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               Grembi C'era solo una
               finestra. Era chiusa, nevicava. I fiocchi sbattevano
               contro i vetri e muti ricadevano sul davanzale
               sciogliendosi in gocce d'acqua.C'era odore di
               muffa, scure macchie di umido dipingevano le pareti.
               Dal soffitto penzolava un filo verde con una lampadina
               spenta. L'intonaco era scrostato e cadeva a piccole
               gocce di cemento sul pavimento. Una brandina con un
               materasso dormiva in un angolo buio.Marco non
               arrivava.Ero stanca di
               cercare. Tutte le altre case le avevo scartate: erano
               troppo costose, e da quando avevo lasciato il lavoro
               in fabbrica non potevo permettermi granché,
               nonostante avessi messo da parte una somma discreta.
               Era stato il signor Braschi a consigliarmi quella
               casa. Il padrone era un suo intimo amico e sicuramente
               mi avrebbe aiutata.Gli stivali
               lasciavano tracce scure sul pavimento, dove giaceva
               uno spesso strato di polvere bianca. Era tutta
               lì, quella casa. In quella stanza colorata di
               muffa, un piccolo bagno, una finestra chiusa. Eppure
               mi aveva già inghiottita: ero nel suo
               stomaco.Non c'era
               più tempo per cercare, alla fine lei mi aveva
               scelta. Era così vicina al negozio, così
               poco costosa. Così necessaria nel suo essere
               scarna. E la pancia era già tonda. Accarezzai
               la sua pelle sottile e mi accorsi di quanto grande
               fosse già il mio bambino.La schiena
               bruciava, le gambe non reggevano il pancione. Mi
               sedetti tra la polvere bianca, di fronte a quell'unica
               finestra. Nel grembo della nuova casa. Perché
               la neve continuava a cadere sui vetri? Sapevo che quel
               posto avrebbe visto crescere la mia piccola famiglia e
               mi aspettavo che in qualche modo il mondo decidesse di
               fermarsi in un sospiro sospeso di attesa mentre,
               meravigliato, guardava la mia vita
               cambiare.Piansi. Il bambino
               prendeva a calci la pancia. La neve graffiava.
               Dondolavo avanti e indietro, i capelli oscillavano
               insieme al mio corpo. Succhiava il sale dalle mie
               lacrime, le dita si attorcigliavano come nodi in una
               rete. Come avrei eliminato le macchie di umido? E
               l'odore di muffa? Come avrei riempito tutto quel
               vuoto?La stanza pulsava
               di un proprio respiro. Mi fissava con quella sua
               grande finestra, come un occhio che guarda all'interno
               piuttosto che fuori. Mi spaventava l'idea che
               lì dentro avrei visto nascere i nostri ricordi.
               I giorni mi precipitavano addosso: non potevo
               più vivere in pensione, non avevo soldi, il
               bambino sarebbe nato fra pochi mesi. Era quello il
               momento in cui la realtà inghiottisce i sogni.
               Lo sentivo sulla pelle, nel cervello.Asciugai le lacrime
               con le mani sporche. La polvere bianca si
               appiccicò sulle guance e rimase lì, a
               tirarmi la pelle.«Mamma».
               Dissi ad alta voce, immaginando la voce del mio
               bambino che pronunciava il mio nuovo nome.
               «M-a-m-m-a» ripetei.La casa non
               produceva nessuna eco. E la melodia della "emme",
               così gonfia nel suo suono, da sembrare di
               rinchiudere già tutto un progetto di amore
               nella semplicità del suo essere lettera,
               sbatteva contro le pareti umidicce, per poi ricadere a
               terra, inutile.Mi avvicinai alla
               finestra. La casa affacciava su una piccola strada, a
               pochi metri dalla piazza. Guardava quel paese di
               montagna a me estraneo accucciato nella sua valle
               sicura, come una perla nel grembo della sua ostrica.
               Quel paese che mi aveva adottata e protetta. Tra la
               neve che fioccava, a stento riuscii a scorgere la
               croce verde di una farmacia che lampeggiava ad
               intermittenza. Affianco c'era il negozio di fiori dove
               lavoravo. Il signor Braschi mi aveva assunta quando
               avevo lasciato il lavoro in fabbrica, non appena gli
               dissi che nella mia città non avevo più
               niente e nessuno.Avevo solo voglia
               di scappare da quello che era successo. Gli avevo
               detto che aspettavo un bambino. Era un uomo massiccio,
               sempre avvolto nella sua giacca a vento arancione. La
               barba lunga, grigia. Aveva gli occhi caldi come una
               tazza di brodo. Ora stava addobbando la vetrina del
               suo negozio con vasi di bizzarri bonsai.Fuori al negozio
               una vecchietta avvolta in uno scialle grigio camminava
               lungo il marciapiede. Portava una grossa borsa per la
               spesa. Camminava spedita, vedevo i piedi affondare
               nella neve. Attraversò la strada, si
               avvicinò ad un portone di ferro battuto.
