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- L'autobiografia
come genere letterario
- e lo
scrittore scoprì
l'Io"
- di
Olivia Trioschi
-
- «Così parlavo e
piangevo nell'amarezza sconfinata del mio cuore
affranto. A un tratto dalla casa vicina mi giunge una
voce, come di fanciullo o fanciulla, non so, che
diceva cantando ripetendo più volte: 'Prendi e
leggi, prendi e leggi'. Mutai d'aspetto all'istante e
cominciai a riflettere con la massima cura se fosse
una cantilena usata in qualche gioco da ragazzi, ma
non ricordavo di averla udita da nessuna parte.
Arginata la piena delle lacrime, mi alzai. L'unica
interpretazione possibile era per me che si trattasse
di un comando divino ad aprire il libro e a leggere il
primo verso che vi avrei trovato. [...].
Appena terminata la lettura di questa frase, una luce,
quasi, di certezza penetrò nel mio cuore e
tutte le tenebre del dubbio si
dissiparono».
- «M'impegno in un'impresa
senza esempio, e la cui esecuzione non avrà
imitatori. Voglio mostrare ai miei simili un uomo
nella nuda verità della sua natura; e
quest'uomo sarò io. Io solo. Sento il mio cuore
e conosco gli uomini. Non sono fatto come nessuno di
quelli che ho incontrati; oso credere di non essere
come nessuno di quanti esistono. Se non valgo di
più, sono almeno diverso. Se la natura abbia
fatto bene o male rompendo lo stampo nel quale mi ha
colato, non si può giudicare che dopo avermi
letto. Suoni pure, quando vorrà, la tromba del
giudizio finale: io mi presenterò al giudice
supremo con questo libro fra le
mani».
- Quindici secoli separano
queste voci. Sono voci di uomini che hanno
intensamente vissuto e segnato la loro epoca, pietre
miliari nella storia infinita della conoscenza di
sé, sola strada attraverso cui può
avvenire la conoscenza del mondo. E sono voci
autentiche: ciascuno, leggendo queste righe,
può sentire e sente ancora oggi l'intensa
passione da cui sono nate, il supremo desiderio di
verità che le anima. Sono confessioni entrambe:
e proprio questo, Le confessioni, è il titolo
dei volumi da cui sono tratte. Gli autori - e a questo
punto è quasi superfluo ricordarlo - sono
Agostino, il grande vescovo di Ippona vissuto nel IV
secolo, e Jean Jacques Rousseau, filosofo e gran
camminatore, icona sia dell'illuminismo che del
romanticismo.
- Le Confessioni, quelle di
entrambi, appartengono a un genere letterario preciso,
l'autobiografia. Sentiamo come un critico letterario
importante, Lejeune, lo ha individuato: «racconto
retrospettivo in prosa che una persona reale fa della
propria vita mettendo l'accento sulla vita individuale
e in particolare sulla storia della sua
personalità». Questa definizione, forse un
po' arida come tutto ciò che cerca di
sistematizzare e catalogare ciò che nasce per
magica alchimia tra intelligenza ed emotività,
è però assai utile perché
consente di porre l'accento su alcuni elementi che
appartengono solo e soltanto all'autobiografia come
genere. Chiunque, e sono tanti, cerchi di scrivere di
sé dovrebbe tener presente che solo il rispetto
di queste indicazioni di massima fa sì che si
possa parlare propriamente di
autobiografia.
- Intanto si tratta di una
questione formale: la forma, dice Lejeune, è in
prosa; poi l'argomento: si tratta della storia di una
personalità; e infine il rapporto
autore/narratore: c'è identità tra i due
- e deve trattarsi di un personaggio reale -
così come c'è identità tra
narratore e personaggio principale. Si può poi
aggiungere, come conseguenza, che trattando il
narratore della sua storia personale il
raccontò avrà una visione retrospettiva,
cioè sarà svolto facendo uso di verbi al
passato e al contempo di verbi al presente che
richiamino l'atto dello scrivere. Ci sono poi alcuni
elementi contenutistici ricorrenti che emergono anche
dai due brevissimi esempi che abbiamo citato
all'inizio: l'insistenza sulla sincerità,
verità e completezza del racconto, segnali
questi necessari per stabilire un rapporto di fiducia
col lettore il quale, ricevendo un messaggio che per
sua natura non è verificabile, deve essere
indotto a credervi; la consapevolezza della
novità della propria impresa, l'esaltazione
della propria individualità, la presenza del
destinatario (il "voi", gli appelli al lettore
perché partecipi con esclamazioni e domande
all'operazione di scrittura).
- L'autobiografia si configura
in questo modo come un genere specifico, genere che ha
conosciuto enorme fortuna, dal punto di vista della
storia della letteratura, a partire dalla seconda
metà del Settecento. Si può anzi dire,
magari forzando un po' la mano, che i quindici secoli
che separano Rousseau da Agostino sono di silenzio del
sé - nei termini prima individuati - se si
eccettuano alcuni esempi (anche clamorosi, basti
pensare alla famosissima Storia delle mie disgrazie di
Abelardo). Cosa accade, dunque, sul finire del
Settecento, che porta gli scrittori a raccontare la
propria vita, e soprattutto la costruzione della
propria personalità, come fatto conoscitivo
irrinunciabile, come esperienza che può e deve
essere condivisa? Non trattandosi di equazioni
matematiche è ovviamente impossibile stabilire
precisi legami di causa-effetto; ciò
nonostante, si può tentare qualche ipotesi
partendo dalla considerazione che due fatti si
innestano tra loro proprio in quel periodo: uno
appartiene alla storia della mentalità, l'altro
alla storia politica. Il primo è il
Romanticismo, il secondo la Rivoluzione Francese.
È noto come il Romanticismo, la cui culla
è stata la Germania di Novalis, dei Fratelli
Grimm, delle saghe medievali, riporta prepotentemente
l'attenzione su tutto ciò che nella
personalità umana sfugge al controllo della
ragione: emozione, sentimento, paure, desiderio. Sturm
und Drang, tempesta e impeto, era il nome di uno dei
primi circoli romantici tedeschi. Il tentativo
è quello di dare un nome anche ai lati oscuri
dell'animo, alle ombre, ai tormenti; di misurarsi con
l'immensità della natura sentendosene parte,
confondendosi in un universo infinito per trovare
l'Uno e compensare gli opposti. È ciò
che Friedrich ha messo nel quadro in copertina: l'uomo
solo di fronte a un mare in tempesta, immerso nelle
onde fumiganti, stagliato contro il cielo aperto.
L'uomo che sfida ma cerca anche di comprendere.
L'altro fatto, la Rivoluzione Francese, porta con
sé una delusione storica per tutti gli
intellettuali che avevano creduto con tutto
l'entusiasmo e la volontà di cui erano capaci
che davvero si stava aprendo un'era nuova per
l'umanità, che davvero l'ingiustizia e il
sopruso sarebbero stati sconfitti per sempre, che
davvero la fratellanza avrebbe trionfato e mai
più un uomo avrebbe schiacciato un altro uomo.
Non fu così, si sa. Quando la Rivoluzione
rientrò, lasciando tutti nauseati del sangue
versato, del furore e dell'odio accecante, si
scoprì che aveva vinto la borghesia, la quale
aveva da pensare alle proprie botteghe e ai propri
affari, e solo di striscio ai propri affetti. Il
contrasto tra stato di natura e storia, già
tragico per Rousseau, divenne incolmabile. Ed ecco
allora il ripiegamento in se stessi, la
necessità di indagare la propria
interiorità anche come modo per fuggire da un
mondo tanto ordinato quanto squallido. Di conseguenza
il modulo privilegiato dell'espressione diventa quello
della narrazione soggettiva e della confessione, anche
in forma epistolare: i modelli sono Werther, Ortis
(protagonisti però di romanzi epistolari e non
di autobiografie, anche se è noto come in essi
confluisca gran parte della personalità degli
autori, Goethe e Foscolo) e ovviamente le Confessioni
di Rousseau.
- Torniamo allora a questo
capolavoro per conoscerlo più da vicino. Come
si è detto, ci sono tutte le tecniche del
racconto autobiografico: numerosi sono i segnali della
veridicità e della trasparenza, anche
impietosa, dei ricordi; altrettanto numerosi sono gli
appelli al lettore; si notano i momenti caratteristici
delle autobiografie: nascita, rapporti familiari,
sessualità infantile, iniziazione al mondo. Lo
stile, è stato notato, è una mescolanza
tra tono elegiaco e tono picaresco che riflette la
filosofia della storia di Rousseau. Il tono elegiaco,
prevalente nell'infanzia, esprime il sentimento della
felicità perduta, del rimpianto per
un'età in cui il fanciullo (come l'uomo delle
origini) possedeva la felicità e l'innocenza;
il tono picaresco domina l'età adulta in quanto
tempo della riflessione lucida ma anche della
debolezza, dell'umiliazione e degli espedienti. Il
passato, dunque, è al contempo il periodo
benedetto della completezza di sé e quello del
sonno della ragione; nel presente si vive al contrario
il sorgere della razionalità e la perdita del
paradiso. Proprio questo - la perdita del paradiso -
è uno dei temi che ricorrono con più
insistenza insieme con quello del rapporto tra essere
(che coincide con l'innocenza) e apparire (dove
l'apparenza è invece sinonimo di colpevolezza);
un altro contenuto significativo è il problema
del male e dell'ingiustizia, ciò che caccia il
fanciullo innocente dal paradiso gettandolo in un
mondo di sopruso e inganno. Tutti temi ben
esemplificati nel famoso episodio del pettine della
signorina Lambercier, istitutrice gentile e ferma come
una madre, la quale punisce il giovane Jean Jacques
per un delitto (la rottura di un pettine) non commesso
nonostante tutte le apparenze inducessero al
contrario. «Immagini il lettore - scrive Rousseau
- un carattere timido e docile nella vita ordinaria,
ma ardente, fiero, indomito nelle passioni, un ragazzo
sempre educato dalla voce della ragione, sempre
trattato con dolcezza, equità, compiacenza, che
non concepiva neppure l'ingiustizia e che, per la
prima volta, ne subisce una così terribile, e
precisamente dalle persone che egli ama e rispetta di
più: che capovolgimento di idee! Quale
scompiglio di sentimenti! [...] Quella prima
impressione della violenza e dell'ingiustizia mi
è rimasta così profondamente scolpita
nell'anima che ogni idea che vi si collega mi ridona
la mia prima commozione, e quel sentimento, che
riguarda me nella sua origine, ha preso in sé
tale consistenza, e si è staccato così
perfettamente da qualsiasi interesse personale, che il
mio cuore si infiamma alla visione o al racconto di un
atto ingiusto, qualunque sia l'oggetto e dovunque sia
commesso, come se l'effetto ricadesse su di me».
