Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Opera in prosa di Fausto Gianni
- "LETTERE ALLA DONNA IRREALE"
- JAPADRE EDITORE L'AQUILA - ROMA
Parte Prima - LE DISCORDANZE
IL NOME
Non scriverò la parola con la quale gli altri ti chiamano: dinanzi ad essa le mie labbra sono mute, come se, pronunciandola pur solo per me stesso, po-tessi svelare ad estranei i recessi dell'anima; o come fosse disconveniente, oltre che vano, tentar di chiu-dere la tua immagine in un cerchio di poche sillabe (v'è, tra te e il loro suono, una distanza che la voce non può colmare, se non forse in qualche istante di più intensa commozione, allorché vi trema, non ratte-nuta, l'onda dei sentimenti). E veramente, qual valo-re hanno i nomi da quando gli uomini, perduto il sen-timento immediato delle cose, pensano intessendo i fili d'un astratto linguaggio? nuovamente creati, o di-mentichi della loro antica origine, sono suoni privi di un proprio contenuto, indifferenti al significato che l'uso, la convenzione o il capriccio li chiama ad espri-mere.
Ben altro peso i nomi ebbero quando nella fa-vella umana parlava la fantasia corposa, in cui urge-va il giovane mondo. Allora i primi viventi poterono scorgere in Eva la madre comune, fatta palese dalla stessa parola che la designava; allora i vegliardi d'Ilio riconobbero dall'alto delle porte Scee - e lodando ammirarono - colei che era la Splendente. Più tar-di, sul nascere di un'era nova, il poeta poté ancora chiamare con ragione Beatrice la donna venuta in ter-ra a mostrare un gentile miracolo, se è vero che ogni lingua al suo passare si faceva di stupore muta; ma già il nome di Laura è un gioco d'intelletto, perché nessuno potrebbe riconoscere in lei le aure e l'alloro (e veramente ella è figlia delle acque fresche e chiare non meno che del bosco ornato).
Se anche a me fosse lecito un tal gioco, oggi pri-vo pur di quei suo ingenuo incanto, ti nomerei da Eva o da Demetra, da Cerere o Afrodita, perché fos-se significata in te la femminilità che mi riconduce al-la vita della terra; o ti chiamerei con le voci che di-cono la luce e la beatitudine o la freschezza dell'alba; ma so che le parole sono ormai incapaci d'accogliere il pieno senso delle cose, e potrei quindi farlo soltan-to per un atto d'insolita tenerezza.
Meglio che la mia inquietudine ti vagheggi non distinta nemmeno dalla nota d'un nome, e così inde-finita ti circondi il mio vano fantasticare. Tu vivi nel mio sangue che rifermenta di giovanezza, nel mio spi-rito sregolato e ineguale, libera e mutevole come gli impeti della vita. Altra quando ti guardo - ogni vol-ta che io ti guardi - altra quando vieni o ti ritrovo nel mio sogno, sei la brama e la quiete, il tumulto e la pace, ombra luce sgomento, egualmente fuggevole e presente, egualmente reale e vana. Forse perciò tut-te le forme del creato ti riflettono e nessuna può fer-mare il tuo volto. Né saprei paragonarti se non a un disperato paesaggio - lo percuotono i nembi ed il verno l'agghiaccia - dove s'aprono cupe valli fra alti dirupi, e qua e là s'estendono zone di prato verde: lo sconsolato cielo cede talora al sereno, nelle foreste cade la forza dei venti e le acque si placano in larghi lenti fiumi; fiorisce la primavera, stormiscono tranquilli giardini, ma subito tutto dilegua, e sugli spieta-ti picchi torna a regnare il deserto (esso solo, esso so-lo è immagine del mio pensiero, e ti rispecchia quindi in una non vana similitudine).
Mi consola nondimeno la mite realtà umana ac-colta nella tua figura (la tua esistenza corporea m e necessaria per sostenere pur la trama d'un sogno), mi consolano i luoghi dove t' ho veduta o ti ritrovo, di-venuti familiari alla mia mente. Riconosco, se ti avvi-cini, le pause del tuo passo; s'e di lontano parli o ridi, riconosco - e tutti gl'istinti mi sobbalzano dentro - il suono della tua voce. Guardo i tuoi occhi fermi e chiari, la tua fronte le mani, teso a cogliere il significato dei tuoi atteggiamenti. Ma tu ti sorvegli, vigile e ambigua: non dura più d'un attimo la gioia accesa nelle tue pupille; il tuo sguardo m'avvolge, e subito si fa lontano; l'ombra che appena ti sfiorò le ciglia - un desiderio forse di vita più intensa e piena, forse un rimpianto di cose impossibili - dilegua senza traccia (o forse non era un rimpianto, o forse non era tristezza, e il tuo modo di guardarmi non aveva, come prima mi era sembrato, alcuna intenzione).
Dopo sarà cruccio e tormento: intanto alla tua presenza svanisce ogni dubbio, ed i sensi si placano in un'onda di quietudine. Perché so - o m'illudo - che pure nella tua ripulsa il tuo pensiero è mio, e si dilata fino agli estremi confini dei miei sogni. E allo-ra posso anche pronunciare, dinanzi a te o nel mio cuore segreto, le sillabe del tuo nome.
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