               Aprì il cancello e scomparì nella sua
               casa. Spesa fresca e pranzo caldo per il suo marito
               nonnino. Chissà cosa prova il cuore quando
               invecchia con un altro cuore.Spostai lo sguardo.
               La neve sembrava nebbia. Catturava le strade e
               agguantava i contorni delle case, facendo precipitare
               il mondo in una realtà che sembrava vera solo
               in apparenza.Mi sembrò di
               vedere Marco camminare sul marciapiede sotto casa.
               Aveva il suo berretto nero scolorito e socchiudeva gli
               occhi per proteggerli dalla neve. Spingeva un
               passeggino blu a stelle bianche che slittava sulla
               strada e le sue ruote lasciavano profonde strisce
               bagnate. Dove aveva preso quel passeggino? Lo vidi
               attraversare la strada e dirigersi verso la casa. In
               quella trasparenza ovattata, Marco, col suo passeggino
               blu, pareva l'unico essere umano che camminava sulla
               Terra.Sarebbe stato qui
               tra pochi secondi. Fra un quarto d'ora sarebbe
               arrivato il proprietario della casa per discutere
               dell'affitto e per firmare il contratto. La neve
               continuava a cadere ed io non sapevo che
               fare.Forse dovevo
               scappare. Avrei potuto allontanarmi dalla finestra e
               raggiungere la porta. Aprirla, scendere le scale,
               uscire dal portone. E farmi congelare dal freddo.
               Lasciare che il mio corpo si addormentasse sotto la
               neve. Ma Marco entrò proprio in quel momento.
               La faccia rossa di freddo, le ciglia bianche di neve
               ed il suo cappellino nero tutto inzuppato. Ci
               guardammo, lui sorrise, io lo fissai negli
               occhi.«Hai
               pianto», affermò. Con la mano
               ripulì la mia guancia dalla polvere bianca
               appiccicata. «Guarda, ho recuperato un
               passeggino, me lo ha dato un mio collega: il suo
               bambino è cresciuto». Spinse il passeggino
               nella casa, e le ruote lasciarono strisce bianche tra
               la polvere del pavimento. Notai che all'interno c'era
               un pacchettino marrone.«Ho portato
               qualcosa da mangiare e da bere», mi disse. Come
               al solito, Marco era affamato. Dal sacchetto marrone
               prese un panino che ancora fumava. Addentò il
               pane, riconobbi il rosso del pomodoro ed il verde
               dell'insalata. Qualche briciola scura e una macchia di
               maionese gli rimase appiccicata sulle labbra. Con la
               lingua la raccolse e continuò a
               mangiare.Ritornai alla
               finestra a guardare fuori. La neve sembrava stesse
               cadendo con più violenza. Come se precipitasse
               da un cielo molto più alto.Era tutto quel
               bianco ad imbrogliare i pensieri. A renderli deboli e
               facile preda dell'immaginazione...Mi parve di sentire
               il rumore frizzante di una lattina che si stappa, e
               vidi Marco sorseggiare della birra scadente con le
               labbra appiccicate sulla latta. Si asciugò la
               bocca con un fazzoletto di carta. Tolse il berretto e
               si spettinò i capelli con la mano.La sua faccia era
               quella di sempre. La pelle chiara, le lentiggini sul
               naso sottile, le prime, timide rughe agli angoli della
               bocca. Cercai sulla sua pelle i motivi per cui mi ero
               innamorata di lui.Mi venne vicino e
               guardò anche lui dalla finestra. I nostri
               respiri si posavano sul vetro trasformandosi in
               macchie di vapore bianco. La neve aveva cancellato
               ogni cosa. Il mondo intrappolato in quella finestra,
               era bianco e piatto. Non riuscivo a scorgere nemmeno
               le persone, nemmeno le macchine. Né l'insegna
               della farmacia, né il fioraio. Come una ladra
               aveva rubato tutto.Marco si
               inginocchiò. Mi abbracciò e
               appoggiò la guancia sul mio pancione. Sentii
               che borbottava qualche stupida parola a suo figlio,
               che se ne stava beato nel suo nido di acqua a prendere
               a calci la madre. Marco gli aveva parlato già
               altre volte. Era convinto che in questo modo il
               bambino si sentisse meno solo. Continuò a
               sussurrare, aveva gli occhi chiusi, sentivo il respiro
               caldo soffiarmi sulla pancia, avvertivo le sue labbra
               muoversi sulla mia salopette. Mi strinse più
               forte. Sentii il suo viso affondare nella carne.