Rousseau adulto proclama la sua assoluta innocenza con
il duplice intento di mettere in mostra come
l'ingiustizia, emersa nell'ambiente più
accogliente, mette in moto il suo temperamento e lo
rende nemico di ogni sopruso (riflessione questa nata
dalla realtà e non da esperienze libresche);
rileva inoltre come tutto ciò produca un
effetto nefasto sul fanciullo: si è spenta la
gioia istintiva di una vita innocente.
- L'episodio clou, l'evento che
rivoluziona la vita umana, è un altro elemento
che caratterizza l'autobiografia.
L'autore/narratore/protagonista che ripensa alla sua
vita, o a una fase precisa di essa, individua quel
momento rivelatore in cui il mondo è apparso in
una luce diversa, quell'istante chiarificatore che
come un lampo ha illuminato tutta un'esistenza facendo
germinare da sé tutta una serie di conseguenze,
e lo pone al centro della sua narrazione (centro
ideale, ovviamente, non fisico) dipanando da esso il
primo e il dopo. Spesso nelle autobiografie questo
momento viene ricollegato alla lettura di un libro: si
è visto l'esempio di Agostino, che dalla
lettura di un passo trae la consapevolezza della
propria vocazione; lo stesso Rousseau ricorda in
più luoghi le letture di Plutarco, letture cui
attribuisce la formazione del suo spirito repubblicano
e del suo carattere indomito, impaziente di giogo e
servitù. Ancora a Plutarco si riferisce
Alfieri, anche lui autore di una celebre Vita, quando
cita modelli ideali di comportamento, eroi che hanno
saputo dire e fare alte cose; Werther leggeva Ovidio,
Ortis Omero. Potremmo chiamare questo topos
dell'episodio clou "conversione": ovviamente non in
termini strettamente religiosi (per quanto la propria
vita andrebbe vissuta con lo stesso impegno e la
stessa fede di cui si nutre il sentimento religioso)
ma in termini di profonda comprensione di quella che
è la propria vocazione: chi sono, cosa voglio
fare di me, che cosa mi fa sentire davvero vivo.
Vocazione che può essere realizzata pienamente,
come nel caso di Agostino, o anche negata: Rousseau
dichiara apertamente la vita diversa, più
semplice ma bruciata dal destino, che avrebbe
voluto.
- Per Alfieri la scoperta della
vocazione di scrittore avviene nell'Epoca III della
sua Vita ed è il risultato di una
predisposizione che viene da quel momento
compiutamente perseguita; per Goldoni, che sul finire
della vita scrive le sue corpose memorie, è una
forza centripeta - la realizzazione della riforma
teatrale - che unifica tutte le vicende. Se citiamo
questi due esempi è perché si tratta
delle più giustamente note autobiografie
scritte da italiani dopo le Confessioni di Rousseau ed
è chiaro, a questo punto, che non è
possibile prescindere dallo snodo fondamentale del
grande francese quando si parla dello scrivere di
sé. Si tratta anche in questi due casi di
volumi estremamente corposi ma godibilissimi, sia pure
per motivi diversi. Goldoni rispecchia la
realtà nella sua dimensione visibile, parla
diffusamente di incontri, viaggi, luoghi, vita di
teatro, persone e personaggi e si appaga di
ciò, creando un mobilissimo e colorato affresco
della società di fine Settecento, degli
ambienti colti veneziani e parigini; e tutto
ciò non tanto con la superficialità che
pure un grande critico come De Sanctis vi aveva voluto
vedere ma piuttosto con la sapienza di vita che deriva
dai tanti anni vissuti (e Goldoni ne aveva ottanta
quando pose mano alle sue memorie), dal distacco ormai
tangibile nei confronti delle cose che, si sa,
verranno lasciate tra breve e dal disincanto che ormai
impedisce di andare oltre il racconto delle cose nella
sfera dell'idealità. La Vita alfieriana
è piuttosto la storia di un'anima: quello che
viene fuori è un paesaggio interiore, il
ritratto di un uomo; da questo punto di vista è
possibile classificarla (come del resto tutte le
autobiografie) come bildungsroman, romanzo di
formazione: quella tipologia di romanzo moderno che
descrive le esperienze attraverso le quali passa il
protagonista per acquisire consapevolezza della
propria identità e del proprio destino. La Vita
è l'opera che conclude la galleria di eroi
alfieriani con l'ultimo, lui stesso, ormai in grado di
trasferire letterariamente (nelle tragedie) i suoi
desideri e la sua concezione agonistica della vita. Il
tono che ne deriva è risentito ed eroico e crea
un mito umano che influenzerà profondamente le
generazioni successive (basti pensare a
Foscolo).
- Un altro mito umano è
Giacomo Casanova, il quale pure si cimenta sul finire
del Settecento in una voluminosa Storia della mia vita
che se non è propriamente la storia di una
personalità può essere senz'altro fatta
rientrare nel filone autobiografico sia per la
lontananza dei due tempi (passato/presente) sia per
l'esatta coincidenza tra il personaggio libertino che
si muove in ambiente salottieri incontrando
intellettuali e cortigiane e discorrendo amabilmente
di letteratura e politica e l'autore delle pagine. E
anche in questo caso, come si è visto per
Goldoni, non si tratta di ritratti sommari e
superficiali ma di un'attenta ricostruzione di
un'epoca e una società prescindendo da una
tensione ideale sentita come molto
lontana.
- Una declinazione particolare
del genere autobiografia è il romanzo
autobiografico. Da un punto di vista tecnico le
differenze non sono poi eccessive: permangono infatti
l'identità narratore-protagonista, il narrare
in prosa con impostazione retrospettiva e,
soprattutto, la storia della personalità come
nucleo della vicenda; ciò che salta è
l'identità autore-narratore, anche se grosse
fette della vita e della personalità del primo
finiscono per confluire nel secondo. Tra i più
significativi romanzi autobiografici moderni non si
può non ricordare due titoli straordinari,
entrambi inglesi: Robinson Crusoe di Daniel Defoe e La
vita e le opinioni di Tristram Shandy di Daniel Defoe.
Defoe è questo personaggio assolutamente
singolare che dopo aver fatto il pubblicista decide
che ha bisogno di soldi per sposare la figlia e
propone a un editore il seguente patto: io ti consegno
trecentocinquanta pagine di memorie di un naufrago e
ti assicuro che avranno grande successo data la
risonanza che un fatto simile ha appena avuto
(ovviamente usciranno anonime per avvalorare l'idea
della testimonianza di vita vissuta), e tu mi dai quel
che mi serve per la dote. Detto fatto, il Robinson
esce di lì a poco ed è un successo
strepitoso grazie al fuoco di fila di invenzioni e
avventure che si dispiegano in ogni pagina: naufragi,
pirati, luoghi lontani ed esotici abitati da selvaggi,
prigionie, fughe e quant'altro si riesce a immaginare.
Una realtà (perché così viene
proposto il volume) che però mantiene i
connotati della fuga nell'immaginario, con in
più tutta una serie di valori intensamente
sentiti e condivisi dalla rampante borghesia inglese:
capacità, operosità, intraprendenza,
civilizzazione di selvaggi e assoggettamento della
natura. Certo, a una lettura di secondo livello appare
anche che Robinson, in realtà, non "vince" la
natura con oggetti costruiti da lui ma con relitti del
naufragio e che "civilizza" Venerdì facendone
il suo schiavo, e tutto ciò ha il colore e il
sapore del sopruso: ma resta il fatto che si tratta
del paradigma degli elementi di sopraffazione insiti
nell'economia di mercato nella sua fase espansiva, e
ciò non poteva non colpire l'immaginario
collettivo di una nazione aggressiva e potente come
l'Inghilterra. Ben diverso il Tristram Shandy, che
dichiara sin dal titolo come ciò che conti sono
le opinioni, non le avventure; ciò che il
protagonista pensa, non la realtà esteriore. E
difatti è operazione praticamente impossibile
ricostruire la fabula di questo romanzo scritto in
prima persona ma in cui, paradossalmente, il
protagonista non compare che nel III libro dicendo
comunque assai poco della sua vita (tra l'altro il
romanzo è incompiuto, si ferma al IX volume e
non va oltre la fanciullezza di Tristram); si sa molto
di più degli eventi precedenti la sua nascita,
raccontati seguendo il filo tortuoso dei suoi pensieri
con una tecnica straordinariamente moderna che
più di un secolo dopo verrà chiamata
flusso di coscienza. E, cosa che non guasta, si tratta
di una lettura divertente, talvolta spassosa, che non
soffre assolutamente dei duecento anni passati dal
momento della scrittura né come linguaggio
né come stile.
