- Il
viaggio in "Valle"
A giugno la Pinina, partita da Colico, era sulla
strada per Teggiate. Si era fermata come di consueto a
Chiavenna. Nella merceria della Prima aveva comperato
varie cose che le sarebbero servite. Stava già
per uscire dal piccolo negozio quando i sui occhi
caddero su una matassa bianca. "La seta",
sospirò. Dopo un rapido calcolo su ciò
che le restava nel borsellino:"la compero", disse. In
un sussulto di gioia, quando uscì dal negozio,
pensava che avrebbe potuto ricamare lo scialletto da
mettere incrociato sul corpino. E ne avanzava anche
per la frangia. Una bella frangia, annodata a
intreccio, come lei sapeva fare. Lenta si avviò
verso il carro dove il Gos (Agostino), suo marito,
l'aspettava. Salì, si sedette sull'asse,
accanto all'uomo e non disse una parola. Sorrise
lievemente, pensando al bell'ornamento e poi
guardò la strada e fu presa da tutti i problemi
del momento. Incominciò la "muntada" (salita)
di Bette. L'andatura del cavallo rallentò, ma
non era niente in confronto a quello che sarebbe
capitato sui "crang". Là suo marito sarebbe
sceso, per risparmiare fatica all'animale. In certi
punti sarebbe scesa anche lei. Non erano ancora giunti
alla Madonna di Gallivaggio, quando sentirono qualcuno
gridare: "Sü, sü, asasìn, sü"
(alzati, alzati, assassino, alzati). Si fermarono. Sul
tornante superiore videro un carro stracolmo, fermo.
Il cavallo era inginocchiato. Il suo padrone lo
strattonava, lo tirava, lo supplicava per farlo
rialzare. La povera bestia muoveva il collo, oscillava
il capo, ma non riusciva ad alzarsi. "E' il Gusto; ha
caricato troppo", disse il Gos. Intanto che erano
lì fermi a considerare la scena, l'uomo si
raddrizzò; con due dita rimise a posto il
logoro cappello. Poi lentamente sfilò dalla
tasca il borsellino. Lo aprì con circospezione
e ne tolse un piccolo biglietto da ... (una lira,
forse). L'accarezzò per lisciarlo. Poi
l'alzò e solennemente promise "l'è per
la Madona de l'alp, s'el caval el va ineenz" (e' per
la Madonna di Gallivaggio se il cavallo andrà
avanti). L'animale, forse intuendo che il suo padrone
si era acquietato, forse perché lasciato un po'
in pace, riuscì a mettersi in piedi. Lentamente
fece qualche passo. Il Gusto, prima incredulo, poi
nuovamente in preda all'ira, prese il cavallo per la
cavezza, gli sventolò sotto il naso il povero
biglietto sdrucito e urlò: "To', brütt
ügiulun de San Casèn, te fee bri 'n pass,
u te se paghièd" (Tieni! Brutto occhiolone di
San Cassiano, non fai un passo se non vieni pagato). I
due silenziosi testimoni si guardarono sorpresi e poi
cominciarono a ridere. Anch'essi presero il loro
cavallo per la cavezza, raggiunsero il loro
conoscente, lo rianimarono e assieme risero ancora. Lo
sconforto del Gusto scomparve. Giunto alla chiesa, si
affrettò a mettere nella bussola di pietra la
sua lira miracolosa. Anche la Madonna dell'Alpe
avrà sorriso a veder la sua povera gente, un
po' disperata, un po' fiduciosa. Certamente
l'avrà guardata con misericordia. La donna si
fece il segno della croce e iniziò: "Ave
Maria..." "Santa Maria mater Dei..." risposero gli
uomini. Intanto il buio si era fatto intenso. I
cavalli andavano con il capo chino, seguendo il bianco
della strada. Quando giunsero in vista di
Campodolcino, la donna era stanca. L'unico sollievo
era quella matassa di seta. Il sogno dello scialletto
ricamato, con la frangia, la sosteneva. I viandanti si
sarebbero fermati per la notte. Prima dell'alba
avrebbero ripreso il cammino. Infatti, appena la prima
luce scolorì il cielo, la Pinina, infreddolita,
prese posto accanto al marito sul carro, che si
avviò, lentamente, sulle ruote cigolanti. La
donna avvertiva una certa apprensione. Era la prima
volta che si avviava verso la baita del marito. Le
nozze erano avvenute a gennaio. Ora aveva cambiato la
zona di transumanza estiva. Non più Madesimo e
gli Andossi ma Teggiate.
