Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Simonpietro Veronese
Con questo racconto ha vinto il nono premio nella settima edizione del Premio Letterario Internazionale Il Club dei Poeti 2003
Il mercante di fiori
 
Mi chiamo Plisky. Buffo nome, vero? Mio padre lo lesse chissà dove, gli piacque, e non ci pensò due volte prima di affibbiarmelo per tutta la vita. All'inizio non mi piaceva molto, ma col tempo mi ci sono abituato. Che lavoro faccio? Che lavoro potrebbe fare uno con il nome come il mio? No, niente di strano. Sono un fioraio, anche se mi piace definirmi un mercante di fiori. È molto poetico e sottilmente scaltro al tempo stesso, e se ci pensate bene, sembra il nome di una figura di un mazzo di carte.
I miei se ne sono andati da tanto tempo. Non ho fratelli, né sorelle. Non ho una moglie, né tantomeno figli. Non ho amici, e nemmeno un animale domestico da accudire. Ma ho i miei fiori. Quando lavoro vendo i fiori, e quando non lavoro regalo i fiori. E non occorre fondersi le meningi per capire quali sono le uniche persone che meritano un omaggio così prezioso. I morti.
Appena finisco il mio giro, mi faccio una passeggiata al cimitero di Kilkenny Street, a due passi dal vecchio opificio. Riesco sempre ad assumere un'espressione triste ed affranta e a mescolarmi tra i parenti singhiozzanti del dipartito senza dare nell'occhio. Sono talmente bravo che a volte qualcuno mi porge persino le condoglianze e mi dà una pacchettina benevola sulla schiena. Io mi stringo nelle spalle e guardo stancamente al cielo mormorando qualcosa di adeguato. Ma nel frattempo tengo d'occhio la bara, perché voglio essere l'ultimo a posarvi sopra uno dei miei fiori. Io devo essere l'ultimo.
Mi fanno ridere i film sugli zombi. Specialmente quando presentano i risorti come dei mentecatti dal cervello piatto e dal passo di lumaca. Se uno è così forte da vincere la morte, la vince bene, senza strascichi, senza compromessi, senza rimpianti. Ed io ne so qualcosa.
La prima volta successe una decina di anni fa. All'epoca abitavo a tre isolati dal cimitero, e nell'eternità delle due ore fra la fine del lavoro e la cena scambiavo spesso e volentieri quattro chiacchiere col vecchio custode Jonas. Ebbene, la sua unica figlia, Allison, una splendida ragazza di vent'anni e di mille speranze, venne stroncata nel giro di pochi mesi da una malattia incurabile. Chissà poi perché si usa quest'espressione. Secondo me, gli squilibri del corpo si dividono in malattie e in sentenze. Le prime sono tutte curabili, magari in molti anni, le seconde sono certezze senza possibilità di appello. Ebbene, la sentenza di Allison era concisa e lapidaria: morte. Non potei non recarmi al funerale, che peraltro era riservato a pochi intimi. Nella mia cinica presunzione, volli essere l'ultimo a gettare uno dei miei fiori sulla bara della ragazza. Non potevo sapere che la notte stessa sarebbe venuta a trovarmi.
La cosa si ripeté qualche settimana dopo, alla cerimonia in onore di Prixel Abbscotte, il figlio del pizzicagnolo di Woodforde Lane. Incidente stradale. Altra bugia. Non si tratta quasi mai di incidenti, ma di stupide disattenzioni che danno a qualcuno rimorsi su cui piangere e disgrazie da farsi perdonare. Fui l'ultimo anche con Prixel. E anche il ragazzo tornò a trovarmi.
Da dieci anni ormai parlo coi morti. E so per certo che questo avviene perché sono l'ultimo a salutarli, l'ultimo a dar loro onore, l'ultima immagine terrena che si stampa sulle loro palpebre chiuse. E parlare coi morti, specie quando sono diafani, dignitosi e educati, non è per niente difficile. E sapete perché? Perché non ascoltano. Parlano, parlano, parlano e non si curano minimamente di ciò che dici. Ed io trovo tutto ciò molto rilassante. Ogni essere umano che sia inserito in un contesto sociale scende a compromessi, non c'è niente da fare. Siamo ossessionati dalle giuste cose da dire, dalle giuste cose da fare, della giusta apparenza, della giusta rispettabilità. E tutto ciò ci logora. Quando non siamo costretti a scendere a patti con noi stessi e con gli altri, allora possiamo dire di essere liberi. E ascoltando i morti, mi sento pienamente immerso nella mia libertà. Non posso neanche dire di annoiarmi, perché loro raccontano ogni volta qualcosa di diverso. Allison mi raccontava del suo folle amore per un ragazzo conosciuto sui banchi di scuola, sentimento mai ricambiato. E di quando crollava sulla sua piccola scrivania, distrutta dal sonno, mentre leggeva e rileggeva le lettere che avrebbe dovuto spedirgli, ma che non aveva mai avuto il coraggio di finire. Povera fragile Allison, il tuo amore non sarà mai compensato, dovessi rivivere per mille anni!
