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               Il
               guardaroba di Noè Un'introspezione
               casereccia, arricchita dal bagaglio d'esperienze che
               l'età, a saldo stagionale, regala, mi ha dato
               la consapevolezza di essere per molti versi più
               un Noè che un Prometeo.Non
               rifiuto le proiezioni in avanti ma godo nello stipare
               nella mia arca, ricordi, emozioni o avvenimenti, anche
               tutto quello she sembra a prima vista insignificante,
               perché confido che prima o poi torni utile.
               È una regola di vita che mi porto dietro da
               sempre. È la targhetta di riconoscimento mia e
               credo dei miei coetanei.La
               mia generazione, quella immediatamente dopo la guerra,
               ha nel suo DNA un anticonsumismo istintivo; siamo
               cresciuti in famiglie dove non si buttava via
               niente.Il
               riciclaggio, il concetto di riciclaggio attuale, non
               ci ha colto affatto di sorpresa.Negli
               anni quaranta, cinquanta e sessanta il problema dello
               smaltimento dei rifiuti era
               ultrainesistente.Già
               nelle nostre case c'era un pudore atavico nel disfarsi
               di qualsiasi oggetto che sembrava dovesse aver
               esaurito la sua carica d'utilità ma quando
               questo accadeva c'era sempre qualcuno che riciclava il
               riciclato in un processo concentricamente
               infinito.Ricordo
               in casa quelle scatole di latta dei cioccolatini (di
               rigore quelli floreali di Gay Odin) utilizzate per
               conservare spezzoni di spago, gomitolini di lana,
               bottoni d'ogni tipo e tante cianfrusaglie che prima o
               poi si svuotavano della specificità
               dell'utilizzo primordiale per rivelare una nuova
               vigoria nell'adattamento successivo.Eravamo
               ben lontani dall'era del consumismo più
               sfrenato ed anche con l'ausilio di una
               manualità particolarmente esercitata e
               stimolata dal bisogno di salvaguardare un bilancio
               domestico precario si allertava la fantasia per la
               soluzione dei quotidiani problemi casalinghi via via
               affioranti.L'acquisto
               per la sostituzione era in definitiva l'ultima
               ratio.All'occorrenza
               si rovesciava sul tavolo il contenuto delle magiche
               scatole e si cercava il chiodino, il bottone o lo
               spaghetto da riutilizzare.Non
               c'era niente che non si riciclasse: in primis il
               vestiario.E
               nessuno se ne vergognava.Era
               una concreta possibilità di affrontare gli
               eventi con dignità.Con
               questa finestra sul modo di vestire, sul suo
               successivo evolversi ed ai suoi intrecci con
               circostanze ed avvenimenti che si riesce anche a
               ricostruire un percorso.Ricordo
               ancora il cappotto grigio scuro di mio padre rivoltato
               come un guanto che, con gli opportuni aggiustamenti,
               divenne il primo cappotto "importante" della mia
               vita.Inizialmente
               talmente maxi da costringermi ad imitare quel gesto di
               sollevamento delle gonne, tipico delle suorine della
               mia scuola quando scendevano le scale, ma scientemente
               progettato per accompagnare per un quinquennio almeno
               il mio celere sviluppo fisico che avrebbe altrimenti
               reso immediatamente inadeguato un cappotto rigenerato
               con misure esatte.Come
               non citare, poi, quegli scarponcini indistruttibili di
               classica matrice militare che dopo aver contribuito
               alla guerra principe del millennio mi erano stati
               assegnati d'autorità e mi avevano accompagnato
               per un triennio segnalando con anticipo la mia
               rumorosa presenza e terrorizzando nei tackles gli
               avversari nelle interminabili partite a pallone della
               "campagnella"?Per
               le scarpe poi ogni considerazione estetica che
               cozzasse contro una indubbia e collaudata resistenza
               all'usura era bandita a priori. Nell'affannosa ricerca
               di qualsiasi escamotage che potesse contribuire alla
               quadratura del bilancio familiare, già
               pesantemente compromessa da un atteggiamento di
               rivalsa postbellica proiettato ad una sana e corposa
               alimentazione, non di rado io e mio fratello eravamo