- Teggiate
Il luogo era molto impervio. Non come la Montaneza di
Madesimo, dove i suoi avevano una vera casa. Teggiate
era su una cengia. Dopo la Val Bianca, ecco, in alto,
la baita. Di pietra, il tetto spiovente, la grande
trave che lo sosteneva pareva forte. La consolò
l'ampio spazio coperto, all'entrata. Tutto il carro
era al riparo. Subito sotto, il primo pendio erboso
era ripido. In fondo le rocce mostravano l'inizio
della parete scoscesa. Su un'altra balconata rocciosa,
là dietro i ripidi prati, si vedeva, bianca, la
chiesetta della Madonna della Neve. Per raggiungerla
bisognava seguire lo stretto sentiero, che tagliava il
costone di sbieco. Qualche valloncello si apriva la
via tra i dossi. Su un altro sperone roccioso
ondeggiava solitario un larice. Alla Pinina, che era
abituata alla dolcezza del declivio degli Andossi,
tutta quell'erta di prati e di rocce metteva un senso
di timore. E sulle balze vide capre, dalle lunghe
corna; lei non amava le capre. E baite dirute,
circondate da ortiche gigantesche. Sembrava un pezzo
di monte in rovina. La giovane sposa sentì un
vuoto al cuore. La nuova vita ebbe inizio. I giorni si
susseguivano; alcuni sereni senza una nube ed altri
pieni di "scighera" (nebbia fitta). La casa del Gos
era umida, con una cantina profonda, che metteva i
brividi. Quei gradini sconnessi, per raggiungerla, la
facevano sempre inciampare. Non riusciva a ricordarsi
dove traballavano. La cucina era nera di fumo. La
piccola finestra, troppo alta, non riusciva a darle
luce sufficiente. L'unico ambiente allegro era la
grande stüa, dal pavimento di assi ben uniti con
le pareti ricoperte di pannelli di legno. Qui vi era
il tavolo, circondato dalle panche. Nell'ampio spazio
di lato un bel letto col saccone pieno di foglie di
granoturco, soffice e asciutto. Lei ogni mattina
infilava la mano nella lunga asola e con rapidi gesti
sollevava le foglie. Rifaceva cosi' il letto in cui
aveva messo le sue belle lenzuola di canapa e lino,
ricamate nelle sere d'inverno in previsione delle
nozze. Il letto era per lei e suo marito. Il
"cascìn" (pastore) dormiva sopra, in una
cameretta, a fianco di quelle di altri proprietari. La
casa infatti non apparteneva tutta alla sua
famiglia.
- La
storia del Moch
La donna quel giorno era inquieta. La sera prima, la
vecchia Nèta (Annetta), dopo il rosario,
recitato sulla panca davanti a casa sua, con tutti i
vicini, aveva raccontato un fatto, che assieme alla
meraviglia dava i brividi. Era la storia del Moch, un
vicino del Peder. Entrambi venivano da Isola. A
Teggiate avevano quelle due baite basse, unite, sopra
il primo precipizio. La Nèta li aveva
conosciuti quando ancora era bambina. Il Peder era
forte, i capelli neri, arruffati. E portava sulla
camicia un gilet di grossa lana grigia. Parlava sempre
con voce grossa e sollevava la testa rapido, per
guardare chi gli era vicino. Camminava piegandosi di
lato, mai curvo in avanti. Il viso era rosso, i baffi
lunghi. Poi un giorno era morto. Gli avevano fatto il
funerale, come si fa con tutti. Lo avevano seppellito
nel cimitero di Isola. Ma una sera, di forte
temporale, in cui l'acqua batteva sulle piote del
tetto come se volesse romperle, si sentì
galoppare un cavallo. Galoppava non sulla strada. Si
era proprio sicuri. Galoppava sulle cenge, da una
all'altra. Saltava e i ferri facevano scintille sui
sassi levigati e avrebbero potuto bruciare l'erba, se
non ci fosse stata tutta quell'acqua. I bagliori
lunghi dei lampi rasentavano i dossi e le rocce.
