Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Giovanni Racalbuto
Con questo racconto ha vinto il quinto premio al concorso
Città di Melegnano 2003, sezione narrativa

QUANDO L'EURO ANCORA NON C'ERA
 
E' tornato, dopo molti anni, sul molo "Alfio Cinni", richiamato da oscuri ricordi, l'uomo che dopo un lungo tragitto della vita, è ora disteso e assopito come un ramarro sul cemento corroso dal mare.
Secondo l'abitudine, cerca un posto umido dove mettere le mani che non amano il vento, il sole o la polvere, e alla fine lo trova in una pozza lasciata dalla risacca.
Accanto a lui, come una bestiola fedele, è afflosciata la sacca delle cose che ha raccolto un po' dappertutto, da scemo e vagabondo di paese. Tiene invece ben protette, in un involto celato in una tasca segreta, le monete rimediate nella questua, quelle
leggere che andavano prima dell'euro, da cinque lire con impressa l'immagine del delfino.
Guardando la mano nella pozzanghera sta ora rivedendo se stesso bambino che corre verso il mare, in una giornata di avanzata primavera che già glielo fa immaginare tiepido e accogliente.
Stringe in mano, il bambino, il copricapo di velluto scuro che, anni prima, gli ha regalato la signora Ildegonda, patronessa e benefattrice del paese. Lo usa non solo per ripararsi dal freddo, ma anche più semplicemente, da tenere in mano, perché morbido e caldo, da sembrargli vivo.
II suo camminare, quel giorno, era felice perché sui rami vi erano già le foglie di un verde tenero e lucente mentre una piacevole corrente magnetica di vita lo investiva alle spalle sospingendolo nella stessa maniera in cui il vicino torrente trascinava i fiocchi dei pioppi, rappresi in grumi biancastri.
I ragazzi del "branco Cinni" lo incontrarono appena ebbe oltrepassato il podere di Mario del Pipì.
Andavano a caccia di nidi e del nulla che solitamente riempiva la loro violenza di adolescenti. Alcuni stringevano in mano giunchi flessibili, altri bastoni duri altri tenevano in mano bastoni e pietre di varie dimensioni, mentre il più grande (avrà avuto sedici anni), si era cacciato sul capo una corona di foglie di alloro selvatico per indicare la supremazia che esercitava sul gruppo. Il suo atteggiamento da "capo" era perfetto dal momento che posava l'occhio, a volte benevolo e a volte
imperioso, sugli altri, e più spesso, fissava un punto indefinito verso l'orizzonte. Quando si udiva un fruscio tra i rami di biancospino bastava il muoversi dei suoi occhi o il puntare l'indice nella direzione del rumore perché due dei sottoposti si avvicinassero circospetti alla siepe. Un cinguettio straziante e un frullo di ali spezzate,rivoltate tra i fitti rametti spinosi, indicavano che un altro nido era stato depredato e l'uccisione, già decretata, seguiva rapida con i bastoni e coi sassi, mentre gli uccelli più piccoli venivano semplicemente scagliati violentemente per terra. Altre volte l'imperatore ordinava, senza muoversi o parlare, di scagliare le pietre contro la muraglia bianca di biancospino dentro cui si infilavano senza rumore e sollevavano solo nuvolette di petali, mettendo in fuga placidi ramarri.
Questo gioco andava avanti da un pezzo e stava venendo a noia quando la vista del piccolo li animò calamitando l'attenzione del capo supremo che, togliendo lo sguardo dall'infinito, disse:
- Arriva lo scemo sordomuto -
Gli altri aggiunsero, presi dal desiderio di elevarsi a consiglieri:
- Pisciamogli il berretto -
- Togliamogli i pantaloni -
- Buttiamolo nel fosso -
- Bastoniamolo -
L'Augusto, con un'occhiata e un leggero scrollare di spalle disapprovò gli estremismi, mentre accolse le proposte che non erano idonee ad arrecare danno alla persona, in ciò dimostrando l'equilibrio proprio dei despoti.
- Togliamogli i pantaloni e pisciamogli berretto - sentenziò.
La frase fu ripetuta in coro dal branco e poi da ognuno di loro e continuò a rimbalzare tra gli angoli angusti della mente del bambino che accettò con curiosità che gli sfilassero i calzoni e le mutande che gli annodarono al collo come un fazzoletto. Anzi rideva per lo scherzo che gli facevano e, appena incrociando le gambe, ritraeva il bacino per il naturale istinto di proteggere i genitali.
Con delle stoppie bruciate, alla fine, gli sporcarono il pube, mentre l'incoronato sentenziò: "Adesso anche tu puoi dire di essere grande".
Oppose invece una grande resistenza per cedere il berretto che stringeva con tutta la sua forza usando in ciò, lo stesso accanimento che gli uccelli adulti opponevano nella difesa dei nidi distrutti dal branco. Riuscì anche a disorientare per un attimo gli assalitori emettendo il suono inarticolato di cui era capace : uno squittio, un sibilo, e un soffio da mantice sfiatato. Chi tirava il berretto per strapparglielo allentò la presa in quanto quel verso entrava nelle orecchie, ma scendeva all'interno del petto generando un'angoscia improvvisa.
