- Hackney
Marshes
-
- Si svegliò
che era ancora notte. C'era una luna di lino nel buio.
Tess non amava il buio. Di sera lasciava aperte le
tende della finestra, così quando non dormiva
poteva starsene a letto e guardare il cielo, la luce
gialla dei lampioni, i rami secchi degli alberi
riflessi nel lago.
- Fissò il
soffitto in penombra. Vide gli angeli, la foglia di
quercia, la mappa dell'Islanda che le ultime piogge
torrenziali avevano disegnato sull'intonaco
bianco.
- Il gatto le
balzò sulla pancia. Lei chiuse di nuovo gli
occhi.
- Poi sentì il
furgone del latte frenare e stridere sull'asfalto
ghiacciato. Le bottiglie tintinnarono.
- Diede un'occhiata
all'orologio: le cinque.
- Si
alzò.
- Passò
davanti alla camera dei bambini. Dormivano tutti e due
con la bocca socchiusa. Erano sempre più
grandi. Così grandi mio Dio! Ormai riempivano i
letti.
-
- Andò in
bagno. Mai più, mai più! Ripeteva quelle
due parole con ritmo ossessivo mentre si lavava i
denti. Sempre più forte, sempre più
forte. Sputò dentifricio, sangue e
saliva.
-
- Scese in cucina per
farsi il caffè. Diede un'occhiata alla posta:
buste e buste impilate su un mobile, tutte chiuse.
Erano settimane che non apriva le lettere.
- Il telefono era
stato tagliato. Niente poteva interrompere quel lento
rituale di silenzio e di zucchero; quella carezza che
si concedeva di primo mattino quando il mondo dormiva
e vivere le era ancora sopportabile. Respirò
l'aroma del caffè che riempiva l'aria, attenta
al borbottio della moka sul fornello, al rumore del
liquido nero che scendeva nella porcellana, alla
canzone del cucchiaino che girava nella
tazza.
- Guardò fuori
dalla finestra: il lago era bianco come la luna,
immobile come quella notte di dicembre.
-
- Quel mattino non
sarebbe andata in banca. Né il mattino dopo.
Né mai più. Qualcuno avrebbe pagato i
debiti, le bollette, il canone della TV,
l'assicurazione dell'auto. Qualcuno si sarebbe preso
cura di Jeoffrey e di Bob. Di tutto. Persino del
gatto.
- Aspettò
l'alba in piedi, davanti alla finestra.
- Alle sette e
quaranta preparò sul tavolo i cereali con le
scodelle e il latte. Poi svegliò i ragazzini.
Solo chiamarli, aprire e chiudere il frigo, camminare
da stanza in stanza, persino il più piccolo
gesto le costava fatica, un'enorme, schifosa
fatica.
- Mentre facevano
colazione li sentì chiacchierare della partita
fra il Manchester United ed il Chelsea; del prof di
scienze che era proprio fuori, dello skate board di
Malcom, che quello sì andava forte.
- Chiese che materie
avessero quel giorno a scuola, ma non trovò
altro da dire. Li baciò di corsa mentre
uscivano di casa. Aveva gli occhi lucidi, però
loro erano abituati a vederla piangere, alle sue mani
che tremavano, agli scatti d'ira quando si chiudeva in
camera per ore. Ormai non facevano nemmeno più
caso alla cucina sempre sottosopra, o alle pizze
ordinate per cena e le sere passate da soli davanti
alla TV.
-
- Non ripulì
niente. Lasciò tutto lì: briciole,
latte, i bicchieri pieni di succo d'arancia, le
piccole schegge di cornflakes, le tazze sporche. C'era
una striscia bianca di zucchero a forma di S sulla
formica verde. I tovagliolini di carta erano imbevuti
di latte e tutti molli, appiccicati ai
piatti.
- Si infilò il
cappotto e uscì di casa.
-
- La portò via
l'inverno. Se ne andò trascinata dal vento
scricchiolando sul ghiaccio dei marciapiedi. Gli
alberi gemevano. Il cielo era pallido ma tranquillo,
senza nuvole. Muto.
-
- Le Hackney Marshes
erano coperte di gelo. La brughiera si allungava
davanti ai suoi occhi: immobile e deserta; un fantasma
cristallizzato ai bordi dalla
città.
- Giunse al
lago.
- Camminò
sulla passerella di legno del molo.
- Si fermò sul
bordo.
- Il treno per
Liverpool Street Station sfrecciò in
lontananza.
- Lei ondeggiò
appena. Un dondolio leggero,
impercettibile.
- La punta delle
scarpe nel vuoto. Il corpo rigido.
- L'acqua vibrava in
piccoli mulinelli. Sembrava chiamarla.
-
- La paura le
percorse la schiena, le si strinse addosso, raggiunse
il dolore raggrumato in un nodo stretto nella gola e
colpì laggiù, in fondo, nel suo cuore di
marmo.
- Tremò tutta,
convulsamente, dalla testa ai piedi. Poi iniziò
a singhiozzare e il corpo scandiva come uno strumento
ritmico e legnoso ogni suo piccolo suono infantile,
ogni sussulto.
- Il suo urlo
squarciò l'aria. Uscì come un sibilo
rabbioso, acuto some quello di un bollitore
d'acqua.
- Uno stormo di
uccellini tremò dentro un cespuglio. Ci fu un
frullio d'ali, un tremito nervoso nell'aria. Un'onda
viva, quasi elettrica, le volò
tutt'intorno.
- Fu un
attimo.
- Tutto tornò
silenzio.
-
- Tess riaprì
gli occhi e si sentì vuota, ma stranamente
libera, quasi leggera.
- Si accasciò
a terra senza più nervi, senza più
muscoli, senza più gambe. Si rannicchiò
abbracciando stretta le ginocchia sulle assi di
legno.
- Si sentì una
sola cosa col suo corpo. Una sola cosa, dopo tanto
tempo.
- Fissò con
meraviglia la piccola nuvola di fiato che si formava
ad ogni suo respiro. Sentì di amare il morso
dell'inverno sul viso, quel colpo di vento, i piccoli
brividi di gelo che sentì correre lungo la
schiena.
- Un ragazzo le
passò vicino senza guardarla.
-
- Rimase immobile,
rannicchiata nel cappotto rosso, circondato dal
grigiore calmo del lago.
-
- Non sapeva quanto
tempo era passato quando si rialzò.
-
- Infilò le
mani in tasca. Camminò. Camminò per ore
nella brughiera. Incrociò solo due pensionati
che discutevano dello sciopero dei pompieri. Uno
scoiattolo. Un paio di topi. Un'auto abbandonata
coperta di ruggine.
- Giunse ad un bivio.
Il double-decker numero 73 le sfrecciò davanti.
Era pieno di gente. Londra era di nuovo lì,
lontana eppure vicinissima, brulicante di voci, di
motori, di radioline accese, di pianti di bimbi, di
risate, di grida, di clacson furiosi, di parole
d'amore, di sussurri, di annunci economici, di
pubblicità cantilenante in TV; di massaie, di
avvocati, di bancari, di ladri, di musicisti, di
filosofi e disoccupati.
- Pensò a
Jeffrey, a Bob. Allo skate board che filava via come
un razzo e al cinema che avrebbero potuto andare a
vedere quella sera.
- Guardò in
su. La neve cadde sul suo viso. Si sentì
felice.
|