               vestiti con abiti identici.La
               scoperta nei mercatini o nei fondi di magazzino di
               scampoli economici di stoffa di una qualche
               entità poteva decidere le sorti del nostro
               comune abbigliamento.Le
               ultime cinque matasse di lana del bottegaio potevano
               rappresentare un affarone?I
               maglioncini, naturalmente stesso modello, fatti in
               casa con quella lana erano divisi equanimemente tra
               noi due.Per
               anni persino i nostri costumi da bagno, ne rammento le
               bretelline e la pesantezza una volta immersi,
               occupavano lo sferruzzare invernale.Ed
               il vestire allo stesso modo non poteva che generare
               equivoci."Si,
               sono gemelli!", mia madre era arcistufa di quella
               domanda che le era rivolta ad ogni pié
               sospinto.Eravamo
               due fratelli, infatti, con un anno di differenza ed
               una struttura fisica per molti versi simile tanto da
               indurre al dubbio.Poiché
               vivevamo al Sud nessuno resisteva alla
               curiosità di poterlo sciogliere.Dapprima
               mia madre si era affannata a descrivere lo stato
               anagrafico reale ma poi si era arresa di fronte al
               reiterato ripetersi del quesito ed aveva escogitato il
               sistema per troncare sul nascere la discussione: "Si,
               sono gemelli!"Non
               che non le piacesse parlare, cercare il contatto con
               gli altri, tutt'altro, ma le piaceva fiondarsi con la
               sua fantasia significativamente napoletana sugli
               avvenimenti, arricchire con coloriture ed humor il
               racconto di una realtà che ai più
               appariva sbiadita cogliendone tra le pieghe aspetti
               insoliti o umoristici ed inaridirsi nel riaffermare
               solo le banalità la infastidiva.E
               per anni siamo rimasti ufficialmente due
               gemelli.Non
               ci piaceva ma avevamo ben pochi mezzi per
               opporci.Tra
               me e mio fratello corrono tredici mesi di differenza
               e, dalla sua nascita, una competizione ad oltranza
               originata da gelosie e desiderio di
               prevalere.Questo
               faceva sì che, senza mezzi termini,
               coltivassimo con costanza le potenzialità
               omicide che due adolescenti potevano
               permettersi.Avevo
               due anni, infatti, quando tentai di liberarmene
               spingendolo per le scale e lui si rifece con gli
               interessi qualche anno dopo con un tentativo
               d'annegamento, quasi più consapevole, nelle
               acque di Acquamorta (la spiaggia di Monte di Procida)
               riuscendoci quasi.Ma
               dopo questi maldestri tentativi, rassegnati alla
               coesistenza, ci siamo impegnati al massimo
               perché quel "Sono gemelli!" con tutte le
               implicazioni relative suonasse come una frase blasfema
               e lontanissima dalla realtà.Una
               battaglia difficile perché nel frattempo
               continuavamo a procedere tra riciclaggi e scampoli
               convenienti in perfetto parallelismo formale con abiti
               nel migliore dei casi simili ed inoltre con la
               possibilità fisica di scambiarceli.Pantaloncini
               di velluto marrone, camicetta bianca e gilet verde
               pisello, per esempio; alle cerimonie, le foto
               ufficiali certificano, questa era la nostra divisa da
               festa.Pantaloncini
               anche con i capricci invernali e con la solita
               nevicata quadriennale.Fino
               a che...Sì,
               perché ad un certo punto fecero la loro
               comparsa i pantaloni alla zuava.E
               non per un capriccio della moda o per un'esigenza
               climatica. Non c'era alcuna motivazione estetica
               all'abbraccio con quest'indumento classicamente
               sassone.La
               moderna Saticula non echeggiava atmosfere Gallesi
               nonostante l'estensione dei verdi parchi reali ed il
               golf non era certamente lo sport che occupava i nostri
               pomeriggi.Continuavamo,
               infatti, nonostante ed a dispetto di quegli strani
               pantaloni, che martoriavano con i loro elastici i
               nostri polpacci, a tirar calci ad improbabili palle
               realizzate con stracci racchiusi in calzini
               riciclati.Erano
               piombati improvvisamente nel nostro guardaroba e fummo