               «Dimmi, perché hai
               pianto?»Con un movimento
               goffo mi sedetti per terra. Appoggiai la schiena
               contro la parete, e rimanemmo tutti e due così,
               seduti sotto l'enorme finestra. La casa, da quella
               prospettiva, aveva un altro aspetto. Sembrava
               più timida senza quell'occhio di vetro, ma
               anche più povera, come se avesse vergogna di se
               stessa.In tutto quel
               vuoto, l'odore di Marco galleggiava, sembrava anche
               più forte, come non l'avevo mai sentito.
               Appoggiai la testa alle sue gambe, stendendomi sulla
               schiena, e da lì riuscii a vedere tutto il
               soffitto della casa. La pittura scrostata e le macchie
               di umido sembravano nuvole nere che disegnavano ombre
               fantasiose come nei giochi dei bambini.Chiusi gli occhi.
               Polpastrelli soffici toccarono la mia pelle, premendo
               sulla carne tra le pieghe del collo. Le sue dita
               divennero scintille che incenerivano i pensieri.
               Quando lui mi toccava era come una fusione. Ne sentivo
               il calore, anche in quel momento...... forse stavo
               impazzendo.Marco mi fissava.
               Chinò la testa da un lato, con i denti si morse
               le labbra, come faceva sempre. Mi guardò con
               gli occhi attenti, con quel suo atteggiamento di
               pacata comprensione. Ecco perché amavo Marco.
               Lo avevo assorbito, così come lui aveva
               assorbito me: ogni suo gesto mi era così
               famigliare da diventare necessario. Lo capivo adesso,
               quando la familiarità del suo amore respirava
               solo attraverso i ricordi. «Non devi
               piangere», mi disse.Aprii bruscamente
               gli occhi quando qualcuno bussò alla porta. Un
               uomo sulla cinquantina, con un cappello di lana
               ricoperto di neve, entrò a grandi passi nella
               casa. Mi alzai lentamente, e lasciai che l'uomo mi
               stringesse la mano.Era il padrone di
               casa. Mi salutò sorridendo e cominciò a
               parlarmi delle clausole del contratto, a farmi leggere
               fogli su fogli. Mentre parlava aveva il vizio di
               gesticolare animatamente, sembrò quasi che quel
               suo tanto dimenarsi potesse riempire tutto quel
               vuoto.Notai che con
               sé aveva portato un piccolo tavolo, delle
               scatole di cartone ed un fornello da
               campeggio.«Che
               cos'è quella roba?», chiesi.«Ah! Io non ne
               ho più bisogno. Ho pensato che a lei potrebbe
               essere utile. Almeno per il momento. Nelle scatole ci
               sono delle lenzuola e delle coperte», lo disse
               così, con un sorriso semplice, senza aspettarsi
               niente in cambio. Mi commossi.L'uomo
               sfregò le mani tra loro: «A casa dovrei
               avere anche una stufa elettrica. È bella grande
               e anche abbastanza nuova. La porterò qui
               stasera».Sorrisi, e chinai
               la testa prima di scoppiare in lacrime.«Mia moglie
               l'ha invitata a cena questa sera. Mi farebbe piacere
               se venisse».«Lei è
               molto gentile».L'uomo si strinse
               nella giacca e mi fissò con uno sguardo timido:
               «Se ha bisogno di qualcosa, noi siamo a sua
               disposizione».Non riuscii a
               sussurrare nemmeno un grazie. Mi avvicinai alla
               finestra, piangevo.«Mi dispiace
               per l'incidente... per suo marito», la sua voce
               si spense, imbarazzata.Avrei potuto dirgli
               che Marco non aveva avuto il tempo di diventare mio
               marito. Ma non cambiava nulla. Invece gli dissi:
               «La ringrazio molto, per il suo aiuto».
               Tirai su con il naso, mentre le lacrime cascavano.
               «Mio figlio sta per nascere. Devo darmi da
               fare».La neve adesso
               cadeva leggera, fiocchi piccoli come chicchi di
               sabbia. Il mondo aveva riacquistato i suoi colori.
               Riuscivo a vedere chiaramente l'insegna verde della
               farmacia, i clienti che compravano i bouquet di fiori
               nel negozio del signor Braschi.La gente
               passeggiava sottobraccio sorridendo, il paese
               respirava aldilà di quella finestra chiusa. La
               aprii e inghiottii l'aria gelida. Oltre le montagne, i
               raggi di sole cominciarono a rischiarare la
               valle. |