- Ancora
un errore
-
- Lorenzo
è il mio maestro e non è che un
ragazzino. Mi diverte tantissimo l'idea di imparare
cosa da un ragazzino. Ancora di più, mi diverte
il modo in cui si arrabbia di fronte ai miei errori.
La sua rabbia è eccessiva, e quanto più
aumenta tanto più cresce il mio divertimento.
Cerco di trattenere le risate, le infilo in un sorriso
appena accennato, spero che i baffi nascondano
abbastanza la mia bocca.
- Le
nostre lezioni sono cominciate circa un anno fa, ma
non siamo andati oltre l'apertura. Non ho fatto che
commettere errori, ogni volta diversi.
- Lorenzo
non riesce a capire il motivo di questo fallimento e
allora insiste, perché deve essersi convinto
che il problema sia in lui.
- Se
gli dicessi che a casa non mi esercito neanche un po'
il gioco finirebbe e si arrabbierebbe sul
serio.
- Io
ho più di trent'anni e degli scacchi non me ne
frega nulla.
- Da
bambino pensavo che fosse il gioco più
affascinante del mondo e, reputandomi tutti una specie
di genio, credevano che sarei stato uno di quei
talenti da film.
- Eravamo
una famiglia povera e ci prendevamo pochi lussi. Ma
mia madre un mattino di settembre seppe che un mio
cugino più grande mi aveva insegnato a giocare
a scacchi durante le vacanze. Così mi
accompagnò in un negozio di giocattoli e me ne
comprò una confezione. Ero contentissimo:
camminavo fiero, stringendo tra le mani quella scatola
marrone. Dentro c'era la scacchiera di cartone
colorato e i pezzi di plastica che tintinnavano. Mi
ripetevo: <Questa è la prima cosa
mia>.
- Continuo
a sbagliare, e la cosa incredibile è che non lo
faccio apposta. Stavolta ho sbagliato alle terza
mossa. Lorenzo neanche parla. Credo stia cercando le
parole per spingermi a capire. È bello pagare
qualcuno per arrabbiarsi con te.
- <Forse...>,
riesce appena a dire e poi tace.
- Sorrido,
mi nascondo sotto i baffi.
- <Forse
non me ne frega nulla>, sto per dirgli, ma mi
spiace essere così maleducato con lui. Allora
lo assecondo, nascondo la mia ilarità dietro la
maschera dell'imbarazzo: <No, stavolta è
solo un errore di distrazione, credimi. Riproviamo e
vedrai che non lo faccio più>.
- Distende
il volto e sorride paziente, perché sa di non
avere colpe della mia distrazione. <Va bene, allora
ricominciamo>.
- Mi
dirà mai che si è stancato? Si
accorgerà mai che mi diverto solo a vederlo
disperato? A volte credo che lo sappia benissimo, ma
il bisogno di denaro e la devozione a questo gioco lo
costringono a subirmi. Questo pensiero mi diverte
ancora di più.
- Vengo
al circolo tre volte la settimana, la sera, dopo aver
finito di lavorare. Oggi è venerdì,
l'ultimo giorno della settimana, e questo
m'intristisce perché fino al prossimo
lunedì non avrò altro modo di distrarmi.
Non frequento altre persone al di fuori del lavoro,
non vedo mai nessuno. Venir qui mi
rilassa.
- Lorenzo
si è offerto tante volte di venire a farmi
lezione a casa, ma ho sempre preferito raggiungere il
circolo. Amo profondamente la lunga passeggiata che
devo fare per arrivare fin qui.
- Faccio
sempre la strada più lunga. La prima volta la
feci per caso: era l'unica che conoscessi. Poi facendo
quella più breve ho scoperto quanto fosse
più bello fare l'altro percorso.
- Arrivo
nella grande piazza del Duomo, percorro la piazzetta
retrostante tutta ornata di mattoncini rossi e getto
uno sguardo al salone dell'Auditorium. È un
teatro dallo stile avveniristico, costruito sotto il
livello della piazza con il tetto che coincide con la
strada. Quando ci sono dei concerti alcuni uomini
hanno il compito di evitare che la gente cammini sul
cupolotto della sala. Questi signori, dipendenti
stessi del teatro, hanno la faccia dura e nervosa,
costretti come sono a passare rigide sere di freddo,
fermi nello stesso posto a richiamare i passanti
distratti. Certe volte cammino radente solo per farmi
richiamare: <Prego signore, di qua, c'è un
concerto in corso>. Chissà se mi riconoscono
e se pensano che sia un idiota a far sempre lo stesso
errore. <Oh, certo. Non sapevo>, rispondo
ipocrita. Loro, con espressione seccata, tornano al
proprio posto.