Udivano tutti, nei loro giacigli: "Dach quel toch al
Moch" e "... och" ripeteva l'eco, sull'onda dei tuoni
e dello scalpitio del cavallo. La Pinina quella sera,
intanto che cercava il conforto del riposo nel suo bel
letto, risentiva la voce tremula della Nèta. E
tra la prima pioggia battente pensava a quel grido.
Ascoltava bene, era solo la pioggia, poi un lampo... e
poi un tuono che andava a prolungarsi nella valle.
Com'era confortevole la sua stüa! Ma là,
dietro a quelle balze rocciose, chissà chi
c'era. Tutto quel buio, rotto dai lampi, le metteva
soggezione. Non voleva accendere la candela. Si disse
che non voleva sprecare il fiammifero, o forse per non
vedere la piccola fiammella tremolante sotto
l'acquasantino. Il Peder cosa aveva fatto? Aveva
spostato i termini del suo magro prato, ai danni del
suo vicino, il Moch. Ora, dopo morto, chiedeva ai sui
eredi di fare giustizia, di restituire al proprietario
ciò che gli era stato tolto, altrimenti sarebbe
stato dannato. La Pinina fece un rapido esame delle
proprietà di suo marito. Lei era nuova,
un'estranea. Suo marito non aveva prati su quei dossi.
Ne era sicura. Il suo Gos, poi era un uomo preciso,
non tagliava neanche le "cimose" del sentiero per non
danneggiare il vicino. Eppure un brivido, prima di
dormire, le tolse sicurezza. Allora rapida
cominciò a recitare di nuovo le preghiere. E
non seppe fin dove era arrivata, nel rito abituale. Si
svegliò che era mattina, ed era già ora
di alzarsi, per tutti i lavori del giorno. Nessuna
nube nel cielo, nessun resto del temporale notturno,
nessun segno della pena del dannato. Guardò
verso la Madonna della Neve, la chiesa era là,
piccola e sperduta, tra una roccia e le case
diroccate. Ogni cosa era al suo posto. Allora la
Pinina guardò la strada. Forse qualcuno degli
Andossi sarebbe passato per scendere verso Colico.
Intanto il sole splendeva. Era un piacere stare sulla
panca sotto la finestra a sferruzzare. Alla Pinina
venne in mente che, in una giornata così, era
meglio pensare al bucato. Riempì quindi la
gerla di biancheria. La pressò per farla
entrare bene. Prese dalla mensola, in cucina, un pezzo
di sapone. Lo accarezzò piano. Era piccolo, col
segno delle mani nel mezzo. Sarebbe bastato per il
bucato. Lei aveva tanta energia e l'acqua che scendeva
dalla valle era molto buona. Passò le braccia
nelle bretelle di salice della gerla e fu in piedi.
Eccola già sul pendio, con la gonna rialzata ai
lati, verso il torrente che scorreva a fianco della
chiesetta. Intanto che camminava, guardava l'erba e i
piccoli fiori. Cercava con l'occhio vigile qualche
"pèt" (fungo bianco). Dopo il temporale della
notte forse qualcuno era spuntato. Quello era un posto
buono. Un giorno ne aveva trovato uno tanto grosso
che, ben cucinato, era bastato per tutti come
pietanza. Camminava e intanto le veniva ancora in
mente il temporale della notte. Era su quelle balze
che galoppava il Peder. Volle fare una risata,
perché lei non aveva paura. Ma non
riuscì. Affrettò il passo, vide il
recinto pietroso dissestato delle capre. Andò
dritta alle rocce levigate dove scorreva l'acqua, si
avvicinò alla pozza dove le donne erano solite
fare il bucato. Tentò rapida la lastra di
pietra su cui avrebbe lavato. Raddrizzò l'altra
a gradino, su cui poi si inginocchiò.
