Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Umberto Li Gioi
Con questo racconto ha vinto il secondo premio ex aequo al concorso
Marguerite Yourcenar 2004, sezione narrativa

IL SOGNO DI ZLATAN
 
 
Il fiume così non lo aveva mai visto.
Sembrava che tutto il verde delle sue acque fosse evaporato con la bruma dell'ultimo mattino lasciando il posto ad un colore opaco che soltanto con un grande sforzo di volontà si sarebbe potuto chiamare grigio. Addirittura ebbe la fugace impressione che il suo corso fosse sprofondato ancor più giù come se la terra avesse allargato le viscere. Questa sensazione lo attraversò quando iniziò a scendere lungo uno dei ripidi canyon che ne proteggevano entrambi gli argini - come aveva sempre fatto, quasi ogni giorno, da quando non era più andato a scuola - trasportando sotto braccio la sua canoa leggera, con la quale si lasciava scivolare su quello specchio che di solito luccicava come un'immensa miniera di smeraldi. Poi cominciava a remare impugnando ben salda tra le mani la pagaia di legno, spettinando la corrente che si nascondeva per non apparire impertinente - la delicata carezza del remo spizzicava le acque ora da una parte ora dall'altra e un leggero vento s'intrufolava tra le gole e ci restava, quasi non trovasse più l'uscita preferendo percorrere quel corridoio per intero, fino al mare.
In quei momenti una parete di cristallo si frapponeva tra lui ed il mondo e un invisibile velo scendeva a liberarlo da tutti i suoi pensieri - la malattia di suo padre, la paura di una guerra sempre più vicina - tutto scompariva in qualche parte irraggiungibile e provvisoria della sua mente, dissolvendosi lungo i ritmi lenti e tranquilli del fiume che lo trascinavano via verso un dove che non esisteva.
Tutto però quel giorno gli sembrò diverso - si sentiva stanco, privo di forze - tra quegli strani colori che lo circondavano. Guardò verso il cielo e pensò, osservando il suo aspetto plumbeo, che le acque del fiume non facessero altro che riflettere la luce spettrale che si era accumulata tra le nuvole. Continuò a scendere trascinando con sé la piccola imbarcazione compagna di tanti momenti sereni. Tutt'attorno a lui il respiro del tempo si era fatto ansimante e le snelle sagome degli aironi bianchi prìncipi del fiume avevano assunto i contorni più goffi di gabbiani alla deriva. Non riusciva a rendersi conto del motivo per cui facesse tanta fatica e soprattutto aveva l'impressione di non riconoscere i luoghi a lui tanto familiari - il cuore pulsava contrazioni sconosciute e la mente sbarrava i suoi occhi nell'attesa, e tutto questo generava quello stato di angoscia che lo attanagliava - non era mai successo durante le sue discese al fiume.
Era come se questo lo respingesse e contemporaneamente il cielo lo schiacciasse costringendolo a scendere sempre più.
Scivolò quando la terra gli franò d'improvviso sotto le suole delle scarpe e arrivò a pochissima distanza dall'acqua rendendosi conto di aver percorso diversi metri rotolando giù di schiena. Si toccò i fianchi, poi si accovacciò sull'argine. Si guardò attorno - i suoi occhi compirono un intero arco - attraversarono il cielo e arrivarono fino all'altra sponda. Una strana sensazione gli vibrò addosso e lo portò ad allungare l'indice della mano destra verso il fiume - terrorizzato lo tirò subito indietro con un gesto istintivo. Al posto dell'acqua adesso c'era una massa gelatinosa e fredda - qualcosa di ributtante e spaventoso - e il punto dove aveva toccato quella cosa si era tinto di rosso, proprio come se si fosse aperta una ferita sanguinante. L'urlo che provò a gettare gli restò appeso in gola e dalla sua bocca uscirono solo sibili soffocati che non fecero altro che accumulare tetre spirali attorno al silenzio che lo avvolgeva - poi l'aria cominciò a fremere. Si voltò verso il vecchio ponte che scavalcava il fiume alla sua sinistra, alto sulla sua testa - non era mai riuscito a capire come la sua sagoma snella, che sembrava sfidare le più elementari norme della fisica, avesse retto all'urto del tempo e fosse arrivata intatta fino ai suoi occhi - un presagio.
