- Il
mercante di fiori
-
- Mi
chiamo Plisky. Buffo nome, vero? Mio padre lo lesse
chissà dove, gli piacque, e non ci pensò
due volte prima di affibbiarmelo per tutta la vita.
All'inizio non mi piaceva molto, ma col tempo mi ci
sono abituato. Che lavoro faccio? Che lavoro potrebbe
fare uno con il nome come il mio? No, niente di
strano. Sono un fioraio, anche se mi piace definirmi
un mercante di fiori. È molto poetico e
sottilmente scaltro al tempo stesso, e se ci pensate
bene, sembra il nome di una figura di un mazzo di
carte.
- I
miei se ne sono andati da tanto tempo. Non ho
fratelli, né sorelle. Non ho una moglie,
né tantomeno figli. Non ho amici, e nemmeno un
animale domestico da accudire. Ma ho i miei fiori.
Quando lavoro vendo i fiori, e quando non lavoro
regalo i fiori. E non occorre fondersi le meningi per
capire quali sono le uniche persone che meritano un
omaggio così prezioso. I morti.
- Appena
finisco il mio giro, mi faccio una passeggiata al
cimitero di Kilkenny Street, a due passi dal vecchio
opificio. Riesco sempre ad assumere un'espressione
triste ed affranta e a mescolarmi tra i parenti
singhiozzanti del dipartito senza dare nell'occhio.
Sono talmente bravo che a volte qualcuno mi porge
persino le condoglianze e mi dà una pacchettina
benevola sulla schiena. Io mi stringo nelle spalle e
guardo stancamente al cielo mormorando qualcosa di
adeguato. Ma nel frattempo tengo d'occhio la bara,
perché voglio essere l'ultimo a posarvi sopra
uno dei miei fiori. Io devo essere
l'ultimo.
- Mi
fanno ridere i film sugli zombi. Specialmente quando
presentano i risorti come dei mentecatti dal cervello
piatto e dal passo di lumaca. Se uno è
così forte da vincere la morte, la vince bene,
senza strascichi, senza compromessi, senza rimpianti.
Ed io ne so qualcosa.
- La
prima volta successe una decina di anni fa. All'epoca
abitavo a tre isolati dal cimitero, e
nell'eternità delle due ore fra la fine del
lavoro e la cena scambiavo spesso e volentieri quattro
chiacchiere col vecchio custode Jonas. Ebbene, la sua
unica figlia, Allison, una splendida ragazza di
vent'anni e di mille speranze, venne stroncata nel
giro di pochi mesi da una malattia incurabile.
Chissà poi perché si usa
quest'espressione. Secondo me, gli squilibri del corpo
si dividono in malattie e in sentenze. Le prime sono
tutte curabili, magari in molti anni, le seconde sono
certezze senza possibilità di appello. Ebbene,
la sentenza di Allison era concisa e lapidaria: morte.
Non potei non recarmi al funerale, che peraltro era
riservato a pochi intimi. Nella mia cinica
presunzione, volli essere l'ultimo a gettare uno dei
miei fiori sulla bara della ragazza. Non potevo sapere
che la notte stessa sarebbe venuta a
trovarmi.
- La
cosa si ripeté qualche settimana dopo, alla
cerimonia in onore di Prixel Abbscotte, il figlio del
pizzicagnolo di Woodforde Lane. Incidente stradale.
Altra bugia. Non si tratta quasi mai di incidenti, ma
di stupide disattenzioni che danno a qualcuno rimorsi
su cui piangere e disgrazie da farsi perdonare. Fui
l'ultimo anche con Prixel. E anche il ragazzo
tornò a trovarmi.
- Da
dieci anni ormai parlo coi morti. E so per certo che
questo avviene perché sono l'ultimo a
salutarli, l'ultimo a dar loro onore, l'ultima
immagine terrena che si stampa sulle loro palpebre
chiuse. E parlare coi morti, specie quando sono
diafani, dignitosi e educati, non è per niente
difficile. E sapete perché? Perché non
ascoltano. Parlano, parlano, parlano e non si curano
minimamente di ciò che dici. Ed io trovo tutto
ciò molto rilassante. Ogni essere umano che sia
inserito in un contesto sociale scende a compromessi,
non c'è niente da fare. Siamo ossessionati
dalle giuste cose da dire, dalle giuste cose da fare,
della giusta apparenza, della giusta
rispettabilità. E tutto ciò ci logora.