- Oltrepasso
la piazzetta e arrivo al grande Ponte degli
Imperatori. La visione larga del fiume mi apre il
cuore. Vederlo al crepuscolo mi emoziona, e vorrei
qualcuno al mio fianco per dirgli che i fiumi non sono
tutti uguali.
- Questo
è straordinario: dolce, come ammaestrato da
tutte le chiatte che lo solcano, denso di odori, di
legna bruciata, di sabbia umida e di un qualcos'altro
che non voglio neanche capire cosa sia. Quel
"qualcos'altro" forse è solo il suo odore e
basta. Il suo color grigio e verde è l'immagine
stessa del suo silenzio.
- Mi
perdo in tutte le sue sfumature quando attraverso il
ponte ed è ancor più bello tremare
quando il treno mi passa di lato o quando qualcuno
correndo ne fa vibrare la superficie di
asfalto.
- Arrivo
alle soglie del parco e lo percorro tutto per gustare
il più a lungo possibile il fiume. Tutte le
sere incontro un signore con il suo cane: è un
uomo anziano e indossa sempre una tuta e delle scarpe
da ginnastica, il suo cane gioca come un bambino nel
fiume. Non conosco il loro nome ma li saluto entrambi.
L'uomo ricambia il saluto con simpatia, il cane drizza
appena le orecchie.
- A
volte il tragitto mi stanca e mi pento di non aver
fatto l'altro percorso, soprattutto quando costeggio
il grande centro congressi della città, a
quell'ora vuoto. È un palazzone di pietre rosse
circondato da un parcheggio: la sua visione di sera mi
intristisce sempre un po'. Passo sotto al ponticello
della metropolitana e arrivo nella piazzetta della
stazione, a quell'ora piena di studenti. Lì
finisce l'incanto e mi avvio ad un'altra serata di
errori. Quando entro nel circolo sono già pago
della lunga passeggiata serale e se non ci fosse
Lorenzo che si arrabbia tornerei presto a casa, il
tempo di bere un tè. Ma poi mi dico, a casa
non c'è nessuno. Non c'è niente. Rimango
lì.
- <Mi
raccomando però, cerca di stare
concentrato!> mi dice Lorenzo con espressione
paterna, mentre riordina con cura i pezzi sulla
scacchiera.
- Stavolta
voglio sorprenderlo e allora tento veramente di far
bene. Riprendo con la solita apertura di
Re.
- Lorenzo
si fa serio come se dovesse sfidarmi: <Osserva bene
lo schema della difesa Siciliana>.
- Annuisco
ben intenzionato, ma quando dice Siciliana, non riesco
in alcun modo a pensare a qualcosa di tattico: la mia
mente mi tradisce ancora e fugge al ricordo della
pasta alla siciliana che mia madre cucinava nei giorni
di festa. Così mi confondo di nuovo, riuscendo
a ricordare appena che devo muovere il cavallo, ma non
so che altro fare. La mia apertura si arena per
l'ennesima volta alla seconda mossa.
- Lorenzo
fa la solita smorfia, ma non dice nulla. Temo si sia
un po' stancato della mia incapacità. <Non
ci siamo proprio> mi fa sorridendo.
- Non
mi piace che non si arrabbi, mi lascia
spiazzato.
- <Riproviamo
ancora una volta, starò più attento>,
insisto ingenuo.
- Mi
guarda, ma poi il suo sguardo va oltre e lo vedo
sorridere. Mi volto e vedo la sua ragazza. È
davvero brutta, ha un volto che vive unicamente in
funzione del suo orribile naso. E poi per me è
ancora più brutta perché so che quando
arriva lei, Lorenzo deve andare via e che la nostra
lezione è finita. Lui mi sorride un po'
impacciato. Deve dirmi qualcosa. <Non va proprio e
credo che dovresti lasciar stare>, dice veloce, per
non darmi il tempo di interrompere. <Ci sono
sicuramente cose che puoi far meglio>, ora il
ragazzino mi sento io. <Comunque mi fa piacere
averti conosciuto. Scusami se sono brusco ma ora devo
proprio andare>.
- Mi
offre la mano per salutarmi da uomo, da avversario
leale.
- Vorrei
sbattere i piedi come un bambino e dirgli che
finché pago deve continuare, ma quella sua mano
tesa mi costringe ad arrendermi.
- Credo
che abbia ragione: dovrò rassegnarmi a fare
qualcos'altro. Questo gioco è
finito.
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