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               L'isola
               dei piccoli naufraghi Il
               portone era molto largo e pesante, in ferro
               imbiancato, con una piccola feritoia e la targa di
               marmo sbiadito. Quando vi arrivò, il sole era
               caldo e il mare, intorno, accendeva l'aria di blu,
               mentre i gabbiani raccoglievano le ali e si tuffavano
               per pescare. Il carcere era su quella piccolissima
               isola, legata in realtà al promontorio da una
               corta striscia di terra, asfaltata e realizzata
               dall'uomo. Piccolissima, ma bella da togliere il fiato
               e sembrare disegnata direttamente dalla mano di Dio.
               Bussò. Subito dopo diede i suoi documenti, lo
               registrarono, consegnò il telefono e solo
               allora poté entrare, tenendo con sé
               solamente il taccuino e le penne.	Il
               vento era dolce, carico dell'odore di erba selvatica e
               piante. I muri screpolati. Bastarono pochi passi ad
               incontrare Andrea: puliva un corridoio, toccava a lui
               quella mattina. Napoletano, capelli nerissimi,
               carnagione scura e lo sguardo che era l'unica cosa
               davvero da uomo fatto. Aveva una ferita fresca sotto
               l'occhio sinistro. Quando a pranzo si sedette a
               tavola, per primo, tutti gli altri si avvicinarono a
               salutarlo prima di andare a sedersi a loro volta, come
               si fa con i boss.	Non
               sorrideva mai e parlava anche meno. Ma piantava
               duramente gli occhi in viso, senza abbassarli. Era
               entrato lì per rapina, come il padre e il
               fratello maggiore: la sua famiglia era una lunga
               storia di malavita. l'agente di custodia aprì
               la sua cella e Andrea era seduto a una scrivania.
               Copiava su un quaderno poesie e citazioni d'amore da
               un libro: <<Quando ho finito lo regalo alla mia
               fidanzata - disse - È il secondo, uno l'ho
               già regalato a mia sorella che ha
               partorito>>. Andrea aveva compiuto diciassette
               anni da tre mesi. Aveva rapinato e rubato e
               ucciso.	C'erano,
               quel giorno, quarantatré ragazzini nel carcere
               minorile su quella meravigliosa, piccola isola. E
               almeno una trentina di loro continuava a usare droghe
               anche lì dentro, erano le famiglie a procurarle
               e non si trovava modo d'impedirlo, non c'era
               verso.	Varcato
               l'ingresso dell'edificio che era la sezione femminile,
               subito dietro le sbarre e subito dopo aver sentito il
               rimbombo del chiavistello che le inchiodava dietro di
               lui, vide seduta in una stanza una ragazzetta che
               aveva diciassette anni, ma ne mostrava tre o quattro
               meno. Graziosa, esile. Timida. Studiava e ripeteva
               senza alzare troppo la voce qualcosa che doveva essere
               letteratura. Alcuni mesi prima era stata uno dei
               più folli e sanguinari assassini degli ultimi
               anni. Si alzò in piedi, a vederlo passare, e lo
               salutò. Poi sedette di nuovo e riprese a
               leggere il suo libro e ripetere. Lui ne fu colpito:
               aveva letto di quella ragazzina solo sui giornali e
               mai avrebbe potuto immaginarla così. Mentre
               camminava pensò che sarebbe giusto che chi
               arriva a uccidere o commettere pazzie lo avesse in
               qualche modo "scritto" in faccia.	
               La grande cella che ospitava le ragazze aveva le porte
               di acciaio spesse tre dita, ma foderate di legno,
               ormai consumato, probabilmente per non dare almeno
               agli occhi l'impressione che fossero quelle di una
               prigione. All'interno, i copriletti, le tende alle
               finestre, i cuscini e il tappeto li avevano cuciti
               loro stesse nel laboratorio di sartoria al secondo
               piano, come gli spiegò Rosa, la responsabile
               della sezione femminile. E al centro c'era un tavolo
               con un piccolo vassoio pieno di caramelle. Sui
               comodini bigiotteria, pupazzetti, un profumo, un cuore
               rosso di plastica, un santino di Padre Pio. La
               televisione, piccola, in un angolo. Rosa aveva
               cinquantasette anni e da tredici faceva quel lavoro.
