Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Simonetta Pozzati
Con questo racconto ha vinto l'ottavo premio al concorso
Fonopoli - Parole in movimento 2003, sezione narrativa

Indaco
 
Indaco. Né blu né viola. Due gocce di colore rubate all'ultimo arcobaleno passato su quella terra sconosciuta. I suoi occhi, bellissimi, unici, potenti. Tutto il resto non ha alcun peso, nessuna definizione, nessuna ragione d'esistere. Li fisso e non posso fare a meno di guardare. È come se udissi un richiamo irresistibile, un'attrazione antica. Mi avvicino e continuo a cercare. Allungo il collo quasi potessi vederci dentro. La curiosità mi fa tornar bambina. Dimentico la differenza, il pericolo dell'ignoto, l'odore amaro della delusione. Mi sento leggera, felice, impaziente. Fame e sete si trasformano nel desiderio di plasmarmi in una cosa sola ed unica con le pietre preziose di questa roccia incantata. Sorda al richiamo della razionalità, tutto ciò che conta adesso è vivere questo momento. L'afferro con la forza della passione. Mi butto, m'immergo nelle sue acque scure. Sono il cielo che sovrasta il mondo, la terra che si riscalda al sole, l'oceano che si estende oltre l'infinito. Non ci sono limiti, confini, barriere. È il fiume che spacca la diga, la montagna che partorisce il fuoco, il vento che rapisce la natura. Le mie braccai sono rami carichi di foglie e fiori che s'intrecciano con le sue in una continuità calda e morbida come la sabbia al tramonto. La mia pelle, la sua pelle, la superficie riflettente di un calice pieno d'assenzio. Nulla ci divide. Nessuna domanda, nessun passato, nessuna identità. Ciò che è certo, tangibile è questa sintonia, immediata, assoluta. Potremmo vivere così. Soli, uno di fronte all'altra. Io, lui, io. Io, con la mia antica disperazione, la mia proverbiale fragilità. Lui, con la sua essenza, la sua silenziosa accettazione, il suo garbato distacco. Continuo a cercare. I suoi occhi ora sono diversi, opachi.
Mi arrabbio con il colore di queste pareti sconosciute, di queste lenzuola sgualcite. cerco. Non siamo più soli. C'è la paura, l'imbarazzo, lo scoprirci nudi senza alcun pretesto dietro il quale nasconderci. Sorrido sicura di non essermi sbagliata. È lui il pozzo entro il quale va a finire l'arcobaleno. È lui il porto sicuro dove ancorare la mia barca sopravvissuta all'ultima tempesta. Accarezzo le sopracciglia color ebano e seguendo quella linea irregolare lascio che il mio sguardo penetri nel suo, come un gabbiano che spicca il volo e diventa un puntino bianco che si confonde nell'infinito. Ho spiegato le ali e mi lascio trasportare in questa danza silenziosa. Fluttuo, sogno, desiderio. Non ci sono parole. Solo i nostri pensieri che esplodono all'unisono.
A mano a mano che la luce trasforma le cose in una serie indefinita di oggetti privi di colore, sento crescere in me la paura di prima. Di nuovo quell'imbarazzo, di nuovo quell'urgenza di sapere, chi siamo, da dove veniamo, a chi apparteniamo e soprattutto da chi andremo una volta raccolti i nostri stracci incapaci di giudizio. Lo guardo ed ora vedo riflessa nelle sue pupille tutta la mia fragilità. Vorrei cancellare questa immagine così familiare ed aggrapparmi alla lancetta dei secondi. Ogni sforzo è inutile, la lancetta è inafferrabile, la sensazione di paura incontenibile. Per la prima volta da quando abbiamo smesso i panni di due perfetti sconosciuti, ci ritroviamo distanti, come se il linguaggio che non abbiamo mai usato, appartenesse a due mondi diversi, a due culture opposte. Odo la sua voce. Odo il suo nome. Sono ancora in tempo per fuggire, per conservare il ricordo di questo pomeriggio irripetibile. Ma lui continua. Ha bisogno di dirmi chi è, cosa fa nella vita e, cosa ancor più amara, per chi lo fa.
Mentre le sue parole m'investono con la forza di uno sciame d'api, cerco di sopravvivere a quell'impatto nascondendomi dietro l'illusione che tutto questo non sia mai accaduto.
E invece no. Le api arrivano, dieci, cento, mille. Si accaniscono su di me ed ogni loro singola puntura è una lancia piena di veleno che va dritta al cuore. Urlo al cielo tutta la mia disperazione ma dalla bocca non esce alcun suono. Sono diventata una statua di pietra, una zolla di terra rinsecchita al sole, il tronco di una quercia incenerita dal Fulmine. Urlo ma i suoi occhi non odono alcun lamento, il suo giovane cuore, alcuna compassione.
 