               costretti a subirli senza aver la possibilità
               di un minimo di contestazione (a stroncarla sul
               nascere bastava uno sguardo, severo come da
               copione).Divagando
               e a questo proposito per anni sono stato convinto che
               ci fosse un'apposita scuola che insegnasse a roteare
               la pupilla con quella fredda severità paterna e
               magari, prima o poi, avremmo dovuto frequentarla, una
               specie di corso prematrimoniale, per avere un diploma
               di genitori in pectore. Erano comparsi dal nulla quei
               goffi pantaloni alla zuava e solo qualche anno dopo
               n'avevo scoperto il recondito motivo.Frequentavo
               una scuola cattolica ed i nostri genitori erano stati
               convocati ad una delle riunioni consuntive mensili di
               quelle, per intenderci, dove si ripeteva la solita
               frase: "È intelligente ma svogliato. Potrebbe
               fare molto di più...", ed in quell'occasione il
               direttore ieratico aveva sfoderato il divieto dei
               calzoncini corti per tutti gli alunni.Insomma,
               per farla breve, quelle nostre gambette nude avrebbero
               potuto scatenare la libido e provocare desideri
               morbosi in quell'ambiente clericale ingessato nel
               vincolo della castità. I
               pantaloni alla zuava: come le foglie di fico sui
               capolavori Cinquecenteschi...Era
               vero che con cadenze ravvicinate l'unico comandamento
               che era ricordato era quello riguardante gli atti
               impuri ma nessuno si era preoccupato di informarci di
               cosa si trattasse.Sapevamo
               solamente da una minaccia angosciante della nostra
               possibile cecità."Voi
               capite a cosa mi riferisco!"E
               chi aveva il coraggio di assicurargli che oltre a non
               capire vivevamo nel continuo terrore del buio assoluto
               senza sapere quale scellerata azione non avremmo
               dovuto compiere per salvaguardare i nostri nervi
               ottici?Io,
               prototipo nella media, a nove anni avevo atteso in
               giardino, con i pantaloni alla zuava, scrutando il
               cielo e nascosto in un gabbiotto disattivato per
               allevamento di galline, l'arrivo inevitabile della
               cicogna (che sicuramente passò poi dal
               resto...) il mattino che mia madre partorì, in
               casa, il terzogenito. Nonostante le precauzioni
               però qualcosa di torbido dovette ancora
               accadere nell'Istituto facendo scattare l'inevitabile
               repressione con l'allontanamento, in tempi diversi ed
               improvvisamente, di professori sostituiti da altri
               anche in corso d'anno mentre alcuni alunni si
               trasferirono alle scuole statali ed il tutto
               ovviamente tra cortine fumogene e completa
               omertà.Noi
               però continuavamo a pascere ignari nella nostra
               ignoranza, paludati alla zuava, ed a non essere
               allertati...L'ho
               ritrovato quell'indumento solo qualche anno fa in
               occasione delle vacanze estive in
               montagna.In
               quella circostanza, per inserirmi meglio nel contesto,
               mi travesto da alpinista con i miei scarponi, camicia
               di flanella classica, zainetto e pantaloni alla zuava
               stavolta di velluto.Accuratissima
               preparazione per poi percorrere a piedi i miei
               trecento metri in falsopiano ed ignominiosamente ma
               molto comodamente stravaccarmi sull'invitante verde
               prato a leggere il giornale...Rientriamo
               ora cronologicamente nel percorso.Dovetti
               aspettare il Liceo per potermi permettere i calzoni
               lunghi ed il terzo liceo per un vestito, grigio a
               strisce verticali ammiccante a quelli dei boss
               americani Anni Trenta, con giacca e
               cravatta.Naturalmente
               fu un vestito a doppio petto, forse anacronistico per
               l'età, ma che aveva il pregio di poter essere
               indossato anche in occasione di una certa
               importanza.Quell'abito
               aveva caratterizzato il mio abbigliamento alle prime
               festicciole da ballo, tutte rigorosamente in famiglia,
               un passo a destra e due a sinistra sull'aria di
               "Moulin Rouge" in allenamento davanti allo specchio
               dell'armadio, anche se conservava per settimane
               quell'odore penetrante di naftalina quando in novembre
