- IL
SOGNO DI ZLATAN
-
-
- Il
fiume così non lo aveva mai visto.
- Sembrava
che tutto il verde delle sue acque fosse evaporato con
la bruma dell'ultimo mattino lasciando il posto ad un
colore opaco che soltanto con un grande sforzo di
volontà si sarebbe potuto chiamare grigio.
Addirittura ebbe la fugace impressione che il suo
corso fosse sprofondato ancor più giù
come se la terra avesse allargato le viscere. Questa
sensazione lo attraversò quando iniziò a
scendere lungo uno dei ripidi canyon che ne
proteggevano entrambi gli argini - come aveva sempre
fatto, quasi ogni giorno, da quando non era più
andato a scuola - trasportando sotto braccio la sua
canoa leggera, con la quale si lasciava scivolare su
quello specchio che di solito luccicava come
un'immensa miniera di smeraldi. Poi cominciava a
remare impugnando ben salda tra le mani la pagaia di
legno, spettinando la corrente che si nascondeva per
non apparire impertinente - la delicata carezza del
remo spizzicava le acque ora da una parte ora
dall'altra e un leggero vento s'intrufolava tra le
gole e ci restava, quasi non trovasse più
l'uscita preferendo percorrere quel corridoio per
intero, fino al mare.
- In
quei momenti una parete di cristallo si frapponeva tra
lui ed il mondo e un invisibile velo scendeva a
liberarlo da tutti i suoi pensieri - la malattia di
suo padre, la paura di una guerra sempre più
vicina - tutto scompariva in qualche parte
irraggiungibile e provvisoria della sua mente,
dissolvendosi lungo i ritmi lenti e tranquilli del
fiume che lo trascinavano via verso un dove che non
esisteva.
- Tutto
però quel giorno gli sembrò diverso - si
sentiva stanco, privo di forze - tra quegli strani
colori che lo circondavano. Guardò verso il
cielo e pensò, osservando il suo aspetto
plumbeo, che le acque del fiume non facessero altro
che riflettere la luce spettrale che si era accumulata
tra le nuvole. Continuò a scendere trascinando
con sé la piccola imbarcazione compagna di
tanti momenti sereni. Tutt'attorno a lui il respiro
del tempo si era fatto ansimante e le snelle sagome
degli aironi bianchi prìncipi del fiume avevano
assunto i contorni più goffi di gabbiani alla
deriva. Non riusciva a rendersi conto del motivo per
cui facesse tanta fatica e soprattutto aveva
l'impressione di non riconoscere i luoghi a lui tanto
familiari - il cuore pulsava contrazioni sconosciute e
la mente sbarrava i suoi occhi nell'attesa, e tutto
questo generava quello stato di angoscia che lo
attanagliava - non era mai successo durante le sue
discese al fiume.
- Era
come se questo lo respingesse e contemporaneamente il
cielo lo schiacciasse costringendolo a scendere sempre
più.
- Scivolò
quando la terra gli franò d'improvviso sotto le
suole delle scarpe e arrivò a pochissima
distanza dall'acqua rendendosi conto di aver percorso
diversi metri rotolando giù di schiena. Si
toccò i fianchi, poi si accovacciò
sull'argine. Si guardò attorno - i suoi occhi
compirono un intero arco - attraversarono il cielo e
arrivarono fino all'altra sponda. Una strana
sensazione gli vibrò addosso e lo portò
ad allungare l'indice della mano destra verso il fiume
- terrorizzato lo tirò subito indietro con un
gesto istintivo. Al posto dell'acqua adesso c'era una
massa gelatinosa e fredda - qualcosa di ributtante e
spaventoso - e il punto dove aveva toccato quella cosa
si era tinto di rosso, proprio come se si fosse aperta
una ferita sanguinante. L'urlo che provò a
gettare gli restò appeso in gola e dalla sua
bocca uscirono solo sibili soffocati che non fecero
altro che accumulare tetre spirali attorno al silenzio
che lo avvolgeva - poi l'aria cominciò a
fremere. Si voltò verso il vecchio ponte che
scavalcava il fiume alla sua sinistra, alto sulla sua
testa - non era mai riuscito a capire come la sua
sagoma snella, che sembrava sfidare le più
elementari norme della fisica, avesse retto all'urto
del tempo e fosse arrivata intatta fino ai suoi occhi
- un presagio.