Venezia ho imparato ad amarla solo adesso, a poche ore dalla mia partenza. È da cinque giorni che insieme a lei, ed alla promessa che ci lega per tutta la vita, camminiamo per calli e campielli, visitiamo musei e palazzi e scopriamo il Canal Grande sotto una luna splendente. È lì che l'ho vista per la prima volta. Il suo sguardo così insistente mi ha preso alla sprovvista. Jasmine non s'è accorta di nulla. Si sente deliziosamente protetta dalla mia presenza al suo fianco. La sua ingenuità è una pianta sempreverde che non teme le torride estati né le improvvise gelate invernali. Dall'angolo di quella parete continua a guardarmi. Mi chiedo se per caso le ricordo qualcuno tanta è l'insistenza con cui mi fissa. Jasmine si allontana unendosi ad un gruppo di turisti giapponesi. Io invece rimango qui confuso in questa apparente immobilità. Fingo di seguire dei particolari sul mosaico ultramillenario che sovrasta la mia testa ed uso questo banale pretesto per avvicinarmi a lei. Abbasso lo sguardo e lei è già qui, di fronte a me ad aspettarmi con un sorriso caldo e rassicurante. Mi prende le mani e questo contatto così intimo mi riporta ad una familiarità che però fatico a ricordare. La sua pelle morbida è di un colore ambrato, i suoi occhi faville di lava incandescente. Mai ho visto tanta beltà. Continua a guardarmi ed è così vicina che posso sentire il suo respiro, il suo profumo. Non ho tempo per chiedermi cosa sto facendo perché la follia di questo momento ha trasformato la mia vita di alcuni istanti fa nel desiderio presente ed immediato di stare con lei. Chi sei? Da dove vieni? Quale volontà divina ti ha privato delle ali e ti ha fatto cadere qui, ora? La interrogo con l'irrequietezza del mio animo frastornato e per la prima volta mi accorgo di non aver mosso le labbra. Nemmeno lei parla. L'unico suono udibile è il pulsare delle nostre vene. Il piacere che provo a guardarla è così forte che sento di doverla baciare. Ignaro di chi mi sta aspettando a pochi passi, bacio quelle labbra sconosciute con l'impeto di un assetato d'amore. Mi aspetto resistenza, rifiuto, allontanamento. Invece no. La dolce sensazione che provoca il vino quando scorre veloce trasformando un banale appagamento della sete in un gioioso momento di piacere è solo una delle mille emozioni che ho appena assaporato. Mi allontano quel poco per guardarla nuovamente. Sento crescere in me una forza che non sapevo di avere. La voglia disperatamente. Subito adesso. Capisco dal suo respiro che anche lei desidera la stessa cosa. La prendo per mano e come un soldato che fugge di giorno da una postazione nemica, esco da quella prigione dorata senza destare alcun sospetto. Nessuna esitazione, nessun rimpianto. Ora è lei a guidare me. Corriamo lungo la galleria che fa da cornice a questa piazza salottiera testimone del nostro peccato e come gatti randagi che hanno appena rubato un'alice salata dal retrobottega di qualche trattoria, ci infiliamo nell'atrio buio di un palazzo antico. Salgo le scale seguendo il suo corpo minuto e prima ancora di chiedermi dove mi trovo, di nuovo i suoi occhi mi fissano conun'intensità che mi avvolge, mi plasma, mi unisce a lei istintivamente, senza parole, domande, spiegazioni. Dimentico l'ora, la fede al dito, Jasmine. Adesso c'è lei, il suo corpo, il suo odore, le sue labbra, i suoi occhi. E poi nient'altro che quiete. Guardo il soffitto e mi accorgo dal colore sbiadito di quelle facce paffute dipinte almeno tre secoli fa che il sole sta per tramontare. All'improvviso sento il bisogno di chiederle come si chiama. Non c'è risposta. Appena udite le mie parole i suoi occhi sembrano quelli di un cucciolo impaurito. Sorrido ma continuo a parlare. Lei scuote la testa come una bambina cocciuta che non vuole ascoltare. Provo tenerezza ma comunque devo andarmene. Jasmine è la donna che amo, che ho sposato una settimana fa. Jasmine... Ora nei suoi occhi leggo disperazione. Mi spiace, le dico, non posso restare. Mi sento un idiota, un perfetto cretino. Perché ho permesso che questo accadesse? Perché l'ho baciata, l'ho seguita e l'ho amata? Lei è china sul bordo del letto sfatto. Mi volta le spalle in silenzio. Scruto la sua schiena in cerca di un segno. Dove sono le tue ali? Forse gli angeli non hanno voce. Abbasso la maniglia della porta e senza far rumore esco dalla sua vita per sempre.

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 Ins. 17-01-2004