               sostituiva gli abiti più leggeri.Si
               sposava, lo ricordo nitidamente, con quello di velluto
               marrone di Mariella, sorella di un nostro amico che
               portava con sé dalla nascita un odore d'antico,
               indossato per più volte in occasione dei suoi
               compleanni ed estratto solo nell'immediata vigilia
               dalla previdente conservazione
               antitarmica.Un
               abito alla "Via col vento" con una qualche
               rigidità interna per facilitarne la campana
               tanto che quando Mariella tentava quello che poteva
               allora apparire un abbraccio più ardito,
               ribellandosi quasi all'assenza dei nostri, le si
               alzava la gonna sul di dietro.Utilizzava,
               però, un tipo di naftalina che mi era
               familiare.Durante
               un valzer dalla gonna plissettata una volta ne era
               schizzata via una pallina e ne avevamo riso
               insieme.Naturalmente
               il vestito "buono" era fatto su misura da un sarto che
               godeva d'ottima fama.Alto,
               imponente, assumeva un'aria altamente professionale
               durante la prima misurazione e le successive prove con
               quegli occhialini sul naso e quel dischetto
               bianco-grigio di gesso che piroettava alla ricerca
               dell'imperfezione da correggere.La
               prima volta che all'improvviso si piegò sulle
               ginocchia e guardandomi dal basso verso l'alto mi
               chiese a bruciapelo: "Dove lo porti il
               disturbo?".Non
               capii, diventai rosso ma non capii immediatamente a
               cosa si riferisse.Rimasi
               un attimo indeciso anche perché se si riferiva
               a quello che impudicamente pensavo lui pensasse non
               l'avevo mai annoverato fra i disturbi di cui soffrivo
               e poi sopravvenne l'angoscia.Non
               avevo mai notato a dove riponevo il "disturbo";
               m'infilavo i pantaloni e basta.Incominciai
               a riflettere ma senza alcun risultato e la risposta a
               questo punto avrebbe dovuto essere: "Non lo so", ma ne
               andava della mia dignità.Se
               me l'aveva chiesto così repentinamente era
               normale e doveroso che avessi fatto ricerche
               approfondite in proposito.Non
               potevo non aver studiato il fenomeno anatomico ed
               allora risposi dall'alto verso il basso: "A
               sinistra!".E
               quel pezzetto di gesso tracciò un segno di
               moltiplica laddove avevo indicato.Mi
               sarei adattato, sì, mi sarei senz'altro
               adattato ma non potevo certo smentirmi perché
               mi era venuto il dubbio o quasi la certezza, subito
               dopo, che avrei dovuto indicare la destra e siccome il
               futuro dei miei vestiti su misura non c'era dubbio
               sarebbe passata da quelle mani, ed i sarti bravi non
               dimenticano!, mi sarei trovato per anni il "disturbo"
               dalla parte sbagliata.La
               notte mi svegliai di soprassalto e le mani corsero a
               verificare la posizione che... a sinistra, era a
               sinistra... ma quando analoghe constatazioni portarono
               a conclusioni diversificate dedussi d'essere
               ambidestro e finirono gli incubi. Ci ritrovavamo alla
               fine degli anni cinquanta ed avevo cominciato ad
               ascoltare il genere musicale che vedeva protagonisti
               Sinatra, Crosby e Perry Como che poi condusse un suo
               show in TV.Cominciai
               ad innamorarmi del loro modo di cantare e di vestire,
               anticonvenzionale ed elegante allo stesso
               tempo.Mi
               era rimasta impressa una giacca luccicante, io l'avrei
               preferita senza lustrini, molto più lunga del
               normale e con un solo bottone che costituiva la
               "divisa" della Voice.Si
               appressava l'epoca di una ritoccatina al guardaroba e
               discretamente cominciai a proporre in famiglia una
               simile eventualità.Il
               no reciso della prima ora cominciò nel tempo ad
               ammorbidirsi sino ad arrivare alla conclusione che si
               sarebbe chiesto il parere tecnico del
               sarto.L'addio
               mentale era di prammatica poiché mai e poi mai
               da quella sartoria sarebbe uscito un vestito non
               tradizionalmente testato ma dopo un rinvio dettato
               dall'indisponibilità fisica del "mago del