- Le
vibrazioni si trasformarono in un rombo - in un tuono
lontano, di quelli che precedono il temporale - e il
ponte cominciò a scricchiolare sbriciolandosi e
sollevando nugoli di polvere densa dalle crepe che
scheggiarono e fratturarono la sua pietra antica. La
paura lo scardinò, provò ad alzarsi e
fuggire - le gambe non lo reggevano più.
Temette d'essere raggiunto dai frammenti che
già schizzavano in tutte le direzioni. Adesso
quelle che dovevano pur sempre essere le acque del
fiume mostravano la loro colorazione purpurea che si
diluiva lungo la superficie.
- L'ultima
immagine prima di svegliarsi fu quella del ponte che,
avvolto dal fumo delle sue macerie, si inabissò
nel sangue.
- Tra
le lenzuola del suo letto, Zlatan spalancò gli
occhi ancora fermi nel sogno - quelle immagini
scivolarono lungo le pupille dilatate - si
toccò il viso con le mani temendo che il sudore
che lo aspergeva fosse acqua di fiume. Allora
capì, si rese conto che era stato il solito
sogno, quello che tornava a trovarlo sempre più
spesso e quello che ogni volta gli sembrava sempre
più reale - quello che ogni volta non credeva
fosse solo un sogno - quello che la paura rendeva
unico e vero.
- Nella
penombra della stanza cercò di fissare dei
punti di riferimento per riuscire a rientrare nel
mondo reale - lo spiraglio di luce che filtrava dalla
finestra socchiusa lo sorprese e ricordò che
quella sera, prima di addormentarsi, si era affacciato
a guardare la luna piena pensando che in quello stesso
momento, da tante altre parti del mondo, migliaia di
persone la stavano osservando, e aveva provato un
rassicurante senso di normalità - no, la guerra
non arriverà sin qui. Il pianto lo sorprese
agitando il suo respiro tra singulti sempre più
scomposti - per non svegliare Hadzi e Ismet, i suoi
fratellini, soffocò il volto tra le mani e
uscì dalla stanza.
- Suo
padre non dormiva mai la notte - non ci riusciva
più, i suoi nervi erano ormai scossi dalla
lunga resistenza al male che lo aveva attaccato - e
spesso per lui, quando si svegliava di soprassalto
preda dei suoi incubi, questa era un'egoistica forma
di conforto. Aprì la porta e la luce fioca
della lampada gli indicò che anche quella notte
Selim Halijadzic, suo padre, era rimasto seduto sul
divano di stoffa sdrucita a sfidare i suoi pensieri
che in quel silenzio colmo di malinconie riemergevano
aggrappandosi con le unghia alla sua mente e alla sua
anima che cercava la fuga approfittando di ogni
lacerazione del corpo.
- -
Hai sognato di nuovo Zlatan? -
- -
Sì, padre -
- -
Sempre lo stesso? -
- -
Sì, sempre lo stesso. Ho paura padre
-
- -
Non serve a niente aver paura Zlatan, te l'ho detto
tante volte ormai -
- -
Com'è la guerra padre? - finalmente
riuscì a porgergli quella domanda che la paura
dell'ignoto aveva sempre frenato.
- Suo
padre - un mondo lontano disperso nell'abisso di
un'orbita scaraventata fuori dalla sua portata, che la
distanza dal sole aveva incrostato di ghiaccio che
anche soltanto tentare di scalfire sarebbe stato
impossibile - aveva sempre cercato di arrivare fino a
lui inventandosi voli pindarici ma era precipitato
giù con le fragili ali congelate dal vuoto
assoluto. E adesso che credeva d'averlo raggiunto
aveva paura che la morte glielo portasse via troppo
presto, nel suo abbraccio ancora più
freddo.