- L'autobiografia (con tutte le
sue declinazioni in termini di sottogeneri, come il
romanzo autobiografico tradizionale e/o epistolare)
non ha cessato di esercitare il fascino "riscoperto"
dagli scrittori un paio di secoli fa. Nel Novecento,
poi, si è assistito al singolare fenomeno
dell'appropriazione di questo strumento espressivo da
parte delle donne, che ne hanno fatto anche un momento
di conoscenza del proprio essere diverse rispetto
all'universo maschile con risultati di grande
letteratura. Parlare di sé, in realtà,
rappresenta un momento altamente consolatorio: e
quando questo si fonde con una reale sicurezza di
stile lo scrittore diventa una "porta", un canale
attraverso il quale passano le emozioni e i travagli
di tutti. Perché il mondo è fatto di
tante singole individualità, e solo la
condivisione degli affetti può far sentire meno
soli; si vorrebbe però che questo non
diventasse mercificazione, esibizione sbandierata e
sgangherata di tante "vite vere" e "vite vissute"
gettate in pasto a famelici spettatori (non più
lettori, e questo è un vero guaio) pronti ad
assorbire tutto senza entrare in empatia con niente e
nessuno. La vita individuale - l'esperienza
individuale - è l'unica vera ricchezza che
all'uomo è dato possedere: è
straordinario che si riesca a farne patrimonio comune,
ma è triste e squallido che diventi solo metro
per misurare audience. Rifarsi a modelli di
autentiche, grandi autobiografie del passato è
forse l'unico modo per riappropriarsi di uno strumento
espressivo eccezionale e dalle potenzialità
uniche, che va però coltivato con sapienza e
usato con intelligenza e cuore.
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- Olivia
Trioschi
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- www.club.it/autori/olivia.trioschi
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- Dal
libro I de Le Confessioni di J. J.
Rousseau
- Einaudi,
Torino, (1978)
-
- Ecco il solo ritratto d'uomo,
dipinto scrupolosamente dal vero e con assoluta
fedeltà, che esiste, e che probabilmente
esisterà mai. Chiunque siate voi, che il mio
destino o la mia fiducia hanno reso arbitro di questo
scritto, per le mie sventure, per le vostre viscere, e
a nome dell'intera specie umana, vi scongiuro di non
distruggere un'opera utile e unica, la quale
può servire come prima pietra di paragone per
quello studio degli uomini che certamente si deve
ancora cominciare, e di non spogliare l'onore della
mia memoria del solo documento sicuro sul mio
carattere che i miei nemici non abbiamo sfigurato. E
anche se foste voi, proprio voi, un mio nemico
implacabile, smettete d'esser tale verso le mie
ceneri, e non spingete la crudeltà della vostra
ingiustizia sino al tempo in cui né io
né voi saremo più in vita,
affinché almeno una volta possiate offrirvi la
nobile dimostrazione d'essere stato generoso e buono
quando potevate essere maléfico e vendicativo:
se il male non si fa a un uomo che non ne ha mai fatto
o voluto fare possa pur prendere il nome di
vendetta.
-
- J.J.
Rousseau
-
- Libro
primo
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- Intus et in
cute.
-
- M'impegno in un'impresa senza
esempio, e la cui esecuzione non avrà
imitatori. Voglio mostrare ai miei simili un uomo
nella nuda verità della sua natura; e
quest'uomo sarò io.
- Io solo. Sento il mio cuore e
conosco gli uomini. Non sono fatto come nessuno di
quelli che ho incontrati; oso credere di non essere
come nessuno di quanti esistono. Se non valgo di
più, sono almeno diverso. Se la natura abbia
fatto bene o male rompendo lo stampo nel quale mi ha
colato, non si può giudicare che dopo avermi
letto.
- Suoni pure, quando
vorrà, la tromba del giudizio finale: io mi
presenterò al giudice supremo con questo libro
fra le mani. Gli dirò fieramente: «Ecco
che cosa ho fatto, che cosa ho pensato, che cosa fui.
Ho detto il bene e il male con la stessa franchezza.
Nulla ho taciuto di cattivo, nulla ho aggiunto di
buono e, se ho usato qua e là qualche
trascurabile ornamento, l'ho fatto solo per colmare le
lacune della mia memoria: ho potuto supporre vero
quanto sapevo che poteva esser stato tale, mai
ciò che sapevo falso. Mi sono mostrato come
fui, spregevole e vile quando lo sono stato, buono,
generoso, sublime, quando lo sono stato: ho svelato il
mio essere interiore come tu stesso lo hai veduto.
Essere eterno, raduna intorno a me l'innumerevole
turba dei miei simili: ascoltino le mie confessioni,
piangono sulle mie bassezze, arrossiscano per le mie
miserie. Ciascuno d'essi con la stessa
sincerità scopra a sua volta il suo cuore ai
piedi del tuo trono: e poi uno solo ti dica, se ne ha
il coraggio: "Io fui migliore di
quell'uomo"».
- Sono nato a Ginevra nel 1712,
da Isaac Rousseau, cittadino, e da Suzanne Bernard,
cittadina. La divisione fra quindici figli d'un
patrimonio men che mediocre avendo ridotto a nulla o
quasi la parte di mio padre, questi non aveva per
vivere che il suo mestiere di orologiaio, nel quale
per la verità eccelleva. Mia madre, figlia del
ministro Bernard, era più ricca: aveva
onestà e bellezza, e mio padre non l'aveva
ottenuta senza difficoltà. I loro amori avevano
avuto inizio quasi con le loro esistenze: già
fra gli otto e i nove anni andavano insieme ogni sera
sulla Treille, a dieci anni non potevano più
staccarsi. La simpatia, l'armonia delle anime
approfondì il sentimento nato dall'abitudine.
Entrambi, nati teneri e sensibili, non aspettavano che
il momento di scoprire in un altro le stesse
disposizioni o, meglio, quel momento attendeva loro; e
ciascuno dei due riversò il suo cuore nel primo
che si aprì a riceverlo. La sorte, che pareva
opporsi alla loro passione, non fece che ravvivarla.
Il giovane innamorato, non potendo ottenere la sua
donna, si struggeva di dolore: lei gli
consigliò di dimenticarla viaggiando. Egli
viaggiò senza frutto, e tornò più
innamorato di prima. Ritrovò tenera e fedele la
ragazza che amava. Dopo simile prova, non restava che
amarsi per la vita. Lo giurarono, e il cielo
benedì il loro giuramento.
- Grabriel Bernard, fratello di
mia madre, s'innamorò di una sorella di mio
padre. Ma la condizione posta da lei fu che avrebbe
sposato il fratello solo se suo fratello ne avesse
sposata la sorella.
- L'amore pose rimedio a tutto,
e i due matrimoni si celebrarono nello stesso giorno.
Mio zio materno era perciò marito di mia zia
paterna, e i loro figli furono doppiamente miei cugini
germani. Ne nacque uno a entrambe le coppie in capo a
un anno.
- Poi bisognò ancora
separarsi.
- Mio zio Bernard era
ingegnere: andò a servire nell'Impero e in
Ungheria agli ordini del principe Eugenio. Si distinse
nell'assedio e alla battaglia di Belgrado. Mio padre,
dopo la nascita del mio unico fratello, partì
per Costantinopoli, dov'era chiamato, e divenne
orologiaio del Serraglio. Mentre era lontano, la
bellezza di mia madre, la sua intelligenza, i suoi
doni le attirarono vari omaggi. Il signor della
Closure, residente in Francia, fu tra i più
premurosi a offrirgliene. La sua passione doveva
essere ardente davvero, se ancora trent'anni dopo l'ho
visto commuoversi parlandomi di lei. Per difendersi,
mia madre aveva uno scudo più sicuro della
virtù: il suo tenero amore per il marito. Lo
pregò di tornare: lui lasciò tutto e
rimpatriò. Fui io il triste frutto di quel
ritorno. Nacqui, dieci mesi dopo, debole e malaticcio;
costai la vita a mia madre, e la mia nascita fu la
prima delle mie sventure.
- Non ho mai saputo come mio
padre sopportò quella perdita, ma so che non se
ne consolò mai. Credeva di rivederla in me,
senza poter dimenticare che gliel'avevo tolta io: non
mi abbracciò mai senza ch'io non sentissi dai
suoi sospiri, dai suoi abbracci convulsi, che un
rimpianto amaro s'insinuava nelle sue carezze: erano
perciò anche più tenere. Quando mi
diceva: «Jean-Jacques, parliamo di tua
madre», io gli dicevo: «Ebbene, babbo,
dunque ora piangeremo»; e bastava questa parola a
strappargli le lagrime.
- «Oh! - gemeva,
ridammela, consolami di lei, colma il vuoto che mi ha
lasciato nell'animo. Ti amerei così se tu non
fossi che mio figlio?» Quarant'anni dopo che
l'aveva perduta, egli morì fra le braccia di
una seconda moglie, ma col nome della prima sulle
labbra e la sua immagine nel profondo del
cuore.
- Tali furono gli autori della
mia vita. Di tutti i doni che il cielo gli aveva
accordati, un cuore sensibile è l'unico che
essi mi trasmisero: ma esso aveva fatto la loro
felicità, e fu la fonte di tutte le mie
sventure.
- Ero nato quasi morente:
disperavano di salvarmi. Portai in me il germe di un
male che poi gli anni rafforzarono, e che ora non mi
dà quale momento di sollievo e per lasciarmi
soffrire più crudelmente in un'altra maniera.
Una sorella di mio padre, ragazza amabile e savia, mi
curò tanto che mi salvò.
- Nel momento in cui scrivo
queste pagine, ella vive ancora, e, all'età di
ottant'anni, assiste un marito più giovane, ma
consumato dal vino. Cara zia, vi perdono di avermi
costretto a vivere, e mi addolora non potervi
ripagare, al termine della vostra vita, le cure che mi
avete prodigato all'inizio della mia. Anche
Jacqueline, la mia balia, vive ancora, sana e robusta.