Le vibrazioni si trasformarono in un rombo - in un tuono lontano, di quelli che precedono il temporale - e il ponte cominciò a scricchiolare sbriciolandosi e sollevando nugoli di polvere densa dalle crepe che scheggiarono e fratturarono la sua pietra antica. La paura lo scardinò, provò ad alzarsi e fuggire - le gambe non lo reggevano più. Temette d'essere raggiunto dai frammenti che già schizzavano in tutte le direzioni. Adesso quelle che dovevano pur sempre essere le acque del fiume mostravano la loro colorazione purpurea che si diluiva lungo la superficie.
L'ultima immagine prima di svegliarsi fu quella del ponte che, avvolto dal fumo delle sue macerie, si inabissò nel sangue.
Tra le lenzuola del suo letto, Zlatan spalancò gli occhi ancora fermi nel sogno - quelle immagini scivolarono lungo le pupille dilatate - si toccò il viso con le mani temendo che il sudore che lo aspergeva fosse acqua di fiume. Allora capì, si rese conto che era stato il solito sogno, quello che tornava a trovarlo sempre più spesso e quello che ogni volta gli sembrava sempre più reale - quello che ogni volta non credeva fosse solo un sogno - quello che la paura rendeva unico e vero.
Nella penombra della stanza cercò di fissare dei punti di riferimento per riuscire a rientrare nel mondo reale - lo spiraglio di luce che filtrava dalla finestra socchiusa lo sorprese e ricordò che quella sera, prima di addormentarsi, si era affacciato a guardare la luna piena pensando che in quello stesso momento, da tante altre parti del mondo, migliaia di persone la stavano osservando, e aveva provato un rassicurante senso di normalità - no, la guerra non arriverà sin qui. Il pianto lo sorprese agitando il suo respiro tra singulti sempre più scomposti - per non svegliare Hadzi e Ismet, i suoi fratellini, soffocò il volto tra le mani e uscì dalla stanza.
Suo padre non dormiva mai la notte - non ci riusciva più, i suoi nervi erano ormai scossi dalla lunga resistenza al male che lo aveva attaccato - e spesso per lui, quando si svegliava di soprassalto preda dei suoi incubi, questa era un'egoistica forma di conforto. Aprì la porta e la luce fioca della lampada gli indicò che anche quella notte Selim Halijadzic, suo padre, era rimasto seduto sul divano di stoffa sdrucita a sfidare i suoi pensieri che in quel silenzio colmo di malinconie riemergevano aggrappandosi con le unghia alla sua mente e alla sua anima che cercava la fuga approfittando di ogni lacerazione del corpo.
- Hai sognato di nuovo Zlatan? -
- Sì, padre -
- Sempre lo stesso? -
- Sì, sempre lo stesso. Ho paura padre -
- Non serve a niente aver paura Zlatan, te l'ho detto tante volte ormai -
- Com'è la guerra padre? - finalmente riuscì a porgergli quella domanda che la paura dell'ignoto aveva sempre frenato.
Suo padre - un mondo lontano disperso nell'abisso di un'orbita scaraventata fuori dalla sua portata, che la distanza dal sole aveva incrostato di ghiaccio che anche soltanto tentare di scalfire sarebbe stato impossibile - aveva sempre cercato di arrivare fino a lui inventandosi voli pindarici ma era precipitato giù con le fragili ali congelate dal vuoto assoluto. E adesso che credeva d'averlo raggiunto aveva paura che la morte glielo portasse via troppo presto, nel suo abbraccio ancora più freddo.