- -
Zlatan, Zlatan - gli accarezzò i capelli
color della seta, e il suo sospiro sembrò
colmare momentaneamente il vuoto ancora esistente tra
il suo mondo e quello di suo figlio che lo guardava
con gli occhi verdi come le acque della
Neretva
- -
Nessuno sa cosa sia veramente la guerra perché
ognuna è diversa dalle altre, tanto diversa da
riuscire a nascondersi sempre dietro maschere perfette
- e prese a raccontargli della sua guerra, di quella
che aveva bruciato i suoi vent'anni. Gli parlò
di come la gente sembrasse impazzita, dei Serbi
trucidati e gettati nel fiume, degli Ustasa Croati che
indossavano i fez per far cadere le colpe dei massacri
sui Musulmani, di come tutti si volgessero contro
tutti - sospetti, delazioni, violenze, vendette - del
mostro che affamato e bramoso divorava sé
stesso e si rigenerava dal sangue delle sue ferite. Lo
accarezzò con i suoi dubbi di allora - fuggire
nella brughiera o difendere la casa dove abitava con
la sua famiglia quando distinguere il fratello dal
nemico non aveva più un senso - e di come era
stato costretto a crescere in fretta, e ad
uccidere.
- Le
loro lacrime s'incontrarono incrociando il presente al
bivio tra passato e futuro, tra due generazioni su cui
incombeva lo stesso dramma - ma di cui soltanto una
conosceva la verità per averla marchiata
indelebilmente sulla propria pelle.
- -
Qui nei Balcani - continuò suo padre -
tutto torna a ripetersi inesorabilmente. Le nubi si
addensano sopra la nostra testa e speriamo sempre che
arrivi il vento a portarsele via. Se questo non
accade, al rombo sordo dei primi tuoni ci rinchiudiamo
in casa, aspettando che l'uragano ci travolga -
poi lo guardò dritto in faccia nella
penombra della stanza - Sai cosa dovrai fare quando
io non ci sarò più - la sua voce si
era fatta rauca - Hai quasi sedici anni, ormai sei
un soldato -
- Quella
parola - soldato - lo percorse violentemente. Sapeva
di odio, sapeva di guerra, sapeva di addio. Forse,
pensò, erano le stesse cose che gli aveva detto
suo nonno tanti anni fa, quando lo aveva mandato via
tra i boschi della vallata, dove gli avevano messo in
mano un fucile - era stata quella la scelta che suo
padre, mai prima di quella notte, gli aveva
rivelato.
- Zlatan
raccolse la mano del genitore tra le sue e la
baciò, con tutta la gratitudine per averlo
ascoltato. Tra le vene sporgenti e indurite di quella
mano di settant'anni riposava tutta la storia
irrequieta della terra d'Erzegovina ma nel sangue che
ancora scorreva caldo dentro di esse già
sussultavano gli ultimi spasmodici fremiti che
annunciavano la tempesta.
- -
Buonanotte padre - lo baciò di nuovo,
stavolta sulla fronte.
- -
Buonanotte Zlatan, cerca di dormire adesso. Per questa
notte il ponte non crollerà più
-
- suo
padre lo rassicurò anche se era stato soltanto
un incubo, almeno per il momento.
- Quando
rientrò nella stanza i volti sereni e ignari
dei due piccoli che dormivano quietarono del tutto la
sua ansia - rimase a coccolarli con lo sguardo per
alcuni minuti, per ricavarne tutto il conforto
possibile.
- Si
rimise a letto - erano appena le quattro e le residue
ore di buio prima che albeggiasse gli sembrarono
eterne.
- Chiuse
gli occhi e senza accorgersene scivolò di nuovo
nel sonno.
- La
città di Mostar si risvegliò come tutte
le mattine, sonnecchiando tra i minareti, mentre gli
altoparlanti diffondevano la preghiera dell'imam
nell'aria immobile di un maggio a quell'ora già
caldo.
- Zlatan
si lavò e si vestì in fretta. I suoi
fratellini dormivano ancora mentre suo padre giaceva
adesso addormentato sul divano con il capo reclinato
sulla spalla destra - da quanto tempo dormiva? - e il
viso contratto - le centinaia di notti in bianco
avevano scavato i suoi occhi che adesso, nella
precarietà di quei sonni sfiniti, non
separavano più il giorno dalla
notte.
