Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Pino Ciociola
Con questo racconto ha vinto il decimo premio del concorso Angela Starace 2003, sezione narrativa

L'isola dei piccoli naufraghi
 
Il portone era molto largo e pesante, in ferro imbiancato, con una piccola feritoia e la targa di marmo sbiadito. Quando vi arrivò, il sole era caldo e il mare, intorno, accendeva l'aria di blu, mentre i gabbiani raccoglievano le ali e si tuffavano per pescare. Il carcere era su quella piccolissima isola, legata in realtà al promontorio da una corta striscia di terra, asfaltata e realizzata dall'uomo. Piccolissima, ma bella da togliere il fiato e sembrare disegnata direttamente dalla mano di Dio. Bussò. Subito dopo diede i suoi documenti, lo registrarono, consegnò il telefono e solo allora poté entrare, tenendo con sé solamente il taccuino e le penne.
Il vento era dolce, carico dell'odore di erba selvatica e piante. I muri screpolati. Bastarono pochi passi ad incontrare Andrea: puliva un corridoio, toccava a lui quella mattina. Napoletano, capelli nerissimi, carnagione scura e lo sguardo che era l'unica cosa davvero da uomo fatto. Aveva una ferita fresca sotto l'occhio sinistro. Quando a pranzo si sedette a tavola, per primo, tutti gli altri si avvicinarono a salutarlo prima di andare a sedersi a loro volta, come si fa con i boss.
Non sorrideva mai e parlava anche meno. Ma piantava duramente gli occhi in viso, senza abbassarli. Era entrato lì per rapina, come il padre e il fratello maggiore: la sua famiglia era una lunga storia di malavita. l'agente di custodia aprì la sua cella e Andrea era seduto a una scrivania. Copiava su un quaderno poesie e citazioni d'amore da un libro: <<Quando ho finito lo regalo alla mia fidanzata - disse - È il secondo, uno l'ho già regalato a mia sorella che ha partorito>>. Andrea aveva compiuto diciassette anni da tre mesi. Aveva rapinato e rubato e ucciso.
C'erano, quel giorno, quarantatré ragazzini nel carcere minorile su quella meravigliosa, piccola isola. E almeno una trentina di loro continuava a usare droghe anche lì dentro, erano le famiglie a procurarle e non si trovava modo d'impedirlo, non c'era verso.
Varcato l'ingresso dell'edificio che era la sezione femminile, subito dietro le sbarre e subito dopo aver sentito il rimbombo del chiavistello che le inchiodava dietro di lui, vide seduta in una stanza una ragazzetta che aveva diciassette anni, ma ne mostrava tre o quattro meno. Graziosa, esile. Timida. Studiava e ripeteva senza alzare troppo la voce qualcosa che doveva essere letteratura. Alcuni mesi prima era stata uno dei più folli e sanguinari assassini degli ultimi anni. Si alzò in piedi, a vederlo passare, e lo salutò. Poi sedette di nuovo e riprese a leggere il suo libro e ripetere. Lui ne fu colpito: aveva letto di quella ragazzina solo sui giornali e mai avrebbe potuto immaginarla così. Mentre camminava pensò che sarebbe giusto che chi arriva a uccidere o commettere pazzie lo avesse in qualche modo "scritto" in faccia.
La grande cella che ospitava le ragazze aveva le porte di acciaio spesse tre dita, ma foderate di legno, ormai consumato, probabilmente per non dare almeno agli occhi l'impressione che fossero quelle di una prigione. All'interno, i copriletti, le tende alle finestre, i cuscini e il tappeto li avevano cuciti loro stesse nel laboratorio di sartoria al secondo piano, come gli spiegò Rosa, la responsabile della sezione femminile. E al centro c'era un tavolo con un piccolo vassoio pieno di caramelle. Sui comodini bigiotteria, pupazzetti, un profumo, un cuore rosso di plastica, un santino di Padre Pio. La televisione, piccola, in un angolo. Rosa aveva cinquantasette anni e da tredici faceva quel lavoro. <<Perché sono una mamma>>, spiegò. C'era anche un nido, al terzo piano, con i giocattoli, il fasciatoio, il box e una culletta: <<Le ragazzine nomadi che arrivano qui, a volte, sono già mamme anche loro>>, gli sussurrò.
Fuori, sulla parete esterna della sezione maschile c'era un grande murale che vent'anni fa aveva disegnato Hugo Pratt: il mare, un uomo che timona una barca a vela e gabbiani grandi. C'erano agavi rigogliose, colori brillanti di fiori e la sensazione che gli angeli capitassero spesso da queste parti. Stava attraversando il grande cortile, quando dalla parte opposta spuntò Marco, sedici anni. Il ragazzo a vedere don Paolo, il cappellano del carcere, affrettò il passo e appena raggiunto, gli disse con un sorriso: <<I ladri sono più fortunati, se vogliono possono smettere>>. Marco no. Non più. Era nella camorra, aveva visto e sentito già troppo. Sapevano bene, qui dentro, che sarebbe rientrato chissà quante altre volte e che poi, compiuti i diciotto anni, sarebbe andato a conoscere anche il carcere dei grandi che era lontano non più di venti o trenta chilometri. Scambiate due chiacchiere e salutato il prete, raggiunse la sua cella. Ma qualche istante dopo il viso spuntò dalla finestra, dietro le sbarre: <<Don Pa' - urlò, sigaretta fra le labbra - debbo prendere comunione e cresima prima che esco, quando cominciamo?>>.