Cominciò col lanciare un lenzuolo sull'acqua,
sollevato dalla corrente nel mezzo, si chinò
per avvicinare il lembo lontano, bagnato. Intanto il
gorgoglìo dell'acqua la distraeva. La sua
freschezza sulle mani la faceva rabbrividire. Intanto
che sollevava il panno attorcigliato si
raddrizzò, guardò in alto. Vide quelle
rocce, da cui scendeva l'acqua, concave e lisce. Le
sembrò che potessero parlare, così
ravvicinate, un po' tonde, un po' allungate, con forme
quasi umane. E vide la scena che le era stata narrata:
il Peder che faceva saltare il suo cavallo da una rupe
all'altra, nella tempesta, tra i lampi. Si
affrettò a dire un' "Ave Maria". Così
aveva fatto anche la sera prima. Ora però non
poteva dormire. Sentì un fischio di richiamo.
Qualcuno cercava il suo cane, mentre saliva lento il
sentiero da Isola. Respirò di sollievo, ma quel
luogo desolato le dava tristezza. La sera precedente,
aveva visto, negli occhi chiusi, un uomo che non si
curvava in avanti, ma si piegava da una parte, mentre
cavalcava, con i capelli irsuti ed il viso rosso.
Intanto i panni insaponati facevano una bella schiuma,
che si cercava la via tra un sasso e l'altro. La
Pinina pensò che se avesse lavato in fretta i
panni e li avesse stesi sul muretto sconnesso, li
avrebbe portati a casa quasi asciutti. Sarebbe stato
un bel lavoro: questo contava, non le favole
raccontate di sera. Lei non credeva che le anime
dannate ritornassero nel nostro mondo, ma molti ci
credevano. Radunati i panni asciutti si avviò
verso casa. Camminava curva sotto la gerla, cercava
con l'occhio il punto dove mettere il piede per non
scivolare. Respirava quell'aria profumata, con
sollievo.
- Il
vitello ferito
Un mattino la Pinina aprì la porta e
guardò la valle: i torrenti scendevano dalle
montagne di fronte con un mormorio uguale. Le vette
erano disegnate nel cielo immobile. Neanche un nube.
La donna chiamò il Tino, il pastorello,
perché venisse a mangiare lo "scotamüs"
(latte bollente con la polenta del giorno prima) e si
affrettasse poi a portare le mucche sull'alpe. Venne
di corsa il ragazzetto, tutto contento. Intanto
chiamava le mucche: "too, Chièrina! Too, Lena!
Too, Fula!" e i vitelli, soprattutto il Güs
(guscio), così svelto e leggero, sempre fuori
dal gruppo. Il pastore, col suo bastone lisciato si
avviò verso il pendio, attento e rapido.
Fischiettava felice. Gli piaceva stare lì
sull'alpe. La Pinina era buona, allegra: un po'
sorella, un po' mamma. Lo lasciava riposare, gli dava
da mangiare finché ne voleva. Beninteso, non
doveva sciupare niente. Doveva dire le preghiere sera
e mattina. Per il resto era libero di ridere e
scherzare. Non era così in tutte le case. Lui
aveva nostalgia della sua famiglia, ma a Teggiate si
trovava bene. Quel mattino era allegro, sentiva la
forza della montagna nelle gambe. Poteva correre,
superare la mandria, tornare indietro e superarla di
nuovo, sul pendio ripido, senza il minimo sforzo.
Aveva le gambe di elastico. Così dicevano di
lui. "Oggi vado sopra i Cascestri" disse.
Chiamò ad una ad una le sue bestie: "si va in
alto, dove l'erba è più bella", le
informava. I campanacci oscillavano veloci, i
rintocchi si spandevano nella valle e l'eco lontana
rispondeva. Su, su, tutto il dosso era fiorito. Il
ragazzo girò la cengia. Su ancora. Poi si
sdraiò a guardare il cielo, mentre le mucche
brucavano soddisfatte. Vide una nube bianca che
passava veloce sopra i suoi occhi. "Schiuma di latte"
disse. Ed ebbe sete. Intanto sentiva il richiamo degli
altri pastorelli. Li vedeva più in basso, e li
raggiunse. Incominciarono a discutere per preparare il
gioco della "zòca". Si divertirono per un buon
tempo. Quando le mucche si sdraiarono, i ragazzi
scesero di corsa verso le baite, per consumare il
pasto. Non vedevano neanche i dossi, non erano
intimiditi da nessun pendio, da nessuna sporgenza
rocciosa. Il Tino, sudato, entrò nella baita,
si sedette sulla panca, intanto che la Pinina gli dava
la scodella. Con la fame di chi vuol saziarsi in un
boccone, mangiò la polenta col formaggio. Poi
un altro pezzo, e un altro ancora. Alla fine
mangiò quel che restava. Era pronto, già
sulla porta, vigile al richiamo dei compagni. Ora
insieme salivano lenti, si giravano, parlavano di chi
era appena arrivato dal piano, di quel che avevano
udito. Il pomeriggio passò uguale agli altri.