- -
Zlatan, dove vai a quest'ora? - la voce di sua
madre nascosta dal rumore dell'acqua corrente gli
sfiorò le orecchie.
- -
Madre - la cercò in cucina e
l'abbracciò come faceva ogni volta prima di
uscire. Lei era l'unica della famiglia che aveva ormai
somatizzato la malattia del marito, riuscendo a
produrre tutte le piastrine necessarie a coagulare il
dolore. Sapeva che non c'era alcuna speranza che
il suo sposo sopravvivesse a quel male così
come sapeva che la tempesta si stava avvicinando
sempre di più - si era creata in lei una sorta
di sadica e assurda competizione tra quelli che
sarebbero stati i due avvenimenti ormai prossimi che
avrebbero finito per sconvolgere la sua vita e quella
della sua famiglia - c'era solo da aspettare per
vedere quale dei due sarebbe arrivato per primo al
traguardo.
- Zlatan
aveva intuito da tempo la rassegnazione della madre ma
cercava di vedere l'equilibrio che lei aveva raggiunto
come un fatto positivo, tanto non c'era nulla da
perdere.
- -
Allora figliolo, come mai esci così presto?
- il dubbio fu legittimo anche perché si
accorse che non aveva preso la sua piccola
canoa.
- -
Vado al ponte, madre - le rispose con tenera
impazienza. Lei non conosceva il suo tormento
notturno.
- -
Al vecchio ponte? - Mostar, come tutte le
città tagliate in due da un fiume, era piena di
ponti che collegavano la parte musulmana a quella
croata, ma "il ponte" era uno soltanto, lo Stari Most,
il ponte ottomano che aveva più di quattrocento
anni. La terra avrebbe potuto inghiottirgli attorno
tutta la città ma lui sarebbe rimasto anche da
solo ad attraversare le verdi acque della
Neretva.
- Il
ragazzo annuì con un cenno del capo e con un
movimento arcuato del dito disegnò per aria la
sagoma del ponte.
- Poi
uscì, proprio mentre uno dei suoi fratelli era
apparso sulla soglia della camera stropicciandosi gli
occhi. Suo padre dormiva ancora.
- La
luce del sole profilava già nel cielo chiaro di
primavera le sagome a lui familiari della
città, e lungo le strette stradine che stava
percorrendo per arrivare al ponte gli odori del
mattino si alternavano nell'aria man mano che si
accostava ora ad una casa ora a un cortile -
pensò che forse l'aria neutra di quell'ora li
rendesse ancora più intensi - il fumo acre
dell'agnello che arrostiva a fuoco lento per arrivare
a indorarsi per il pranzo - l'odore caldo del bollito
di legumi che borbottava nel pentolone assieme alla
carne - e quei vapori riempivano i suoi polmoni man
mano che si avvicinava al vecchio bazar che ogni
mattina, sin dalle prime ore, si affollava di gente
indaffarata a cercare qualunque cosa - nel bazar tutta
la merce esposta alla vendita acquistava un valore
particolare, niente restava inutile.
- Si
intrufolò tra altri profumi più delicati
di spezie e di essenze, sbirciando tra la folla come
se cercasse qualcosa - o qualcuno. E quel qualcuno lo
scorse e lo chiamò - Merhaba giovane Zlatan
- il saggio Ibrahim faceva onore al suo nome
usando spesso saluti turchi, ancorato alle vecchie
tradizioni di famiglia - Come mai passi da qua
stamattina? -
- Il
ragazzo fu felice di vederlo - in effetti stava
proprio cercando quel vecchio venditore di stoffe
dalla pelle raggrinzita che se ne stava tutto il
giorno all'ombra delle sue tende mentre gli ultimi
anni della sua lunga vita gli passavano davanti come
la gente che lentamente dondolava attraverso il
bazar.