Finì di attraversare quel cortile avvolto da nuovi pensieri. Entrò in un'altra palazzina e salì una rampa di scale. Il biliardo con le stecche che erano manici di scope era piazzato nel mezzo della sala comune maschile. E sui comodini, nelle stanze dei ragazzi, non c'era spazio per vezzi, ma - su uno - per un ramoscello di ulivo.
Il più giovane di tutti aveva quindici anni, basso, napoletano anche lui, simpatico: quando scese insieme agli altri nel refettorio, per la merenda, pina, la cuoca, gli diede il panino col formaggio dicendogli sottovoce, sorridendo, <<tu si 'nu buono guaglione>>. Lui le rispose, scherzando e aprendo una trattativa per ottenerne un secondo.
Lei lavorava nel carcere da vent'anni, insieme al suo capo, zio Peppe, un uomo dal volto gioviale che cucinava per i ragazzi da un quarto di secolo e che per il direttore della prigione minorile - che lo accompagnava nella visita - era <<la figura più importante qui dentro>>. Si era perso il conto di quante volte entrambi avevano portato a casa i ragazzini una volta usciti di qui. <<Uno di loro, diversi anni fa, mi stava per scippare: si è bloccato appena mi ha riconosciuto>>, ricordò Pina. Nel frattempo zio Peppe non aveva smesso di tagliare i pomodori e le verdure per la cena, né quel sorriso appena accennato sulle labbra. L'acqua bolliva dentro un pentolone e da uno vicino saliva odore di sugo appena fatto.
Dopo la merenda, ripose il taccuino nella tasca. Attraversò lentamente ancora un altro cortile riempito di sole. E raggiunse i due posti dove i ragazzi erano più felici: la falegnameria e il campo di calcetto. In fondo alla prima c'era un enorme, magnifico presepe, costruito dai ragazzi guidati dal falegname (che era anche "mastro presepiaio") e con i pastori che indossavano vestiti cuciti dalle ragazze. Il campo invece era a un passo dallo strapiombo che si affacciava sul mare. Per questo, nonostante il muro altissimo, il carcere spendeva un paio di migliaia euro l'anno in palloni. E tuttavia <<ci mancano i soldi per pagare le bollette>>, gli spiegò il direttore.
Era ormai quasi buio. I ragazzi stavano cenando, dopo essere andati a omaggiare con deferenza Andrea come a pranzo. Quasi tutti portavano sulle loro spalle storie e famiglie devastate. Restavano lì dentro sette od otto mesi, qualcuno raggiungeva i due o tre anni. Lui li guardava mangiare e chiacchierare, pensando fra sé e sé quanto fosse tremendamente difficile addossare loro ogni colpa. pensando che in fondo prima si era sbagliato: gli angeli qui c'erano già: potevano avere cinquanta o trenta o anche quindici anni: alcuni ne avevano trascorsi un bel po' aiutando, altri avevano vissuto troppo poco eppure già sbagliato troppo e altri ancora per essersi comportati da demoni ne avrebbero probabilmente fatto la fine.
Don Paolo dovette accorgersi di questi pensieri. Gli si fece vicino, lo condusse leggermente in disparte senza dare nell'occhio e gli sussurrò: <<Troppo spesso nessuno ha mai mostrato loro una strada diversa da quella del crimine>>. A lui tornarono in mente le parole che gli aveva detto una guardia carceraria: <<Da qui ne sono passati a centinaia e se ne saranno salvati, forse, venti o trenta>>. Eppure Pina, zio Peppe, il direttore, le guardie stesse, andavano avanti, nonostante sconfitte e dolori, cercando di aiutare bambini che si credevano uomini furbi.
A tarda sera s'incamminò insieme al direttore verso il grande portone bianco che separava il carcere dal mondo. C'era ancora, nell'aria, quell'odore struggente di erba selvatica e la luna rifletteva sul mare una lunga striscia d'argento. Aveva preso decine di pagine d'appunti ed era convinto che avrebbe scritto un articolo del quale al giornale sarebbero stati contenti. Ma gli restava dentro ancora un'ombra. Immensa.
Arrivato il momento di salutarsi, si fece coraggio e lo chiese: <<Ma non ti schianta dover lavorare su ragazzini dal futuro così già scritto?>>. Il direttore riflettè soltanto qualche istante. Poi gli tese la mano per stringergliela con una luce nel viso che ancora non gli aveva visto: <<Perché, tu sei in grado di scommettere con certezza sul futuro di un uomo, chiunque esso sia?>>.

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 Ins. 15-12-2003