E Prixel? Quand'era piccolo, suo padre, quasi sempre ubriaco, fradicio ed in collera col mondo per qualche motivo, lo prendeva a cinghiate. Sognava una vita diversa, in cui una mano tesa non incontra un pugno e in cui le carezze non volano a velocità accelerata. Voleva fare mille cose, lo scrittore, il musicista, il pittore, ma mi confessava di non aver mai avuto voglia di mettersi alla prova. La cosa che più mi ha commosso, nei suoi discorsi, è stato il perdono nei confronti del padre violento e della madre che non l'aveva mai difeso.
Ognuno ha una sua storia, anzi no. Ognuno è una storia, piccola o grande. E se trova qualcuno che la sa leggere e capire, allora potrà dire di non essere vissuto per niente. Ricordo sempre con piacere i racconti di Frank e Withney, due anziani dal cuore giovane che decisero di togliersi la vita un paio d'anni fa nella nube di ossido di carbonio del loro garage in campagna. Il cervello di Wihtney era rosicchiato dall'Alzheimer, ma l'ultimo barlume di lucidità nei suoi occhi le permise di accettare l'offerta del marito: impedire al destino di far morire uno dei due prima dell'altro, rompendo col suo arbitrio un amore di decine di anni. Molto poetico, il vecchio Frank. Lo era sempre stato. Tornarono dopo poche ore nel buio della mia camera tenendosi per mano.
Ma le cose non sempre vanno come dovrebbero o come si vorrebbe. Qualche settimana fa ho posato l'ultimo fiore sulla bara di Peter Spears, il guardiano dei desolati giardini del Wiggy Park, qui all'angolo. La cosa non gli è piaciuta, e per un motivo molto semplice: non era ancora morto in quel momento. È incredibile come al giorno d'oggi la medicina possa commettere errori di questo tipo, ma è andato così. E il mio saluto, anziché commuoverlo come l'ultimo commiato di un mondo che gli aveva voluto bene, gli è parso come una sogghignante beffa di cui avrebbe dovuto vendicarsi, in un modo o nell'altro. Ed è quello che sta facendo. Non mi lascia dormire, mi sveglia nel cuore della notte urlandomi all'orecchio frasi senza senso, che sembrano partorite dalla mente di un folle. Del resto, morire sepolti vivi non dev'essere piacevole, ma non pensavo di meritare una pena del genere. Sta di fatto che sono sull'orlo di una crisi di nervi, e che non so per quanto tempo potrò resistere.
Perché vi racconto tutto questo? Perché oggi tocca al vecchio Jonas. Vado verso il cimitero sentendo l'ombra maligna di Peter che mi solletica all'orecchio, bisbigliandomi oscenità, ma cerco di non ascoltarlo. Ma al tempo stesso sento il soave canto di Allison, l'unica che torni a trovarmi a distanza di anni. Ed è questa voce che mi dice di non posare più fiori sui corpi dei defunti, ma nuda terra, perché è da lì che veniamo. Mi dice di non ascoltare più i racconti dei morti, che devono completare il loro viaggio per altri luoghi, per altri tempi. La sua mano accompagna la mia mentre carezzo la bara del padre, il vecchio Jonas, compagno di mille battute, l'unico vivo con cui mi sia sentito me stesso. E non porto più fiori per avere il privilegio di parlare coi fantasmi, mi limito ad accompagnare col pensiero la partenza di un amico. Sento Peter che si agita, e che promette battaglia ai miei sonni. Ecco, sono loro i miei due compagni, la dolcezza e la violenza, la rassegnazione e l'inquietudine. Ma finché potrò ascoltare me stesso, saprò essere sempre e soltanto il vecchio Plisky.

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Premio Il Club dei Poeti 2003
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 Ins. 13-05-2003