               doppio petto" ed il successivo annuncio del suo ritiro
               dall'attività per artrosi si dirottò su
               di un'altro sarto emergente.Fu
               un successo, ne aveva già confezionate almeno
               tre di quelle giacche..., e quando andai a ritirarla
               l'indossai immediatamente facendo il percorso sino a
               casa ondeggiando come avevo visto fare dai miei idoli
               e fischiettando un motivetto swing.Fu
               la prima e l'ultima volta che l'indossai.Quella
               stessa sera mio fratello era stato invitato ad una
               festa di ballo in una casa della Napoli bene e
               trafugò letteralmente, lo facevamo per la
               verità sovente entrambi, la
               giacca-simbolo.Ed
               avvenne l'imprevedibile.Si
               era ubriacato per la prima volta e se ne vergognava
               tanto da vomitare, nascondendo la testa nella giacca,
               nel suo taschino interno.Ce
               lo portarono a braccia ed io già impallidii
               vedendolo con indosso quell'indumento ma non mi
               accorsi dell'inghippo.Al
               mattino successivo un odore nauseabondo mi
               portò fino al mio sospirato indumento sul quale
               spiccava crudelissima una vistosa macchia
               rossiccia.Tetragona
               a qualsiasi tentativo di smacchiatura rimase per
               qualche tempo, non riciclabile, sull'appendiabiti
               dell'ingresso consentendomi ad ogni ingresso od uscita
               di casa un solido rimpianto all'eliminazione tentata e
               mancata nell'infanzia.Primo
               ed ultimo vagito di personalizzazione senza la rituale
               coercizione di fattori esterni.Ci
               pensò infatti subito il servizio di leva a
               ripristinare l'indirizzo primordiale.Nei
               primi giorni del Corso ufficiale ci fu l'inevitabile
               "vestizione".Avemmo
               in dotazione il corredo militare che in qualche modo
               si adeguava alle nostre caratteristiche ad eccezione
               di un maxi cappotto che costituì un caso
               simbolo di burocrazia surreale.A
               me ed a due altri commilitoni furono assegnati gli
               ultimi cappotti disponibili che molto probabilmente
               corrispondevano alle proiezioni statistiche della
               fornitura che prevedevano in ogni plotone almeno tre
               coscritti d'altezza superiore al metro e
               novanta.Ed
               in quello scaglione quei tre non c'erano.Così
               le nostre elefantiache palandrane solleticavano il
               terreno e le suole dei nostri anfibi.Rascel
               con il suo corazziere ne aveva fatto una macchietta ma
               noi ci esibivamo dal vivo con simili risultati
               d'ilarità.Ci
               era stato impedito di presentare ricorso ad un sarto
               per un adattamento poiché il regolamento
               disponeva che il timbro della fornitura militare non
               potesse essere rimosso e lo stesso faceva bella mostra
               di sé proprio sul fondo della parte
               interna.Fortunatamente
               in possesso di una buona dose d'autoironia ed ormai
               inseparabili ci presentammo per alcuni giorni, l'ora
               della libera uscita, per l'abituale rassegna
               dall'ufficiale di picchetto, cui malcelati moti
               d'ilarità rischiavano di compromettere l'aplomb
               tradizionale, che sistematicamente ci ricacciava in
               camerata senza peraltro fornire una motivazione
               plausibile in termini di regolamento.Routinariamente
               e consapevoli della situazione pirandelliana
               chiedevamo di essere messi a rapporto dal colonnello
               comandante che, non faticando ad identificarsi col
               personaggio della commedia ormai in scena, ci leggeva
               il paragrafo regolamentare.Restò
               il fatto che per dieci giorni fummo gli unici a non
               aver usufruito del permesso di varcare quel cancello
               presidiato.Fu,
               poi, il trionfo dell'ipocrisia a risolvere i ghirigori
               alienanti della burocrazia.Mandammo
               da un sarto esterno alla caserma i nostri cappotti che
               furono bellamente accorciati senza autorizzazione ma
               senza l'inevitabile controllo successivo che ci
               saremmo dovuti aspettare.Poi
               venne il posto in banca e nel frattempo poiché
               mi rimproverano spesso di non aver fatto il
               sessantotto (io credevo d'averli fatti tutti ma...