Le mani che mi aprirono gli occhi alla mia nascita
potranno chiuderli alla mia morte.
- Sentii prima di pensare:
è la sorte comune degli uomini. Ne feci la
prova più d'ogni altro. Non so quel che feci
sino a cinque o sei anni, non so come imparai a
leggere, ricordo soltanto le mie prime letture e
l'effetto che produssero su me: è il tempo al
quale faccio risalire senza più interruzioni la
coscienza di me stesso. Mia madre aveva lasciato dei
romanzi. Ci mettemmo a leggerli dopo cena, mio padre e
io. Da principio, si trattava solo di esercitarmi alla
lettura con qualche libro divertente; ma in breve
l'interesse divenne così vivo che leggevamo
alternandoci senza riposo, e trascorrevano le notti in
quella occupazione. Non potevamo staccarcene che a
volume finito. Qualche volta mio padre, sentendo al
mattino le rondini, diceva tutto vergognoso:
«Andiamo a letto: sono più bambino di
te!»
- In breve tempo, non tardai ad
acquistare, con quel pericoloso metodo, non solo una
facilità estrema di leggere e di capire me
stesso, ma una intelligenza delle passioni unica per
la mia età. Non avevo nessun'idea delle cose, e
già conoscevo tutti i sentimenti.
- Non avevo concepito nulla, e
avevo sentito tutto. Le emozioni confuse, che provavo
una dopo l'altra, non mi guastavano la ragione, che
ancora non avevo; ma me ne plasmarono una d'una tempra
diversa, e m'ispirarono intorno alla vita umana idee
bizzarre e romanzesche, dalle quali esperienza e
riflessione non mi hanno mai potuto guarire del
tutto.
- I romanzi finirono con
l'estate del 1719. L'inverno seguente, ci fu ben
altro. Esaurita la biblioteca di mia madre, ricorremmo
alla parte di quella di suo padre ch'era toccata in
eredità a noi.
- Per nostra fortuna, vi si
trovarono libri buoni, né poteva essere
diversamente, trattandosi di una raccolta messa
insieme bensì da un ministro e anche dotto,
come allora era di moda, ma uomo di buon gusto e
d'ingegno. La Storia della Chiesa e dell'Impero di Le
Sueur, il Discorso sulla storia universale di Bossuet,
gli Uomini illustri di Plutarco, la Storia di Venezia
del Nani, le Metamorfosi di Ovidio, La Bruyère,
i Mondi di Fontenelle, i suoi Dialoghi dei Morti e
alcuni tomi di Molière furono trasportati nel
laboratorio di mio padre, e io li leggevo ogni giorno,
mentre lui lavorava. Vi presi un piacere raro, e forse
unico per quell'età.
- Plutarco soprattutto divenne
la mia lettura favorita. Il godimento che ne provavo,
non stancandomi di rileggerlo, mi guarì un po'
dai romanzi; e in breve preferii Agesilao, Bruto,
Aristide a Orondate, Artamene e Giuba. Attraverso
quelle letture appassionanti, e le discussioni che
occasionavano fra mio padre e me, si formò
quell'animo libero e repubblicano, quel carattere
indomito e fiero, intollerante di giogo e di
schiavitù, che mi ha tormentato tutto il tempo
della mia vita nelle condizioni meno propizie a dargli
impulso. Continuamente assorto in Roma e Atene,
vivendo per così dire nella compagnia degli
uomini grandi di quelle città, nato anch'io
cittadino di una repubblica e figlio di un padre in
cui l'amor di patria era la passione dominante,
m'infiammavo al suo esempio, mi credevo Greco o
Romano, diventavo il personaggio di cui leggevo la
vita: il racconto degli episodi di costanza e di
coraggio che mi avevano commosso mi faceva scintillare
gli occhi e irrobustire la voce. Un giorno che
raccontavo a tavola l'episodio di Muzio Scevola,
restarono tutti impietriti dallo spavento vendendomi
avanzare e mettere la mano sul braciere per
rappresentare il suo gesto.
- Avevo un fratello di sette
anni maggiore di me; imparava il mestiere di mio
padre. L'immenso affetto che aveva per me glielo
faceva un po' trascurare, e non è cosa che
approvi. La sua educazione risentì di quella
trascuratezza. Prese la china del libertinaggio, anche
prima dell'età in cui si sia libertini
davvero.
- Lo misero a lavorare da un
altro padrone, e anche di là continuava le sue
scappatelle come dalla casa paterna. Non lo vedevo
quasi mai, appena posso dire di averlo conosciuto. Non
per questo lo amavo meno teneramente, e lui amava me
come un monello può voler bene a qualche cosa.
Mi ricordo che, una volta che mio padre lo puniva
aspramente, e con ira, io mi lanciai impetuosamente
fra quei due, abbracciandolo stretto. Così lo
riparai col mio corpo, prendendo su di me le percosse
destinate a lui, e mi ostinai in quella posizione
finché mio padre dovè fargli grazia, sia
perché disarmato dai miei strilli e dalle mie
lagrime, sia per non malmenare me più di lui.
Mio fratello finì poi talmente male che
fuggì e scomparve per sempre. Qualche tempo
dopo si seppe ch'era in Germania. Non scrisse una
volta sola.
- Da quel tempo non si ebbero
più sue notizie, ed ecco come sono rimasto
figlio unico.
- Se l'educazione di quel
povero ragazzo fu negletta, non fu così di suo
fratello, e i figli dei re non potrebbero essere
curati con maggior zelo di me, nei miei primi anni:
idolatrato da tutti coloro che mi circondavano, e
trattato sempre, caso molto più raso, ragazzo
amato, mai da ragazzo viziato. Non una volta,
finché non abbandonai la casa paterna, mi si
lasciò correre solo nella strada con gli altri
ragazzi; mai in me si dové reprimere o
soddisfare qualcuno di quei fantastici capricci che
vengono attribuiti alla natura e che nascono tutti
solo dall'educazione. Avevo i difetti della mia
età: ero chiacchierino, goloso, qualche volta
bugiardo. Posso aver rubato frutta, dolciumi, roba da
mangiare, ma non presi mai gusto a far del male, a
rompere, a incolpare gli altri, a tormentare povere
bestie. Ricordo, però, che una volta orinai
nella pentola di una nostra vicina, la signora Clot,
mentre lei era al sermone. Confesso anzi che il
ricordo mi fa ridere tuttora, perché la signora
Clot, buona diavola per il resto, era la donna
più bisbetica che ho mai conosciuto. Ecco la
breve e veridica storia di tutte le mie malefatte
infantili.
- E come sarei divenuto cattivo
con gli esempi di dolcezza che avevo sempre sotto gli
occhi e circondato dalla migliore gente del
mondo?
- Mio padre, mia zia, la mia
«tata», i miei parenti, i nostri amici, i
nostri vicini, tutto quel che mi circondava non
obbediva a me, è vero, ma mi voleva bene, e io
egualmente. Le mie volontà erano così
poco eccitate e contrariate che neppure mi veniva in
mente di averne. Posso giurare, che finché non
mi si impose la soggezione a un padrone, non seppi che
cosa fosse capriccio. Tolto il tempo che passavo a
leggere o a scrivere presso mia padre e quello in cui
la mia bambinaia mi portava a passeggio, stavo sempre
con la zia a vederla ricamare, a sentirla cantare,
seduto o in piedi vicino a lei, ed ero contento. La
sua allegria, la sua dolcezza, la sua piacevole
fisionomia, mi lasciarono sì forti impressioni,
che ne vedo ancora l'espressione, lo sguardo, gli
atteggiamenti: mi ricordo le sue brevi frasi
carezzanti, saprei dire com'era vestita e pettinata,
senza dimenticare i due uncinetti che i suoi capelli
neri le facevano sulle tempie, alla moda di
allora.
- Sono convinto d'esserle
debitore del gusto o, meglio, della passione per la
musica, che in me si è sviluppata solo
più tardi.
- Ella conosceva una
quantità straordinaria di ariette e di canzoni,
che cantava con un esile filo di dolcissima voce. La
serenità d'anima di quella ottima ragazza
allontanava da lei e da tutto ciò che le stava
intorno l'inquietudine e la tristezza. Per me
l'attrattiva del suo canto fu tale che non solo molto
sue canzoni mi son sempre rimaste nella memoria, ma,
oggi che l'ho perduta, me ne tornano ancora altre che,
totalmente dimenticare dopo l'infanzia, si ravvivano
via via che invecchio, con un fascino che non so
esprimere. Chi mai penserebbe che io, vecchio
brontolone, tormentato da afflizioni e affanni, mi
sorprendo qualche volta a piangere come un bambino
canticchiando quelle ariette con una voce già
spezzata e tremolante? Ce n'è una, soprattutto,
di cui mi è tornata per intero l'aria; ma la
seconda metà delle parole si è ostinata
a sfuggire ad ogni mio sforzo per riafferrarla,
sebbene confusamente me ne tornino le rime. Ecco
l'esordio, e quanto ho potuto ricordarmi del
rimanente:
-
- Tircis, je
n'ose
- Écouter ton
chalumeau
- Sous l'ormeau;
- Car on en
cause
- Déjà dans
notre hameau;
- ....................................
- ........................
un berger
- ........................
s'engager
- ........................
sans danger,
- Et toujours l'épine
est sous la rose.
-
- Cerco di capire dove sia il
tenero incanto che il mio cuore sente in questa
canzone: è un capriccio in cui non capisco
un'acca, ma mi è impossibile cantarla sino
all'ultimo senza che le lagrime mi fermino. Ho pensato
cento volte di scrivere a Parigi per fa cercare il
resto delle parole, se pure vi è qualcuno che
ancora le conosce. Ma quasi sicuramente la gioia che
provo a ricordarmi quest'aria svanirebbe in parte, se
avessi la prova che altri l'hanno cantata, oltre alla
povera zia Suzon.