- Zlatan, Zlatan - gli accarezzò i capelli color della seta, e il suo sospiro sembrò colmare momentaneamente il vuoto ancora esistente tra il suo mondo e quello di suo figlio che lo guardava con gli occhi verdi come le acque della Neretva
- Nessuno sa cosa sia veramente la guerra perché ognuna è diversa dalle altre, tanto diversa da riuscire a nascondersi sempre dietro maschere perfette - e prese a raccontargli della sua guerra, di quella che aveva bruciato i suoi vent'anni. Gli parlò di come la gente sembrasse impazzita, dei Serbi trucidati e gettati nel fiume, degli Ustasa Croati che indossavano i fez per far cadere le colpe dei massacri sui Musulmani, di come tutti si volgessero contro tutti - sospetti, delazioni, violenze, vendette - del mostro che affamato e bramoso divorava sé stesso e si rigenerava dal sangue delle sue ferite. Lo accarezzò con i suoi dubbi di allora - fuggire nella brughiera o difendere la casa dove abitava con la sua famiglia quando distinguere il fratello dal nemico non aveva più un senso - e di come era stato costretto a crescere in fretta, e ad uccidere.
Le loro lacrime s'incontrarono incrociando il presente al bivio tra passato e futuro, tra due generazioni su cui incombeva lo stesso dramma - ma di cui soltanto una conosceva la verità per averla marchiata indelebilmente sulla propria pelle.
- Qui nei Balcani - continuò suo padre - tutto torna a ripetersi inesorabilmente. Le nubi si addensano sopra la nostra testa e speriamo sempre che arrivi il vento a portarsele via. Se questo non accade, al rombo sordo dei primi tuoni ci rinchiudiamo in casa, aspettando che l'uragano ci travolga - poi lo guardò dritto in faccia nella penombra della stanza - Sai cosa dovrai fare quando io non ci sarò più - la sua voce si era fatta rauca - Hai quasi sedici anni, ormai sei un soldato -
Quella parola - soldato - lo percorse violentemente. Sapeva di odio, sapeva di guerra, sapeva di addio. Forse, pensò, erano le stesse cose che gli aveva detto suo nonno tanti anni fa, quando lo aveva mandato via tra i boschi della vallata, dove gli avevano messo in mano un fucile - era stata quella la scelta che suo padre, mai prima di quella notte, gli aveva rivelato.
Zlatan raccolse la mano del genitore tra le sue e la baciò, con tutta la gratitudine per averlo ascoltato. Tra le vene sporgenti e indurite di quella mano di settant'anni riposava tutta la storia irrequieta della terra d'Erzegovina ma nel sangue che ancora scorreva caldo dentro di esse già sussultavano gli ultimi spasmodici fremiti che annunciavano la tempesta.
- Buonanotte padre - lo baciò di nuovo, stavolta sulla fronte.
- Buonanotte Zlatan, cerca di dormire adesso. Per questa notte il ponte non crollerà più -
suo padre lo rassicurò anche se era stato soltanto un incubo, almeno per il momento.
Quando rientrò nella stanza i volti sereni e ignari dei due piccoli che dormivano quietarono del tutto la sua ansia - rimase a coccolarli con lo sguardo per alcuni minuti, per ricavarne tutto il conforto possibile.
Si rimise a letto - erano appena le quattro e le residue ore di buio prima che albeggiasse gli sembrarono eterne.
Chiuse gli occhi e senza accorgersene scivolò di nuovo nel sonno.
La città di Mostar si risvegliò come tutte le mattine, sonnecchiando tra i minareti, mentre gli altoparlanti diffondevano la preghiera dell'imam nell'aria immobile di un maggio a quell'ora già caldo.
Zlatan si lavò e si vestì in fretta. I suoi fratellini dormivano ancora mentre suo padre giaceva adesso addormentato sul divano con il capo reclinato sulla spalla destra - da quanto tempo dormiva? - e il viso contratto - le centinaia di notti in bianco avevano scavato i suoi occhi che adesso, nella precarietà di quei sonni sfiniti, non separavano più il giorno dalla notte.