               può darsi...) ho bellamente evitato di
               intrupparmi in eskimo e similia.Decidere,
               nel tempio dell'economia, di derogare al tradizionale
               abbigliamento d'ufficio con giacca e cravatta di stile
               classico sarebbe stato un karakiri ed a curare questo
               aspetto formale, con gli accostamenti ed i modelli
               dettati dalla moda, dopo il matrimonio si sono
               autodesignate moglie e figlie.Ora
               ci pensano Valentino, Missoni od altri stilisti
               coordinati dal sopraggiunto comitato femminile
               preposto all'addobbo del marito o del babbo se la
               tredicesima è ricca o provvede il mercatino
               rionale con lo stesso comitato se c'è la
               ritenuta IRPEF.Di
               riciclaggio, a questo punto, manco a
               parlarne.Mi
               spariscono dintorno ed improvvisamente indumenti in
               cui mi sento comodo, cui magari sono affezionato, (si,
               lo confesso, mi ci affeziono...) con una tecnica che
               farebbe invidia a Silvan.M'immagino
               già, spero almeno tra un cinquantennio, disteso
               dopo l'ultimo anelito costretto a subire l'ultimo
               "addobbo"..."No,
               c'è l'abito nero... lo snellisce... con la
               cravatta rossa...""Rossa?...
               In questa occasione?...""Allora
               quella d'Armani che gli abbiamo regalato all'ultimo
               Natale..."Spero
               proprio che non ripeschino alla fine quella giallina,
               quella che chiaramente mi era pervenuta dopo un
               affannoso giro di regali riciclati, che ho nascosto
               nell'ultimo cassetto.Sarebbe,
               allora proprio sì, uno sfregio per
               l'eternità...Insomma
               riciclo o non riciclo ma, scontato, un concreto filo
               di dipendenza estetica-formale.Chissà
               come sarei apparso, esteticamente voglio dire, senza
               tutte queste persone che si sono affannate a decidere
               sul mio aspetto esteriore fidando anche sul fatto che
               non ne facessi una questione di fondamentale
               importanza?Gianni,
               per esempio, lo si riconosce anche da lontano con le
               sue anomale giacche rosse e Achille che indossa sempre
               i jeans, anche al suo matrimonio ricordo, sono
               identificati anche per il loro modo di
               vestire.È
               vero che l'abito non fa il monaco ma in questa
               società frettolosa ci sono non pochi che
               presumono, anche se è questo un clamoroso
               sintomo d'imbecillità, da un primo approccio
               formale di saper stilare un giudizio
               definitivo.Per
               cui devi continuamente fare i conti con frasi del
               tipo: "Non avrei mai pensato che tu..."Che
               dire poi del fatto che le motivazioni dell'ingerenza
               siano sintetizzate dalle frasi del tipo: "Se ti lascio
               (o ti lasciamo...) uscire conciato in questo modo la
               gente cosa penserà di me?"Di
               lei, kafkiano, o di loro, non di me che esco concitato
               secondo i loro gusti...In
               balia di quest'insonnia che mi accompagna da qualche
               tempo rimugino una soluzione-escamotage che mi era
               familiare un secolo fa...Da
               pensionato, ricorrere ai miei trucchi da ragazzino
               quando di nascosto andavo a giocare a pallone:
               nascondere i panni nello sgabuzzino e cambiare
               identità appena fuori dall'uscio."Lo
               vedi quello? è un pensionato e si veste da
               ragazzino!" |