bianca
- un
albume d'uovo per
spennellare
- zucchero
a granelli.
-
- Montate
il burro con una spatola di legno (tenendone da
parte un cucchiaino) e incorporatevi i rossi d'uovo
sodo, dopo averli passati in un setaccio fine.
Aggiungete lo zucchero, il sale e la farina bianca.
Lavorate bene la pasta e mettetela per trenta
minuti nel frigorifero. Poi stendetela con il
matterello in una sfoglia alta mezzo centimetro.
Ritagliate nella pasta delle figurine a piacimento,
usando appositi stampini, spalmatele con l'albume e
spolverizzate con lo zucchero a granelli. Mettete i
biscotti su una placca unta di burro e passateli in
forno caldo per circa dieci minuti.
-
- "Bene",
aveva pensato la signorina Annalena "non mi
sembrano difficili, anche se io in cucina non
è che sia bravissima. Domani
compererò gli stampini, farò i
biscotti e durante la notte, quando nessuno mi
potrà vedere, scenderò di
sotto."
- La
mattina dopo aveva comprato anche dei bei
sacchettini colorati e metri di nastro
dorato.
- "Non
si sa mai", si era detta "forse mi capiteranno
altre occasioni di fare regali!"
-
- E
così era stato.
- Biscotti
per il suo dirimpettaio: un signore che viveva solo
e che una mattina le aveva regalato un gran mazzo
di basilico che coltivava sul suo
balcone.
- Biscotti
per i due studenti del pianterreno che quel giorno
del blocco dell'ascensore le avevano portato fin su
la confezione di acqua minerale senza che lei
glielo avesse chiesto.
- Biscotti
per la giovane famiglia del secondo piano (quella
con quel bambino piccolo che aveva cominciato a
camminare da poco) che la salutavano sempre con un
gran sorriso e le tenevano aperto il portone quando
si trovavano ad uscire contemporaneamente a
lei.
- Biscotti
per l'altro inquilino del secondo piano, una
signora attempata e briosa, che aveva
l'inconsapevole merito di rallegrarla cantando arie
di operetta mentre faceva le pulizie di
casa.
- La
signorina Annalena aveva scoperto che le piaceva un
sacco preparare i dolci, impacchettarli, e scendere
in piena notte in punta di piedi (l'ascensore
sarebbe stato troppo rumoroso) e depositare sullo
stuoino il sacchetto colorato. Era come una specie
di gioco.
- Un
pomeriggio, sul finire di quell'estate, aveva
sentito dalla sua cucina alcuni condomini che in
cortile si interrogavano sui biscottini...
misteriosi. Scoprì così che dapprima
c'era stata un po' di diffidenza ad assaggiarli, ma
poi gli studenti li avevano sentiti, li avevano
trovati buonissimi, nessuno era morto, e
così ogni dubbio sulla loro
commestibilità era sparito. Rimaneva il
mistero del donatore: " Forse una buona fatina?..."
aveva ipotizzato il dirimpettaio della signorina
Annalena e a lei era sembrato che per un attimo lui
lanciasse uno sguardo veloce verso la sua finestra,
e si era ritirata in fretta.
-
-
- ***
-
-
- La
signorina Annalena tolse la catenella e aprì
la porta.
- "Buongiorno!"
disse con voce un po' tremante, perché
ancora non si rendeva ben conto di quanto stava
succedendo.
- "Buongiorno
a lei!" rispose un coro di voci.
- "Gionno!
"fece eco il più piccolo del gruppo, in
braccio alla madre.
- "Entrate,
entrate..." disse la signorina
Annalena.
- Il
ragazzino del primo piano entrò velocemente,
seguito dagli altri.
- "Abbiamo
scoperto tutto! È lei la fatina
buona!"
- "Sono
stato io a scoprirlo! L'altra sera stavo mettendo
la catenella alla mia porta per andarmene poi a
dormire, quando ho sentito la sua aprirsi, a
quell'ora mi è sembrato strano, allora ho
guardato dallo spioncino, e ho visto lei, Annalena,
con il sacchettino in mano, che si accingeva a
scendere le scale."
- "Sono
buonissimi i suoi biscotti! Mi da la
ricetta?"
- "Noi
li abbiamo portati anche in
Università!"
- "Lei
è veramente gentilissima!"
- "Neanche
la mia nonna fa dei biscotti così
buoni!"
- "Abbiamo
un regalo per lei. Dai, Paolo dallo alla signorina
Annalena!"
- Tutte
quelle frasi si accavallavano fra loro, creando una
benefica confusione in quella casa abituata al
silenzio. Regalo? pensò la signorina
Annalena, e poi... e poi non sapevo neppure che
conoscessero il mio nome...
- Li
fece sedere nel salotto, non c'erano posti per
tutti, e Paolo e gli studenti si sedettero per
terra. La signorina Annalena si trovò in
mano il pacchettino col fiocco azzurro. Lo
aprì: una scatolina di legno conteneva una
sottile catenella d'argento, con appeso un piccolo
cuore di corallo. Su un bigliettino con tante firme
c'era scritto: " per la signorina Annalena, che
è la gentilezza in persona "
- Gli
occhi di Annalena si riempirono di
lacrime.
- Dopo
un'ora erano ancora tutti lì, a
chiacchierare di tante cose, a sorridere, a
scherzare fra loro; fotografie di paesi lontani
erano sparse sul tavolino.
- Il
piccolo del secondo piano si era addormentato in
braccio ad Annalena, con una guancia appoggiata al
petto della donna, dove la fiammante vestaglia
rossa si era un poco aperta.
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