Ma quando fu l'ora di radunare gli armenti, per
scendere, il Tino ebbe un tuffo al cuore. Mancava il
Güs. Lo chiamò e lo richiamò con la
mano alla bocca per dare più forza alla voce.
Salì sui dossi interni e su quelli esterni.
Anche i compagni, coinvolti nella ricerca, intuirono
la sua pena. Il Güs mancava. Il Tino
affidò le sue mucche agli amici e corse sulla
cengia. Non respirava neanche, tanto intensa era la
sua ansia. Guardò giù. Niente.
Guardò tra una roccia rotta e una scarpata: il
Güs era lì. Sollevava la testa, ma era
immobile. "Oh Güs, Güsìn" supplicava
il ragazzo, "cos'hai fatto? Vieni!" Il Vitello era
lì, gli occhi umidi, velati. A fatica il
ragazzo scese la rampa. Guardò la bestia, la
toccò e vide la ferita: una lacerazione
diritta, dall'anca al ginocchio. Allora corse
giù fino al sentiero e cominciò a
gridare aiuto. Corsero quelli delle baite vicine,
lì ai Casìn. Arrivarono prima le donne,
poi due uomini. Uno, deciso, andò a prendere il
carro. Quindi staccò una sponda: sarebbe
servita da barella. Bisognava far arrivare il vitello
sul sentiero, ai piedi della cengia. Il Tino piangendo
andò ad avvertire la Pinina. La incontrò
poco sotto. Aveva già sentito dagli altri
ragazzi l'accaduto. Non conosceva i particolari. Le
donne la incoraggiavano, gli uomini la rassicuravano:
la ferita non era grave, il vitello non era da
macellare. Nel modo ingegnoso dei montanari, con
l'aiuto di tutti, la bestia venne caricata sulla
barella e portata al carro. E poi giù fino alla
baita della Pinina. Il Güs venne messo su una
lettiera fresca. Si pulì la ferita con degli
asciugamani intinti nell'acqua fresca e ben ritorti.
Si diede da bere al vitello, da bere quello che le
donne sapevano preparare sia per le bestie sia per i
cristiani. La Pinina, intanto, con decisione,
attuò il suo piano. Prese un lungo ago, la
lesina e la sua bella matassa di seta bianca, quella
per la frangia dello scialle della festa. Si
inginocchiò vicino al vitello, chiamò il
Tino e gli chiese di portare dell'acqua pulita, gli
asciugamani e tutto l'aceto. Decisa, disinfettò
la ferita e incominciò ad accostare i lembi di
pelle, con precisione, vicini. Con la lesina bucava la
forte cote e poi introduceva l'ago e col filo di seta
cuciva, un punto dietro l'altro. Il vitello immobile.
Gli occhi velati, sembrava capire che lo volessero
aiutare. Non un gemito, non una mossa. La Pinina
andava avanti nel suo lavoro, mentre il sudore la
avvertiva della fatica e dell'ansia. I vicini, senza
far rumore, si erano messi intorno, per vedere e
restavano meravigliati per l'energia della giovane, e
per la mansuetudine del vitello. Alla fine espressero
la loro approvazione e nella voce c'era la gioia di
chi ha vinto un pericolo, una minaccia. Era la
vittoria di tutti. Tutti si sentivano partecipi di
quella riuscita. "Brava Pinina, bravo Güsin".
Così era la solidarietà nelle case sulla
montagna: il male e il bene di uno, lo era di tutti.
Il vitello guarì e la vita
continuò.
P.s.: i fatti narrati risalgono alla seconda
metà del XIX secolo, e sono stati tramandati in
famiglia fino a noi.
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