- Tali furono le prime passioni
del mio ingresso nella vita: cominciava così a
formarsi e a rivelarsi in me quel cuore a un tempo
così fiero e così tenero, quel carattere
effeminato eppure indomito, che, ondeggiando sempre
fra timidezza e coraggio, fra debolezza e
virtù, mi ha messo sino all'ultimo in
contraddizione con me stesso, e ha fatto sì che
l'astinenza e la voluttà, il piacere e la
saggezza mi siano sfuggiti egualmente.
- Questa specie di educazione
fu interrotta da un accidente, le cui conseguenze
influirono sul resto della mia vita. Mio padre ebbe un
alterco con un certo signor Gautier, capitano in
Francia e imparentato con gente del Consiglio.
Gautier, uomo insolente e vile, ne uscì col
sangue al naso e, per vendetta, accusò mio
padre di aver messo mano alla spada nella cerchia
cittadina. Mio padre, che volevano mandare in
prigione, si ostinava a chiedere che, secondo la
legge, l'accusatore vi si chiudesse anche lui: non
avendolo ottenuto, preferì andar via da
Ginevra, ed espatriare per il resto della sua vita
piuttosto che cedere sopra un punto in cui gli
parevano compromessi onore e
libertà.
- Restai sotto la tutela di mio
zio Bernard, addetto allora alle fortificazioni di
Ginevra. Sua figlia maggiore era morta, ma egli aveva
un figlio della mia stessa età. Andammo insieme
a Bossey, in pensione presso il ministro Lambercier,
per impararvi, col la tino, tutta la minuta
cianfrusaglia che l'accompagna col nome di
educazione.
- Due anni trascorsi in quel
villaggio addolcirono un po' la mia asperità
romana, e mi riportarono alla condizione di
fanciullo.
- A Ginevra, dove nulla m'era
imposto, mi piaceva leggere e studiare. Era il mio
solo divertimento, o quasi. A Bossey il lavoro mi fece
amare i giochi che gli servivano di ricreazione. La
campagna era per me così nuova che non potevo
stancarmi di goderne.
- Ebbi per lei una passione che
non si è potuta mai spegnere. Il ricordo dei
giorni felici che vi trascorsi mi ha fatto rimpiangere
quel soggiorno e le sue gioie, in ogni età,
fino a quella che mi ci ha riportato. Il signor
Lambercier era un uomo di gran buon senso, che, senza
trascurare la nostra istruzione, non ci soffocava con
doveri eccessivi. La sua abilità è
attestata dal fatto che, nonostante il mio odio per
ogni imposizione, non mi sono mai ricordato con
disgusto le mie ore di studio e che, se non appresi da
lui molte cose, quel che imparai lo imparai
facilmente, e non l'ho mai dimenticato.
- La semplicità della
vita campestre mi procurò un beneficio
inestimabile aprendo il mio cuore all'amicizia. Sino a
quel momento non avevo conosciuto che sentimenti
sublimi, ma immaginari. L'abitudine alla vita in
comune, in uno stato pacifico, mi unì
teneramente a mio cugino Bernard. In poco tempo ebbi
per lui sentimenti più affettuosi di quelli
già avuti per mio fratello, che non si sono mai
più cancellati. Era un ragazzone alquanto magro
e smilzo, d'animo mite quanto debole di corpo, e non
abusava troppo della predilezione che si aveva per lui
nella casa, come figlio del mio tutore. I nostri
studi, i nostri svaghi, i nostri gusti erano gli
stessi: eravamo soli, della stessa età, a
ciascuno di noi due ci voleva un compagno: separarci
era, in qualche modo, distruggerci. Benché
avessimo scarse occasioni di metterlo alla prova, il
nostro affetto reciproco era grandissimo, e non solo
non potevamo vivere un istante separati, ma non
immaginavamo neppure che potessimo esserlo mai.
Entrambi facili alle carezze, compiacenti quando non
si voleva costringerci, andavamo d'accordo su tutto.
Se, favorito da coloro che ci educavano, egli
conservava alla loro presenza qualche ascendente sopra
di me, da soli ne avevo uno su di lui che ristabiliva
l'equilibrio. Quando egli esitava, nelle ore di
studio, gli suggerivo la lezione; quando il mio tema
era pronto, lo aiutavo a fare il suo e, nei nostri
svaghi, la mia passione più vivace gli serviva
sempre da guida. Insomma, i nostri due caratteri si
accordavano così, bene e l'amicizia che ci
univa era così schietta che, nei cinque anni e
più che fummo quasi inseparabili, sia a Bossey
sia a Ginevra, spesso ci picchiammo, lo ammetto, ma
non ci fu mai bisogno di dividerci, mai un nostro
litigio durò più di un quarto d'ora, e
mai una volta ci accusammo l'un l'altro d'una colpa.
Queste considerazioni si potrebbero anche dir puerili;
pure, ne balza un esempio forse unico da quando
esistono ragazzi.
- Il mondo in cui vivevo a
Bossey mi conveniva talmente che solo il fatto di non
esser durato più a lungo gl'impedì di
fissare in maniera perenne il mio carattere. I
sentimenti teneri, affettuosi, pacifici ne facevano il
fondo. Credo che mai individuo della nostra specie
ebbe per natura meno vanità di me. A balzi
toccavo i sentimenti sublimi, ma subito ripiombavo nel
mio torpore. Essere amato da chiunque mi avvicinasse
era il mio più vivo desiderio.
- Ero mite, mio cugino anche, e
coloro che mi educavano parimenti.
- Per due anni interi non fui
né testimone né vittima di un eccesso di
violenza. Tutto concorreva a nutrire nel mio cuore le
disposizioni ricevute dalla natura. Non conoscevo
nulla di più gradevole che veder tutti contenti
di me e di tutto. Mi ricorderò sempre che al
tempio, nel rispondere al catechismo, nulla mi
turbava, se mi capitava di esitare, come il vedere
segni di inquietudine e di pena sul viso della
signorina Lambercier. Ciò solo bastava ad
affliggermi, anche più della vergogna di
sbagliare in pubblico, che pur mi accorava
all'estremo. E, infatti, poco accessibile alle lodi,
lo fui sempre molto alla vergogna; e posso qui dire
che il timore dei rimproveri della signorina
Lambercier mi angustiava meno del timore di
rattristarla.
- Ciò nonostante, ella
non mancava all'occorrenza di severità, al pari
di suo fratello. Ma, poiché questa
severità, quasi sempre giusta, non era mai
esagerata, me ne affliggevo, ma non mi ribellavo. Mi
rincresceva più di scontentare che d'esser
punito, e un segno di malcontento era per me una
ferita più crudele d'un castigo corporale.
È un vero imbarazzo spiegarmi meglio, eppure
è necessario. Come si cambierebbe di metodi coi
giovani, se si valutassero meglio gli effetti lontani
di quello che si impiega senza discernimento e spesso
indiscretamente! La grande lezione che si può
ricavare da un caso comune quanto funesto mi convince
a riferirlo.
- La signoria Lambercier, che
aveva per noi un affetto di madre, ne aveva anche
l'autorità, e questo la induceva a darci
qualche volta il castigo che si dà ai bambini,
quando l'avevamo meritato. Si limitò lungamente
alla minaccia, e questa minaccia di un castigo per me
del tutto nuovo mi pareva spaventosa.
- Ma, dopo averlo subito, lo
trovai meno terribile di quanto non temessi, e
più strano ancora è che quel castigo mi
affezionò anche più a chi me l'aveva
inflitto. Ci voleva proprio tutta la verità di
questo affetto e tutta la mia mite natura per
impedirmi di cercare di attirarmi ancora un tal
castigo; perché nel dolore, nella stessa
vergogna avevo scoperto un misto di voluttà che
mi aveva lasciato più desiderio che timore di
provarlo nuovamente per opera della stessa mano. Vero
è che, insinuandosi in tutto ciò qualche
precoce istinto del sesso, il medesimo castigo non mi
sarebbe piaciuto egualmente riceverlo dalla mano del
fratello di lei. Ma, dato il suo umore, non c'era da
temere una tal sostituzione; e, se mi astenevo dal
meritare la correzione, era unicamente per paura di
scontentare la signorina Lambercier. Tale, infatti,
è in me l'imperio della benevolenza, anche di
quella che fanno nascere i sensi, ch'essa dettò
sempre loro la legge nel mio cuore.
- La recidiva, che allontanavo
senza temerla, arrivò senza colpa mia o,
meglio, senza mia volontà, e la gustai, posso
dire, con la coscienza tranquilla. Ma la seconda fu
anche l'ultima, perché la signorina Lambercier,
essendosi indubbiamente accorta da qualche indizio che
il castigo non otteneva lo scopo, dichiarò di
rinunziarvi e che la stancava troppo. Fin lì
avevamo dormito nella camera di lei, e qualche volta,
d'inverno, persino nel suo letto.
- Due giorni dopo ci
trasferirono in una stanza a parte; e dal quel momento
ebbi l'onore, di cui mi sarei privato volentieri,
d'essere trattato da lei da ragazzo fatto.
- Chi crederebbe che quel
castigo da bambino, ricevuto a otto anni da una donna
di trenta, abbia deciso dei miei gusti, dei miei
desideri, delle mie passioni, di me, per il resto
della mia vita, e precisamente in modo opposto a
quello che sarebbe dovuto naturalmente derivarne? Nel
momento in cui si accesero i miei sensi, i miei
desideri caddero in tale inganno che, limitati alla
sensazione già provata, non s'interessarono di
cercare altra causa.