- -
Salute a te maestro Ibrahim -
- L'anziano
mercante non sembrò sorpreso, anzi Zlatan ebbe
l'impressione che lo aspettasse - Stai per scendere
al fiume Zlatan? -
- -
No maestro, stavo andando al ponte: sai, questa notte
ho sognato che crollava -
- Il
vecchio Ibrahim lo invitò ad entrare e lo fece
accomodare tra cuscini di stoffa colorata che
arricchivano l'interno del suo piccolo negozio. Il suo
viso si fece di colpo serio
- -
Allora il momento sta per arrivare -
- -
Sta per scoppiare la guerra? - anche l'espressione
di Zlatan si fece tirata.
- -
Il mostro dormiente ormai si è svegliato e ha
ricominciato a nutrirsi - quelle parole gli
rimbombarono dentro e notò in esse lo stesso
tono profetico che avevano avuto quelle sussurrate da
suo padre nella notte appena trascorsa.
- A
quel punto si rese conto di essere davvero diventato
grande - si era accorto che nessuno gli nascondeva
più la verità, come si fa con i bambini
per non impressionarli. Adesso tutta la
crudeltà di una guerra imminente gli veniva
anticipatamente sbattuta in faccia con le
parole.
- -
Maestro Ibrahim ... - non terminò la
frase, forse perché non sapeva cosa
dire
- -
Vai al ponte adesso Zlatan, vacci tutti i giorni che
potrai farlo, finchè sarai in tempo - furono
le sue ultime parole. Poi si alzò e si rivolse
a un compratore che si era nel frattempo avvicinato
alla merce.
- Zlatan
si allontanò senza voltarsi indietro. Era
dispiaciuto al pensiero d'averlo scosso con le sue
parole ma si sentì diverso, ormai consapevole
di quello che sarebbe stato il futuro
prossimo.
- Fuori
dal vecchio bazar alcuni vecchi stavano seduti come
sempre lungo il muretto che ai bordi della strada
costeggiava il corso della Neretva. Scandivano il
tempo con parole che si avvicendavano al silenzio dei
pensieri mentre accompagnavano il fiume nel suo
cammino, custodi antichi dei segreti e dei tormenti di
quella terra inquieta.
- Ancora
profumi arrivarono al suo fiato - fragranze di mirto e
ginepro che la primavera allungava dalle colline tra
sciami di polline - e poi il ponte, quello che il suo
sogno aveva distrutto - era ancora là, una lama
sottile e ricurva - perfetta nel suo flettersi
sull'acqua - concordia d'unione tra due mondi che una
crepa invisibile stava per separare chissà fino
a quando.
- Lo
percorse tutto fino ad arrivare all'altra sponda,
quella occidentale - quella croata - poi tornò
indietro e si affacciò sul fiume, proprio al
centro.
- La
Neretva gli sembrò verdissima - i colori
intensi di quella mattina erano ben lontani da quelli
opachi del sogno - lungo le gole fitti cespugli di
capelvenere tappezzavano le rocce mentre ciuffi di
ranuncoli gialli sbucavano dalle fenditure.
Immaginò di trovarsi sull'arcobaleno filtrato
tra il pulviscolo d'acqua che evaporava dalla
corrente. In lontananza si distendevano le dolci
colline d'Erzegovina.
-
-
- Selim
Halijadzic morì due mesi dopo. In ottobre le
forze croate e quelle musulmane ruppero la loro
alleanza anti-serba e gli scontri sempre più
frequenti sfociarono, nel maggio del '93, nella
battaglia di Mostar che durò quasi due
anni.
- Zlatan
e la sua famiglia, dopo essere sfuggiti ai
bombardamenti, furono sloggiati da Mostar assieme a
migliaia di profughi e trovarono accoglienza in Svezia
con lo status di rifugiati.
- Il
9 novembre del '93 alcune granate partite da un obice
dell'Hvo croato distrussero per sempre lo Stari
Most.
- Era
inverno e Zlatan, appresa la notizia alcuni giorni
dopo, si affacciò alla finestra del suo
alloggio nei pressi di Stoccolma. Chiuse gli occhi -
rivide la Neretva com'era quella volta che si era
sporto dal ponte, verde come gli smeraldi - poi li
riaprì e li stropicciò forte. Adesso di
fronte a lui c'era soltanto un orizzonte piatto
sommerso da un'immensa distesa di neve.
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