- Zlatan, dove vai a quest'ora? - la voce di sua madre nascosta dal rumore dell'acqua corrente gli sfiorò le orecchie.
- Madre - la cercò in cucina e l'abbracciò come faceva ogni volta prima di uscire. Lei era l'unica della famiglia che aveva ormai somatizzato la malattia del marito, riuscendo a produrre tutte le piastrine necessarie a coagulare il dolore. Sapeva che non c'era alcuna speranza che il suo sposo sopravvivesse a quel male così come sapeva che la tempesta si stava avvicinando sempre di più - si era creata in lei una sorta di sadica e assurda competizione tra quelli che sarebbero stati i due avvenimenti ormai prossimi che avrebbero finito per sconvolgere la sua vita e quella della sua famiglia - c'era solo da aspettare per vedere quale dei due sarebbe arrivato per primo al traguardo.
Zlatan aveva intuito da tempo la rassegnazione della madre ma cercava di vedere l'equilibrio che lei aveva raggiunto come un fatto positivo, tanto non c'era nulla da perdere.
- Allora figliolo, come mai esci così presto? - il dubbio fu legittimo anche perché si accorse che non aveva preso la sua piccola canoa.
- Vado al ponte, madre - le rispose con tenera impazienza. Lei non conosceva il suo tormento notturno.
- Al vecchio ponte? - Mostar, come tutte le città tagliate in due da un fiume, era piena di ponti che collegavano la parte musulmana a quella croata, ma "il ponte" era uno soltanto, lo Stari Most, il ponte ottomano che aveva più di quattrocento anni. La terra avrebbe potuto inghiottirgli attorno tutta la città ma lui sarebbe rimasto anche da solo ad attraversare le verdi acque della Neretva.
Il ragazzo annuì con un cenno del capo e con un movimento arcuato del dito disegnò per aria la sagoma del ponte.
Poi uscì, proprio mentre uno dei suoi fratelli era apparso sulla soglia della camera stropicciandosi gli occhi. Suo padre dormiva ancora.
La luce del sole profilava già nel cielo chiaro di primavera le sagome a lui familiari della città, e lungo le strette stradine che stava percorrendo per arrivare al ponte gli odori del mattino si alternavano nell'aria man mano che si accostava ora ad una casa ora a un cortile - pensò che forse l'aria neutra di quell'ora li rendesse ancora più intensi - il fumo acre dell'agnello che arrostiva a fuoco lento per arrivare a indorarsi per il pranzo - l'odore caldo del bollito di legumi che borbottava nel pentolone assieme alla carne - e quei vapori riempivano i suoi polmoni man mano che si avvicinava al vecchio bazar che ogni mattina, sin dalle prime ore, si affollava di gente indaffarata a cercare qualunque cosa - nel bazar tutta la merce esposta alla vendita acquistava un valore particolare, niente restava inutile.
Si intrufolò tra altri profumi più delicati di spezie e di essenze, sbirciando tra la folla come se cercasse qualcosa - o qualcuno. E quel qualcuno lo scorse e lo chiamò - Merhaba giovane Zlatan - il saggio Ibrahim faceva onore al suo nome usando spesso saluti turchi, ancorato alle vecchie tradizioni di famiglia - Come mai passi da qua stamattina? -
Il ragazzo fu felice di vederlo - in effetti stava proprio cercando quel vecchio venditore di stoffe dalla pelle raggrinzita che se ne stava tutto il giorno all'ombra delle sue tende mentre gli ultimi anni della sua lunga vita gli passavano davanti come la gente che lentamente dondolava attraverso il bazar.