- Con un sangue che bruciava di
sensualità quasi dalla nascita, mi conservai
puro da ogni macchia fino all'età in cui si
manifestano i temperamenti più freddi e
più tardivi. Lungamente tormentato senza
saperne il motivo, divoravo con occhi ardenti le belle
donne: la mia immaginazione non si stancava di
richiamarmela, ma solamente per farle agire a mia
guisa, e trasformarle in altre in altrettante
signorine Lambercier.
- Anche dopo l'età
nubile, quel gusto bizzarro, sempre persistente e
spinto sino alla depravazione, sino alla pazzia, mi ha
sempre conservato onesti i costumi, di cui sembrerebbe
che avesse dovuto privarmi. Se mai educazione fu
modesta e casta, tale fu sicuramente quella che
ricevetti io. Le mie tre zie non solo erano persone di
esemplare onestà, ma di un riserbo da gran
tempo sconosciuto alle donne. Mio padre, uomo
godereccio, ma galante all'antica moda, non ha mai
tenuto, con le donne che più gli piacevano,
discorsi cui una vergine avesse potuto arrossire, e
mai si è osservato come nella mia famiglia e
alla mia presenza il rispetto dovuto ai fanciulli. Non
trovai meno scrupolo sullo stesso soggetto in casa del
signor Lambercier, e un'ottima domestica ne fu
cacciata solo per una parola un po' sboccata che si
lasciò sfuggire davanti a noi. Non solo non
ebbi sino alla adolescenza nessuna idea distinta
sull'unione dei sessi, ma questa idea confusa non mi
si presentò mai che sotto un'immagine odiosa e
di disgusto.
- Avevo per le donne pubbliche
un orrore che mai si è cancellato.
- Non potevo vedere un
dissoluto senza sdegno, persino senza timore; e la mia
avversione per la vita licenziosa giungeva sino a
questo punto da quando, andando un giorno al
Petit-Sacconex per una strada incassata, vidi sui due
lati alcuni fossi nel terreno, dove mi dissero che le
genti del luogo scendevano ad accoppiarsi.
- Gli amori canini che avevo
visti mi tornavano sempre in mente pensando agli
altri, e mi sentivo stomacare al solo
ricordo.
- Questi pregiudizi
dell'educazione, atti per sé a ritardare le
prime esplosioni di un temperamento combustibile,
furono aiutati, come ho detto, dalla diversione che
operarono su di me le prime avvisaglie della
sensualità. Non sapendo immaginare null'altro
fuorché le sensazioni provate, nonostante
alcune effervescenze di sangue assai moleste,
rivolgevo i desideri solo verso il tipo di
voluttà che mi era nota, senza mai pensare a
quella che mi era stata resa odiosa, e che era
così prossima all'altra senza che ne avessi il
minimo sospetto. Nelle mie stolte fantasie, nei miei
erotici furori, negli atti inconsueti ai quali essi mi
spingevano qualche volta, prendevo in prestito con
l'immaginazione l'aiuto dell'altro sesso, senza mai
pensare che si prestasse a un uso diverso da quello
che ardevo di ricavarne.
- Non solo, dunque, con un
temperamento più che ardente, lascivo e
precoce, superai la pubertà senza desiderare,
senza conoscere altri piaceri dei sensi tranne quelli
che la signorina Lambercier mi aveva con assoluta
innocenza rivelati; ma, quando finalmente il passar
degli anni mi ebbe fatto uomo, fu ancora quel che
doveva perdermi a salvarmi. Il mio vecchio vizio di
ragazzo, anziché svanire, si fuse nell'altro al
punto che non mi riuscì di rimuoverlo
interamente dalle voglie accese dai miei sensi, e
quella follia, congiunta alla mia naturale timidezza,
mi rese sempre poco intraprendente con le donne, non
osando dir tutto e non potendo osar tutto,
giacché quel genere di godimento, di cui
l'altro per me non era che il termine supremo, non
può essere usurpato da chi lo desideri
né immaginato da colei che può
accordarlo. Così ho passato la mia vita
struggendomi di brame e tacendo vicino alle persone
che più amavo. Non osando mai confessare il mio
gusto, lo lusingavo almeno con atti che me ne
conservavo l'idea.
- Gettarmi alle ginocchia
d'un'amante imperiosa, obbedire ai suoi ordini,
doverle chiedere spesso perdono, erano per me
dolcissime gioie, e più la mia vivace
immaginazione mi accendeva il sangue più avevo
l'aria di un amante intimorito. È evidente che
un tal modo di fare all'amore non porta a rapidissimi
progressi, e non è troppo insidioso per la
virtù delle persone che ne costruiscono
l'oggetto. Ho, dunque, posseduto pochissime donne, ma
non ho mancato di goder molto, a modo mio, ossia con
l'immaginazione.
- Ecco come i miei sensi,
d'accordo col mio timido temperamento e con la mia
fantasia romanzesca, mi hanno conservato sentimenti
puri e costumi onesti, pur con i medesimi gusti che,
accompagnati forse da un po' più di
disinvoltura, mi avrebbero travolto nei più
brutali piaceri dei sensi.
- Ho fatto il primo e
più penoso passo nel buio e fangoso labirinto
delle mie confessioni. Non quel che è
delittuoso costa maggior fatica a dirsi, ma quel che
è comico e vergognoso. D'ora in poi sono sicuro
di me: dopo quanto ho osato dire, nulla può
più fermarmi. Si valuterà quanto mi
siano costate simili confessioni, considerando che,
nell'intero corso della mia vita, travolto talora,
accanto alle donne che amavo, dai furori di una
passione che mi privava della facoltà di
vedere, di udire, fuori di me e còlto da un
tremito convulso in tutto il corpo, non mi
riuscì mai a manifestare la mia pazzia e
d'implorare da loro, nella più stretta
intimità, il solo favore che mancasse agli
altri. Questo mi capitò una volta sola nella
mia infanzia, con una ragazza della mia età; e
fu lei stessa a farmene la prima proposta.
- Risalendo così ai
primi indizi del mio essere sensibile, trovo elementi
che, pur sembrando a volte inconciliabili, non
mancarono di combinarsi insieme per produrre con forza
un effetto semplice e uniforme; e ne trovo altri che,
pur essendo in apparenza gli stessi, produssero, col
concorso di talune circostanze, combinazioni
così differenti che non ci s'immaginerebbe mai
che ci fosse qualche rapporto tra loro. Chi
crederebbe, ad esempio, che uno fra gli stimoli
più energici nella mia anima sia scaturito
dalla medesima sorgente dalla quale scesero nel mio
sangue lussuria e mollezza? Senza allontanarsi
dall'argomento di cui ho parlato, se ne vedrà
nascere ora un'impressione ben diversa.
- Un giorno, me ne stavo solo a
studiare la mia lezione nella camera attigua alla
cucina. La domestica aveva messo ad asciugare i
pettini della signorina Lambercier sul frontone del
camino.
- Quando tornò a
riprenderli, ne trovò occato il pettine. Il
signore e la signorina Lambercier si mettono insieme,
mi esortano, insistono, minacciano; io persisto,
ostinato; ma l'evidenza era troppo palese, e l'ebbe
vinta su ogni mia protesta, benché fosse la
prima volta che mi trovassero tanta audacia nel
mentire. La cosa venne presa sul serio e meritava di
esserlo. La malvagità, la menzogna,
l'ostinazione parvero egualmente degne di castigo; ma,
questa volta, esso non mi venne inflitto dalla
signorina Lambercier. Scrissero allo zio Bernard; egli
venne.parvero egualmente degne di castigo; ma, questa
volta, esso non mi venne inflitto dalla signorina
Lambercier. Scrissero allo zio Bernard; egli
venne.
- Il mio povero cugino era
sotto accusa per un altro reato non meno grave; fummo
associati nella stessa esecuzione. Fu spaventosa. Se,
cercando il rimedio nel male stesso, si fossero voluti
smorzare per sempre i miei sensi depravati, non si
sarebbe potuto far di meglio. E così essi mi
lasciarono a lungo tranquillo.
- Non si riuscì a
strapparmi la confessione che si esigeva. Riafferrato
a varie riprese e ridotto nello stato più
atroce, fui irremovibile. Avrei preferito la morte, e
vi ero deciso. La stessa violenza fu costretta a
cedere alla diabolica testardaggine di un ragazzo,
poiché non chiamarono altrimenti la mia
costanza. Alla fine uscii da quella prova crudele a
pezzi, ma trionfante.
- Sono passati quasi
cinquant'anni da quell'avventura, e non ho più
paura, oggi, d'essere punito di nuovo per lo stesso
peccato.
- Ebbene, dichiaro, in cospetto
del cielo, ch'ero innocente, che non avevo né
spezzato né toccato il pettine, non mi era
accostato al caminetto, non ci avevo pensato neppure.
Non mi chiedete come fosse avvenuto il guasto: non so
e non riesco a capirlo; so di certo ch'ero
innocente.
- Immagini il lettore un
carattere timido e docile nella vita ordinaria, ma
ardente, fiero, indomito nelle passioni, un ragazzo
sempre educato dalla voce della ragione, sempre
trattato con dolcezza, equità, compiacenza, che
non concepiva neppure l'ingiustizia e che, per la
prima volta, ne subisce una così terribile, e
precisamente dalle persone che egli ama e rispetta di
più: che capovolgimento di idee! Quale
scompiglio di sentimenti! Quale sovvertimento nel suo
cuore, nel suo cervello, in tutto il suo piccolo
essere intelligente e morale. Vi invito a immaginare
tutto ciò, se possibile, perché, quanto
a me, non mi sento capace di spiegare, di seguire la
minima traccia di quello che accadeva in me
allora.
- Non ero ancora abbastanza
ragionevole per comprendere come le apparenze fossero
contro di me, e per mettermi nei panni degli altri. Mi
attenevo al mio giudizio, e sentivo solo il rigore di
uno spaventoso castigo per un delitto non commesso. Il
dolore fisico, benché vivo, lo sentivo poco:
sentivo soltanto dispetto, rabbia, disperazione. Mio
cugino, per un caso press'a poco simile, e ch'era
stato punito per una colpa involontaria come per un
atto premeditato, montava in furore sul mio esempio, e
s'innalzava, per così dire, al mio unisono.