Quando non siamo costretti a scendere a patti con noi
stessi e con gli altri, allora possiamo dire di essere
liberi. E ascoltando i morti, mi sento pienamente
immerso nella mia libertà. Non posso neanche
dire di annoiarmi, perché loro raccontano ogni
volta qualcosa di diverso. Allison mi raccontava del
suo folle amore per un ragazzo conosciuto sui banchi
di scuola, sentimento mai ricambiato. E di quando
crollava sulla sua piccola scrivania, distrutta dal
sonno, mentre leggeva e rileggeva le lettere che
avrebbe dovuto spedirgli, ma che non aveva mai avuto
il coraggio di finire. Povera fragile Allison, il tuo
amore non sarà mai compensato, dovessi rivivere
per mille anni!
- E
Prixel? Quand'era piccolo, suo padre, quasi sempre
ubriaco, fradicio ed in collera col mondo per qualche
motivo, lo prendeva a cinghiate. Sognava una vita
diversa, in cui una mano tesa non incontra un pugno e
in cui le carezze non volano a velocità
accelerata. Voleva fare mille cose, lo scrittore, il
musicista, il pittore, ma mi confessava di non aver
mai avuto voglia di mettersi alla prova. La cosa che
più mi ha commosso, nei suoi discorsi, è
stato il perdono nei confronti del padre violento e
della madre che non l'aveva mai difeso.
- Ognuno
ha una sua storia, anzi no. Ognuno è una
storia, piccola o grande. E se trova qualcuno che la
sa leggere e capire, allora potrà dire di non
essere vissuto per niente. Ricordo sempre con piacere
i racconti di Frank e Withney, due anziani dal cuore
giovane che decisero di togliersi la vita un paio
d'anni fa nella nube di ossido di carbonio del loro
garage in campagna. Il cervello di Wihtney era
rosicchiato dall'Alzheimer, ma l'ultimo barlume di
lucidità nei suoi occhi le permise di accettare
l'offerta del marito: impedire al destino di far
morire uno dei due prima dell'altro, rompendo col suo
arbitrio un amore di decine di anni. Molto poetico, il
vecchio Frank. Lo era sempre stato. Tornarono dopo
poche ore nel buio della mia camera tenendosi per
mano.
- Ma
le cose non sempre vanno come dovrebbero o come si
vorrebbe. Qualche settimana fa ho posato l'ultimo
fiore sulla bara di Peter Spears, il guardiano dei
desolati giardini del Wiggy Park, qui all'angolo. La
cosa non gli è piaciuta, e per un motivo molto
semplice: non era ancora morto in quel momento.
È incredibile come al giorno d'oggi la medicina
possa commettere errori di questo tipo, ma è
andato così. E il mio saluto, anziché
commuoverlo come l'ultimo commiato di un mondo che gli
aveva voluto bene, gli è parso come una
sogghignante beffa di cui avrebbe dovuto vendicarsi,
in un modo o nell'altro. Ed è quello che sta
facendo. Non mi lascia dormire, mi sveglia nel cuore
della notte urlandomi all'orecchio frasi senza senso,
che sembrano partorite dalla mente di un folle. Del
resto, morire sepolti vivi non dev'essere piacevole,
ma non pensavo di meritare una pena del genere. Sta di
fatto che sono sull'orlo di una crisi di nervi, e che
non so per quanto tempo potrò
resistere.
- Perché
vi racconto tutto questo? Perché oggi tocca al
vecchio Jonas. Vado verso il cimitero sentendo l'ombra
maligna di Peter che mi solletica all'orecchio,
bisbigliandomi oscenità, ma cerco di non
ascoltarlo. Ma al tempo stesso sento il soave canto di
Allison, l'unica che torni a trovarmi a distanza di
anni. Ed è questa voce che mi dice di non
posare più fiori sui corpi dei defunti, ma nuda
terra, perché è da lì che
veniamo. Mi dice di non ascoltare più i
racconti dei morti, che devono completare il loro
viaggio per altri luoghi, per altri tempi. La sua mano
accompagna la mia mentre carezzo la bara del padre, il
vecchio Jonas, compagno di mille battute, l'unico vivo
con cui mi sia sentito me stesso. E non porto
più fiori per avere il privilegio di parlare
coi fantasmi, mi limito ad accompagnare col pensiero
la partenza di un amico. Sento Peter che si agita, e
che promette battaglia ai miei sonni. Ecco, sono loro
i miei due compagni, la dolcezza e la violenza, la
rassegnazione e l'inquietudine. Ma finché
potrò ascoltare me stesso, saprò essere
sempre e soltanto il vecchio Plisky.
|