- Salute a te maestro Ibrahim -
L'anziano mercante non sembrò sorpreso, anzi Zlatan ebbe l'impressione che lo aspettasse - Stai per scendere al fiume Zlatan? -
- No maestro, stavo andando al ponte: sai, questa notte ho sognato che crollava -
Il vecchio Ibrahim lo invitò ad entrare e lo fece accomodare tra cuscini di stoffa colorata che arricchivano l'interno del suo piccolo negozio. Il suo viso si fece di colpo serio
- Allora il momento sta per arrivare -
- Sta per scoppiare la guerra? - anche l'espressione di Zlatan si fece tirata.
- Il mostro dormiente ormai si è svegliato e ha ricominciato a nutrirsi - quelle parole gli rimbombarono dentro e notò in esse lo stesso tono profetico che avevano avuto quelle sussurrate da suo padre nella notte appena trascorsa.
A quel punto si rese conto di essere davvero diventato grande - si era accorto che nessuno gli nascondeva più la verità, come si fa con i bambini per non impressionarli. Adesso tutta la crudeltà di una guerra imminente gli veniva anticipatamente sbattuta in faccia con le parole.
- Maestro Ibrahim ... - non terminò la frase, forse perché non sapeva cosa dire
- Vai al ponte adesso Zlatan, vacci tutti i giorni che potrai farlo, finchè sarai in tempo - furono le sue ultime parole. Poi si alzò e si rivolse a un compratore che si era nel frattempo avvicinato alla merce.
Zlatan si allontanò senza voltarsi indietro. Era dispiaciuto al pensiero d'averlo scosso con le sue parole ma si sentì diverso, ormai consapevole di quello che sarebbe stato il futuro prossimo.
Fuori dal vecchio bazar alcuni vecchi stavano seduti come sempre lungo il muretto che ai bordi della strada costeggiava il corso della Neretva. Scandivano il tempo con parole che si avvicendavano al silenzio dei pensieri mentre accompagnavano il fiume nel suo cammino, custodi antichi dei segreti e dei tormenti di quella terra inquieta.
Ancora profumi arrivarono al suo fiato - fragranze di mirto e ginepro che la primavera allungava dalle colline tra sciami di polline - e poi il ponte, quello che il suo sogno aveva distrutto - era ancora là, una lama sottile e ricurva - perfetta nel suo flettersi sull'acqua - concordia d'unione tra due mondi che una crepa invisibile stava per separare chissà fino a quando.
Lo percorse tutto fino ad arrivare all'altra sponda, quella occidentale - quella croata - poi tornò indietro e si affacciò sul fiume, proprio al centro.
La Neretva gli sembrò verdissima - i colori intensi di quella mattina erano ben lontani da quelli opachi del sogno - lungo le gole fitti cespugli di capelvenere tappezzavano le rocce mentre ciuffi di ranuncoli gialli sbucavano dalle fenditure. Immaginò di trovarsi sull'arcobaleno filtrato tra il pulviscolo d'acqua che evaporava dalla corrente. In lontananza si distendevano le dolci colline d'Erzegovina.
 
 
Selim Halijadzic morì due mesi dopo. In ottobre le forze croate e quelle musulmane ruppero la loro alleanza anti-serba e gli scontri sempre più frequenti sfociarono, nel maggio del '93, nella battaglia di Mostar che durò quasi due anni.
Zlatan e la sua famiglia, dopo essere sfuggiti ai bombardamenti, furono sloggiati da Mostar assieme a migliaia di profughi e trovarono accoglienza in Svezia con lo status di rifugiati.
Il 9 novembre del '93 alcune granate partite da un obice dell'Hvo croato distrussero per sempre lo Stari Most.
Era inverno e Zlatan, appresa la notizia alcuni giorni dopo, si affacciò alla finestra del suo alloggio nei pressi di Stoccolma. Chiuse gli occhi - rivide la Neretva com'era quella volta che si era sporto dal ponte, verde come gli smeraldi - poi li riaprì e li stropicciò forte. Adesso di fronte a lui c'era soltanto un orizzonte piatto sommerso da un'immensa distesa di neve.

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 Ins. 13-12-2004