Entrambi nello stesso letto, ci abbracciavamo in
trasporti convulsi, ci soffocavamo, e, quando i nostri
teneri cuori un po' sollevati potevano sfogare la loro
collera, ci alzavamo a sedere e ci mettevamo a gridare
insieme cento volte con tutto il nostro fiato:
carnifex, carnifex, carnifex!
- Mentre scrivo, sento il polso
che si eccita ancora: quei momenti mi saranno sempre
davanti, vivessi centomila anni. Quella prima
impressione della violenza e dell'ingiustizia mi
è rimasta così profondamente scolpita
nell'animo che ogni idea che vi si collega mi ridona
la mia prima commozione, e quel sentimento, che
riguarda me nella sua origine, ha preso in sé
tale consistenza, e si è staccato così
perfettamente da qualsiasi interesse personale, che il
mio cuore s'infiamma alla visione o al racconto di un
atto ingiusto, qualunque sia l'oggetto e dovunque sia
connesso, come se l'effetto ricadesse su me. Quando
leggo delle crudeltà di un feroce tiranno o
delle sottili perfidie d'un prete birbante, andrei
volentieri a pugnalare quei miserabili, dovessi
soccombere cento volte. Spesso mi son messo in un
bagno di sudore per inseguire o prendere a sassate un
gallo, una vacca, un cane, una bestia che vedevo
tormentare un'altra, unicamente perché si
sentiva più forte. Questo impulso può
essere in me naturale, e presumo sia tale; ma il
ricordo profondo della prima ingiustizia da me
sofferta vi fu troppo a lungo e troppo fortemente
legato per non averlo rinforzato di molto.
- Ebbe termine così la
serenità della mia vita infantile. Da quel
momento cessai di godere d'una pura felicità, e
ancora oggi sento che il ricordo dei piaceri della mia
infanzia si ferma lì. Restammo ancora a Bossey
qualche mese. Vi fummo come ci viene rappresentato il
primo uomo: vivente ancora nel paradiso terrestre, di
cui ha però cessato di godere: in apparenza era
la stessa situazione di prima, ma in realtà
essa era radicalmente diversa.
- L'affetto, il rispetto,
l'intimità, la confidenza non legavano
più gli allievi ai maestri. Non li
consideravamo più come dèi che leggevano
nei nostri cuori: avevamo meno vergogna di far male e
maggiore timore d'essere accusati; cominciavamo a
dissimulare, a ribellarci, a mentire. Tutti i vizi
della nostra età corrompevano la nostra
innocenza e disabbellivano i nostri giochi. Persino
dalla campagna sfumò ai nostri occhi
quell'attrattiva di dolcezza e di semplicità
che va dritto al cuore: ci pareva cupa e deserta,
s'era come coperta d'un velo che ce ne nascondeva le
bellezze. Smettemmo di coltivare i nostri orticelli,
le nostre erbette, i nostri fiori. Non andavamo
più a raspare per terra, gridando di gioia
quando scoprivamo il germe del grano che avevamo
seminato.
- Ci disgustammo di quella
vita; essi si disgustarono di noi; mio zio venne a
riprenderci. Ci separammo dal signore e dalla
signorina Lambercier sazi gli uni degli altri, e senza
grande rimpianto...
-
- J.J.
Rousseau
-
-
-
-
- Dal Libro Ottavo
de Le Confessioni di Agostino
-
- 12.29 - Così parlavo e
piangevo nell'amarezza sconfinata del mio cuore
affranto. A un tratto dalla casa vicina mi giunge una
voce, come di fanciullo o fanciulla, non so, che
diceva cantando e ripetendo più volte:
«Prendi e leggi, prendi e leggi». Mutai
d'aspetto all'istante e cominciai a riflettere con la
massima cura se fosse una cantilena usata in qualche
gioco di ragazzi, ma non ricordavo affatto di averla
udita da nessuna parte. Arginata la piena delle
lacrime, mi alzai. L'unica interpretazione possibile
era per me che si trattasse di un comando divino ad
aprire il libro e a leggere il primo verso che vi
avrei trovato. Avevo sentito dire di Antonio che
ricevette un monito dal Vangelo, sopraggiungendo per
caso mentre si leggeva: «Va', vendi tutte le cose
che hai, dàlle ai poveri e avrai un tesoro nei
cieli, e vieni, seguimi». Egli lo
interpretò come un oracolo indirizzato a se
stesso e immediatamente si rivolse a te.
- Così tornai conciato
al luogo dove stava seduto Alipio e dove avevo
lasciato il libro dell'Apostolo all'atto di alzarmi.
Lo afferrai, lo aprii e lessi tacito il primo versetto
su cui mi caddero gli occhi. Diceva: «Non nelle
crapule e nell'ebbrezze, non negli amplessi e nelle
impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma
rivestitevi del Signore Gesù Cristo né
assecondate la carne nelle sue concupiscenze».
Non volli leggere oltre, né mi
occorreva.
- Appena terminata infatti la
lettura di questa frase, una luce, quasi, di certezza
penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del
dubbio si dissiparono.
-
- 12.30 - Chiuso il libro,
tenendovi all'interno il dito o forse un altro segno,
già rasserenato in volto, rivelai ad Alipio
l'accaduto. Ma egli mi rivelò allo stesso modo
ciò che a mia insaputa accadeva in lui. Chiese
di vedere il testo che aveva letto. Glielo porsi, e
portò gli occhi anche oltre il punto ove mi ero
arrestato io, ignaro del seguito. Il seguito diceva:
«E accogliete chi è debole nella
fede». Lo riferì a se stesso, e me lo
disse. In ogni caso l'ammonimento rafforzò
dentro di lui una decisione e un proposito onesto,
pienamente conforme alla sua condotta, che l'aveva
portato già da tempo ben lontano da me e
più innanzi sulla via del bene. Senza
turbamento o esitazione si unì a
me.
- Immediatamente ci rechiamo da
mia madre e le riveliamo la decisione presa: ne
gioisce; le raccontiamo lo svolgimento dei fatti:
esulta e trionfa. E cominciò a benedirti
perché puoi fare più di quanto chiediamo
e comprendiamo. Vedeva che le avevi concesso a mio
riguardo molto più di quanto ti aveva chiesto
con tutti i suoi gemiti e le sue lacrime pietose.
Infatti mi rivolgesti a te così appieno, che
non cercavo più né moglie né
avanzamenti in questo secolo, stando ritto ormai su
quel regolo della fede, ove mi avevi mostrato a lei
tanti anni prima nel corso di una rivelazione; e
mutasti il suo duolo in gaudio molto più
abbondante dei suoi desideri, molto più
prezioso e puro di quello atteso dai nipoti della mia
carne.
-
- Agostino
d'Ippona
-
-
-
- Da Vita, Epoca
III, cap. XV di Vittorio
Alfieri
-
- Tornato io una tal sera
dell'opera (insulso e tediosissimo divertimento di
tutta l'Italia) dove per molte ore mi era trattenuto
nel palco dell'odiosamata Signora, mi trovai
così esuberantemente stufo che formai la
immutabile risoluzione di rompere sì fatti
legami per sempre. Ed avendo io visto per prova che il
correre per le poste qua e là non mi avea
prestato forza di proponimento, che anzi me l'avea
subito indebolita e poi tolta, mi volli mettere a
maggior prova, lusingandomi che in uno sforzo
più difficile riuscirei forse meglio, stante
l'ostinazione naturale del mio ferreo carattere.
Fermai dunque in me stesso di non mi muovere di casa
mia, che come dissi le stava per l'appunto di faccia;
di vedere e guardare ogni giorno le di lei finestre,
di vederla passare; di udirne in qualunque modo
parlare; e con tutto ciò, di non cedere oramai
a nulla, né ad ambasciate dirette o indirette,
né alle reminiscenze, né a cosa che
fosse al mondo, a vedere se ci creperei, il che poco
importavami, o se alla fin fine la vincerei. Formato
in me tal proponimento, per legarmivi contraendo con
una qualche persona come un obbligo di vergogna,
scrissi un bigliettino ad un amico mio coetaneo, che
molto mi amava, con chi s'era fatta l'adolescenza, e
che allora da parecchi mesi non mi vedea più,
compiangendomi molto di essere naufrago, in quella
Cariddi, e non potendomene cavar egli, né
volendomi perciò parer d'approvare. Nel
bigliettino gli dava conto in due righe della mia
immutabile risoluzione, e gli acchiudevo un involtone
della lunga e ricca treccia de' miei rossissimi
capelli, come un pegno di questo mio subitaneo
partito, ed un impedimento quasi che invincibile al
mostrarmi in nessun luogo così tosone, non
essendo allora tollerato un tale assetto,
fuorché ne' villani, e marinari. Finiva il
biglietto col pregarlo di assistermi di sua presenza e
coraggio, per rinfrancare il mio.
- Isolato in tal guisa in casa
mia, proibiti tutti i messaggi, urlando e ruggendo
passai i primi quindici giorni di questa mia strana
liberazione. Alcuni amici mi visitavano; e mi parve
anco mi compatissero; forse appunto perché io
non diceva parola per lamentarmi, ma il mio contegno
ed il volto parlavano in vece mia.