Il capo stesso avrebbe in cuor suo, deciso di lasciar perdere ma capì che i suoi già sottolineavano un giudizio di debolezza solo vedendolo dubbioso. Fece allora un gesto imperioso col capo per dire: - Sbrighiamoci! -
Fecero infatti in fretta, e prima di andarsene annaffiarono abbondantemente con getti caldi di urina il berretto di velluto che infradiciandosi rimase sul terreno dove, simile a una bestiola schiacciata mostrava un lembo della sua fodera rossa come intestini vomitati per la violenza subita.
Il bambino quando lo raccolse,per la prima volta pianse con vere lagrime e inutilmente cercò di pulirlo dai frammenti di terra che invece, a toccarli, si spandevano ancora di più.
Rimanendo sempre con le natiche e il sesso scoperti volle distendere il berretto al sole, appoggiandolo alla siepe di biancospino mentre con gli occhi stupiti accarezzava la fuliggine del basso ventre che in questo modo si spandeva sulla pancia. Attese a lungo che il berretto si asciugasse e, osservandolo, le lagrime continuavano a scendergli abbondanti lungo le guance.
Di tanto in tanto continuava a palparlo con quella circospezione che abitualmente si usa per accertarsi se una persona morente sia ancora in vita. Aspettò un'eternità dal momento che il berretto impregnato com'era non accennava ad asciugarsi del liquido maleodorante.
Fu allora che con ogni probabilità scoccò nella sua mente uno di quei lampi che sovente lo aprivano, lui sordomuto dalla nascita, ai misteri della natura. Si infilò nuovamente mutande e pantaloni e, annodando lo spago che li sorreggevano si diresse di corsa verso il mare lasciando indietro i ragazzi del branco Cinni già intenti ad altre imprese.
Percorse o pochi chilometri in un attimo tra i tiepidi profumi della primavera che in quel momento non avvertiva vibrante come prima.
Si fermò alla fine del molo dove si appallottolò come un animale selvatico piangendo per la paura del futuro, pensando alla perdita del suo berretto che, ogni notte, per prendere sonno, doveva premersi addosso per porre in fuga le figure che, col buio,abitualmente lo circondavano, saltellandogli attorno come gatti dai colori sgargianti.
Cercò, in quella lunga disperazione, una tregua, immaginando prima una grossa pigna che, appesa a uno spago, oscillava lentamente come un pendolo, e poi perdendo lo sguardo davanti a sé nell'immensità del mare, fin oltre la salita dell'orizzonte.
Queste immagini riuscirono a calmarlo un po', ma il dolore rimaneva acuto ogni volta che gli tornava alla mente l'immagine del berretto lasciato tra i biancospini. Durante il sonno, tutte le notti, sentiva che solo quel contatto era capace di mettere in fuga le figure che lo spaventavano al capezzale... Ora i fantasmi lo avrebbero strattonato a proprio piacimento e i più feroci avrebbero potuto percuoterlo e forse divorarlo.
Altre immagini, appena abbozzate, gli si agitavano in mente, cercando faticosamente di diventare pensieri organizzati quando "vide" emergere dall'acqua un delfino che, già da tempo volteggiava al largo, facendosi scambiare per una piccola onda che fronteggiava, al largo, i marosi.
Mentre, stupito e già distratto, si asciugava le lagrime, sedendosi sulla banchina, il delfino, che si era avvicinato sparì sott'acqua per riemergere in un punto in cui galleggiava una ciocca di alghe rosse che gli rimase impigliata nella testa come una parrucca sbilenca. La scena fece esplodere l'ilarità del bambino che, ora dopo la disperazione, batteva le mani e agitava i piedi sul pelo dell'acqua dove il delfino,avvicinandosi ancora, glieli toccava col muso. Quel contatto riempì il bambino di gioia facendogli emettere suoni articolati simili a parole che lui, da sordomuto, non conosceva. Anche il delfino soffiando compì,a modo suo, modulazioni sonore articolate. E dopo poco i due... si parlarono a lungo, con un linguaggio noto a loro soltanto e all'immensità del mare.
 
Il delfino fu poi ritrovato, dal bambino, divenuto uomo, sulle monete da cinque lire che c'erano prima dell'euro. Ora incomincia ad allineare le monete su uno spazio pulito in diverse file, così che l'immagine del delfino si ripropone in decine e centinaia di volte, E l'uomo non si stanca di bearsi del luccicante colpo d'occhio.

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Città di Melegnano 2003

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