               <<Perché sono una mamma>>,
               spiegò. C'era anche un nido, al terzo piano,
               con i giocattoli, il fasciatoio, il box e una
               culletta: <<Le ragazzine nomadi che arrivano
               qui, a volte, sono già mamme anche
               loro>>, gli sussurrò.	Fuori,
               sulla parete esterna della sezione maschile c'era un
               grande murale che vent'anni fa aveva disegnato Hugo
               Pratt: il mare, un uomo che timona una barca a vela e
               gabbiani grandi. C'erano agavi rigogliose, colori
               brillanti di fiori e la sensazione che gli angeli
               capitassero spesso da queste parti. Stava
               attraversando il grande cortile, quando dalla parte
               opposta spuntò Marco, sedici anni. Il ragazzo a
               vedere don Paolo, il cappellano del carcere,
               affrettò il passo e appena raggiunto, gli disse
               con un sorriso: <<I ladri sono più
               fortunati, se vogliono possono smettere>>. Marco
               no. Non più. Era nella camorra, aveva visto e
               sentito già troppo. Sapevano bene, qui dentro,
               che sarebbe rientrato chissà quante altre volte
               e che poi, compiuti i diciotto anni, sarebbe andato a
               conoscere anche il carcere dei grandi che era lontano
               non più di venti o trenta chilometri. Scambiate
               due chiacchiere e salutato il prete, raggiunse la sua
               cella. Ma qualche istante dopo il viso spuntò
               dalla finestra, dietro le sbarre: <<Don Pa' -
               urlò, sigaretta fra le labbra - debbo prendere
               comunione e cresima prima che esco, quando
               cominciamo?>>.	Finì
               di attraversare quel cortile avvolto da nuovi
               pensieri. Entrò in un'altra palazzina e
               salì una rampa di scale. Il biliardo con le
               stecche che erano manici di scope era piazzato nel
               mezzo della sala comune maschile. E sui comodini,
               nelle stanze dei ragazzi, non c'era spazio per vezzi,
               ma - su uno - per un ramoscello di ulivo.	Il
               più giovane di tutti aveva quindici anni,
               basso, napoletano anche lui, simpatico: quando scese
               insieme agli altri nel refettorio, per la merenda,
               pina, la cuoca, gli diede il panino col formaggio
               dicendogli sottovoce, sorridendo, <<tu si 'nu
               buono guaglione>>. Lui le rispose, scherzando e
               aprendo una trattativa per ottenerne un
               secondo.	Lei
               lavorava nel carcere da vent'anni, insieme al suo
               capo, zio Peppe, un uomo dal volto gioviale che
               cucinava per i ragazzi da un quarto di secolo e che
               per il direttore della prigione minorile - che lo
               accompagnava nella visita - era <<la figura
               più importante qui dentro>>. Si era perso
               il conto di quante volte entrambi avevano portato a
               casa i ragazzini una volta usciti di qui. <<Uno
               di loro, diversi anni fa, mi stava per scippare: si
               è bloccato appena mi ha riconosciuto>>,
               ricordò Pina. Nel frattempo zio Peppe non aveva
               smesso di tagliare i pomodori e le verdure per la
               cena, né quel sorriso appena accennato sulle
               labbra. L'acqua bolliva dentro un pentolone e da uno
               vicino saliva odore di sugo appena fatto.	Dopo
               la merenda, ripose il taccuino nella tasca.
               Attraversò lentamente ancora un altro cortile
               riempito di sole. E raggiunse i due posti dove i
               ragazzi erano più felici: la falegnameria e il
               campo di calcetto. In fondo alla prima c'era un
               enorme, magnifico presepe, costruito dai ragazzi
               guidati dal falegname (che era anche "mastro
               presepiaio") e con i pastori che indossavano vestiti
               cuciti dalle ragazze. Il campo invece era a un passo
               dallo strapiombo che si affacciava sul mare. Per
               questo, nonostante il muro altissimo, il carcere
               spendeva un paio di migliaia euro l'anno in palloni. E
               tuttavia <<ci mancano i soldi per pagare le
               bollette>>, gli spiegò il
               direttore.	Era
               ormai quasi buio. I ragazzi stavano cenando, dopo
               essere andati a omaggiare con deferenza Andrea come a
               pranzo. Quasi tutti portavano sulle loro spalle storie
               e famiglie devastate. Restavano lì dentro sette
               od otto mesi, qualcuno raggiungeva i due o tre anni.
               Lui li guardava mangiare e chiacchierare, pensando fra
               sé e sé quanto fosse tremendamente
               difficile addossare loro ogni colpa. pensando che in
               fondo prima si era sbagliato: gli angeli qui c'erano
               già: potevano avere cinquanta o trenta o anche
               quindici anni: alcuni ne avevano trascorsi un bel po'
               aiutando, altri avevano vissuto troppo poco eppure
               già sbagliato troppo e altri ancora per essersi
               comportati da demoni ne avrebbero probabilmente fatto
               la fine.	Don
               Paolo dovette accorgersi di questi pensieri. Gli si
               fece vicino, lo condusse leggermente in disparte senza
               dare nell'occhio e gli sussurrò: <<Troppo
               spesso nessuno ha mai mostrato loro una strada diversa
               da quella del crimine>>. A lui tornarono in
               mente le parole che gli aveva detto una guardia
               carceraria: <<Da qui ne sono passati a centinaia
               e se ne saranno salvati, forse, venti o
               trenta>>. Eppure Pina, zio Peppe, il direttore,
               le guardie stesse, andavano avanti, nonostante
               sconfitte e dolori, cercando di aiutare bambini che si
               credevano uomini furbi.	A
               tarda sera s'incamminò insieme al direttore
               verso il grande portone bianco che separava il carcere
               dal mondo. C'era ancora, nell'aria, quell'odore
               struggente di erba selvatica e la luna rifletteva sul
               mare una lunga striscia d'argento. Aveva preso decine
               di pagine d'appunti ed era convinto che avrebbe
               scritto un articolo del quale al giornale sarebbero
               stati contenti. Ma gli restava dentro ancora un'ombra.
               Immensa.	Arrivato
               il momento di salutarsi, si fece coraggio e lo chiese:
               <<Ma non ti schianta dover lavorare su ragazzini
               dal futuro così già scritto?>>. Il
               direttore riflettè soltanto qualche istante.
               Poi gli tese la mano per stringergliela con una luce
               nel viso che ancora non gli aveva visto:
               <<Perché, tu sei in grado di scommettere
               con certezza sul futuro di un uomo, chiunque esso
               sia?>>. |