- Mi andava provando di leggere
qualche cosuccia, ma non intendeva neppur la gazzetta,
non che alcun menomo libro; e mi accadeva di aver
letto delle pagine intere cogli occhi, e talor con le
labbra, senza pure saper una parola di quel ch'avessi
letto. Andava bensì cavalcando nei luoghi
solitarj, e questo soltanto mi giovava un poco
sì allo spirito che al corpo. In questo
semifrenetico stato passai più di due mesi sino
al finir di Marzo del '75; finché ad un tratto
un'idea nuovamente insortami cominciò
finalmente a svolgermi alquanto e la mente ed il cuore
da quell'unico e spiacevole e prosciugante pensiero di
un sì fatto amore.
- Fantasticando un tal giorno
così fra me stesso, se non sarei forse in tempo
ancora di darmi al poetare, me n'era venuto, a stento
ed a pezzi, fatto un piccolo saggio in quattordici
rime, che io, riputandole un sonetto, inviava al
gentile e dotto padre Paciaudi, che trattavami di
quando in quando, e mi si era sempre mostrato ben
affetto, e rincrescente di vedermi così
ammazzare il tempo e me stesso nell'ozo, ricordatosi
ch'io gli avea detto parermi quello un oggetto di
tragedia, e che lo avrei voluto tentare, (senza pure
avergli mai mostrato quel mio primo aborto, di cui ho
mostrato qui addietro il soggetto) egli me la
comprò e donò. Io in un momento di
lucido intervallo avea avuta la pazienza di leggerla,
e di postillarla; e glie l'avea così rimandata,
stimandola in me stesso assai peggiore della mia
quanto al piano e agli affetti, se io veniva mai a
proseguirla, come di tempo in tempo me ne rinasceva il
pensiere. Intanto il Paciaudi, per non farmi smarrire
d'animo, finse di trovar buono il mio sonetto,
benché né egli il credesse, né
effettivamente lo fosse. Ed io poi, di lì a
pochi mesi ingolfatomi davvero nello studio dei nostri
ottimi poeti, tosto imparai a stimare codesto mio
sonetto per quel giusto nulla ch'egli valeva. Professo
con tutto ciò un grand'obbligo a quelle prime
lodi non vere, e a chi cortesemente le mi donò,
poiché molto mi incoraggirono a cercare di
meritarne delle vere.odesto mio sonetto per quel
giusto nulla ch'egli valeva. Professo con tutto
ciò un grand'obbligo a quelle prime lodi non
vere, e a chi cortesemente le mi donò,
poiché molto mi incoraggirono a cercare di
meritarne delle vere.
- Già parecchi giorni
prima della rottura con la Signora, vedendola io
indispensabile ed imminente, mi era sovvenuto di
ripescare di sotto al cuscino della poltroncina quella
mia mezza Cleopatra, stata ivi in macero quasi che un
anno.
- Venne poi dunque quel giorno,
in cui, fra quelle mie smanie e solitudine quasi che
continua, buttandovi gli occhi su, ed allora soltanto
quasi come un lampo insortami la somiglianza del mio
stato di cuore con quello di Antonio, dissi fra me
stesso: «Va proseguita quest'impresa; rifarla, se
non può star così; ma in somma
sviluppare in questa tragedia gli affetti che mi
divorano, e farla recitare questa primavera dai comici
che ci verranno». Appena mi entrò questa
idea, ch'io (quasiché vi avessi ritrovata la
mia guarigione) cominciai a schiccherar fogli,
rappezzare, rimutare, troncare, aggiungere,
proseguire, ricominciare, ed in somma a impazzare in
altro modo intorno a quella sventurata e mal nata mia
Cleopatra.
-
- Vittorio
Alfieri
-
-
-
- La Prefazione
delle Memorie di Carlo Goldoni
-
- Non c'è autore, buono
o cattivo, la cui vita non si ritrovi o in capo alle
sue opere o nelle memorie del suo tempo.
- È vero che la vita
d'un uomo non dovrebbe essere edita se non dopo la sua
morte; ma questi ritratti tardivi somigliano proprio
agli originali? Se è un amico che se ne assume
l'incarico, la verità risulta alterata dalle
lodi; se è un nemico, la censura prende il
posto di una critica onesta.
- La mia vita non offre
interesse; ma può darsi che, in capo a qualche
tempo, si scopra in qualche angolo d'una vecchia
biblioteca una collezione delle mie opere. E allora
potrà nascere la curiosità di sapere chi
fu quest'uomo singolare che si è proposto la
riforma del teatro del suo paese, che ha messo in
scena e sotto i torchi centocinquanta commedie, sia in
versi, sia in prosa, di carattere e d'intreccio, e che
ha visto, lui vivo, diciotto edizioni del suo teatro.
Si dirà senza dubbio: «Quest'uomo doveva
essere molto ricco; per qual ragione ha lasciato il
suo paese?» Ahimè, bisogna pur far sapere
ai posteri che Goldoni non ha trovato se non in terra
di Francia il riposo, la tranquillità, il
benessere, e ch'egli ha terminato il corso della sua
vita d'artista con una sua commedia scritta in
francese, che, sulla scena di Francia, ha avuto la
fortuna d'un incontro felice.
- Io ho pensato che solo
l'autore fosse in grado di dare un'idea compiuta e
sicura della sua indole, degli aneddoti di cui
è ricca la sua vita e delle sue opere; e mi
è parso che se egli pubblicasse, da vivo, le
sue memorie, e non ricevesse smentita dai suoi
contemporanei, i posteri potrebbero far fondamento
sulla sua sincerità.
- Seguendo questa idea, nel
1760, poiché vedevo che dopo la mia prima
edizione di Firenze dappertutto si saccheggiava il mio
teatro, e già se n'erano fatte quindici
edizioni, non solo senza il mio consenso, ma senza che
neppure me ne fosse data comunicazione e - per rincaro
dei mali - tutte erano stampate perfidamente, venni
nel pensiero di farne una seconda a mie spese e di
porre in ciascun volume, in vece di prefazione, una
parte della mia vita. Pensavo così che, alla
fine dell'opera, la storia delle mie vicende personali
e quella del mio teatro avrebbero potuto di pari passo
essere compiute.
- Mi sono ingannato. Quando
incominciai a Venezia l'edizione di Pasquali - in
ottavo con illustrazioni - non potevo immaginarmi che
il mio destino fosse quello di varcare le
Alpi.
- Chiamato in Francia nel 1761,
continuai a trasmettere i dati per i mutamenti e le
correzioni che mi ero proposto per l'edizione di
Venezia; ma la vita turbinosa di Parigi, le mie nuove
occupazioni e la distanza dei luoghi hanno diminuito
la mia attività e hanno rallentato l'esecuzione
della stampa, cosicché un'opera che doveva
abbracciare trenta volumi e che doveva esser compiuta
nello spazio di otto anni, non era ancora, in
vent'anni, che al tomo diciassettesimo; né io
certo spero di vivere abbastanza per vedere questa
edizione terminata.
- Ciò che per il momento
m'inquieta e mi sta a cuore è la storia della
mia vita. Ripeto, essa non offre singolari attrattive;
ma quel tanto ch'io ne ho dato fino a oggi nei primi
diciassette volumi, è stato accolto così
bene che il pubblico m'invoglia a continuare, tanto
più che ciò che io ho detto fin qui non
riguarda che la mia persona, e ciò che mi resta
a dire deve trattare del mio teatro in ispecie, di
quello degli italiani in genere, e in parte di quello
dei francesi, che io ho potuto vedere da vicino. I
costumi delle due nazioni, i loro gusti messi a
confronto fra loro, tutto quello che ho veduto, e
tutto quello che ho osservato, potrebbe diventar
divertente e al tempo stesso istruttivo per gli
appassionati di questa materia.
- Io mi assumo dunque il
compito di lavorare per quel tanto che potrò, e
lo faccio con parere indicibile per arrivare al
più presto a parlare della mia cara Parigi, che
mi ha fatto così buone accoglienze e mi ha
offerto tanti divertimenti e così utili
occupazioni.
- Comincio col rifondere e col
mettere in francese tutto ciò che si trova
nelle prefazioni storiche dei diciassette volumi di
Pasquali. È il compendio della mia vita, dalla
nascita fino agli inizi di ciò che si chiama in
Italia la riforma del teatro italiano. Si vedrà
in qual modo questa inclinazione al comico, da cui mi
sono sempre sentito dominare, abbia dato i primi
annunci di sé, in qual modo si sia svolta; si
vedranno gli inutili sforzi che altri ha fatto per
distogliermi dal mio cammino e i sacrifici da me
offerti a quest'idolo imperioso da cui mi son sentito
trascinare; Questo formerà la prima parte delle
mie Memorie.
- La seconda parte deve
comprendere tutto ciò che si riferisce alla
storia delle mie commedie, l'ispirazione segreta che
mi ha indotto a scriverle, la loro riuscita, buona o
cattiva, le rivalità che i miei successi hanno
suscitato, le cabale che ho disprezzato, le critiche
che ho rispettato, le «satire» che ho
sopportato in silenzio, gli intrighi del palcoscenico
che ho sventato. Si vedrà che l'umanità
è la medesima dappertutto, che dappertutto
s'incontrano gelosie, che l'uomo pacifico e di sangue
freddo riesce a farsi amare dal pubblico e a stancare
la perfidia dei suoi nemici.
- La terza parte di queste
Memorie comprenderà il tempo del mio soggiorno
in Francia. Io sono così felice di poterne
parlare in libertà che ho provato la tentazione
di cominciare di qui l'opera mia; ma in tutto ci vuole
metodo. Sarei stato forse costretto a ritoccare le due
parti precedenti, e io non amo ritornare su ciò
che ho fatto.
- Ecco ciò che avevo da
dire ai miei lettori. Io li prego di leggermi e di
usarmi la cortesia di credermi. La sincerità
è sempre stata la mia virtù preferita, e
mi sono sempre trovato a mio agio con lei,
perché essa mi ha risparmiato la pena di
architettare la menzogna, e mi ha evitato il
dispiacere di dover arrossire.
-
- Carlo
Goldoni
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