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Di Primo
Levi è consigliabile leggere ogni opera
perché i suoi libri sono come i cerchi
concentrici sulla superficie dell'acqua che
riconducono al lancio del sasso che ha provocato
tale fenomeno.
- L'evento
è stata la deportazione come ebreo ad
Auschwitz, la dolorosa esperienza del campo di
sterminio, l'impulso a testimoniare come
sopravvissuto la resistenza alla negazione della
dignità umana, il resoconto della spietata
chirurgia nella persecuzione e nella
eliminizzazione di un "problema biologico": dopo il
ritorno da Auschwitz diventa insopprimibile il
bisogno di scrivere e in breve tempo prende vita Se
questo è un uomo a cui seguirà La
tregua e poi, tempo dopo, Se non ora, quando? fino
ad arrivare a Il sistema periodico del 1975 e a
L'asimmetria e la vita, pubblicato solo un anno fa,
che comprende un'ampia scelta di articoli e saggi
comparsi su giornali e riviste.
- E se quel primo
libro era stato scritto da Levi come
necessità vitale e improrogabile di
testimonianza per far sapere agli altri cosa era
successo e come era potuto accadere un tale orrore
nonché per assolvere come ad un personale
dovere morale nei confronti dei tanti compagni
morti in lager, posso confermare a pieno diritto
che il suo intento e il suo impegno «di
raccontare agli altri, di fare gli altri
partecipi», senza lasciarsi mai prendere la
mano da una facile condanna o da una falsa
retorica, ha avuto in me il più sincero e
partecipe fratello.
- La
dignità di un uomo, la coerenza morale, la
chiarezza delle idee, la sua propensione a parlare
a voce bassa, la totale mancanza di odio e di
rancore verso i carnefici, sono già un
lascito ben più prezioso del più
grande tesoro: la testimonianza di ciò che
deve essere un Uomo per dirsi tale.
-
- ***
-
-
- Per una sorta di
pudore personale la mia fedeltà alle parole
di Primo Levi sarà totale: è una
scelta alla quale non posso sfuggire, una sorta di
rispetto e poi sono parole alle quali non si
può aggiungere nient'altro.
- E voglio
iniziare con il resoconto della liberazione del
lager di Buna Monowitz, dove era prigioniero anche
Primo Levi insieme a tanti altri, quando quel
mezzogiorno del 27 gennaio del 1945 giunse la prima
pattuglia russa. È il momento della
liberazione nella quale l'uomo ritorna ad essere
uomo ma come leggerete, se non l'avete già
fatto, non vi saranno canti di gioia per la
ritrovata libertà, non si assisterà a
festeggiamenti o balletti di gruppo.
Tutt'altro.
- Già nei
primi giorni di gennaio i tedeschi avevano evacuato
e distrutto i lager ma per Auschwitz vi fu l'ordine
di recuperare ogni uomo abile al lavoro mentre i
malati furono abbandonati alla loro
sorte.
- Nell'infermeria
del lager di Monowitz erano rimasti in ottocento:
cinquecento morirono quasi subito a causa delle
malattie, del freddo e della fame prima che
arrivassero i russi e altri duecento nonostante i
soccorsi morirono nei giorni
successivi.
- Lui ed il
compagno Charles stavano trasportando nella fossa
comune il corpo dell'ultimo sfortunato: «fra
il grigio della neve e il grigio del cielo,
immobili sotto le folate di vento umido minaccioso
di disgelo».
- Quattro giovani
soldati a cavallo procedevano guardinghi al limitar
del campo e una volta giunti ai reticolati,
mitragliatori in spalla, sostarono a guardare,
poche timide parole, lo sguardo impietrito sui
cadaveri scomposti, sulle baracche distrutte e su
quei pochi sopravvissuti che parevano appena usciti
dalle fauci della morte.
- «Non
salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi,
oltre che da pietà, da un confuso ritegno,
che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro
occhi allo scenario funereo»: era la stessa
vergogna della "selezione" che portava alla camera
a gas o al campo di lavoro forzato, dell'oltraggio
e dell'annientamento di esseri umani.
- Così
scrive il "tatuato" Levi in una delle pagine
più intense: «Così per noi anche
l'ora della libertà suonò grave e
chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo,
di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui
avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le
nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di
pena, perché sentivamo che questo non poteva
avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto
avvenire di così buono e puro da cancellare
il nostro passato, e che i segni dell'offesa
sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi
di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e
nei racconti che ne avremmo fatti. Poiché,
ed è questo il tremendo privilegio della
nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha
potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile
dell'offesa, che dilaga come un contagio. È
stolto pensare che la giustizia umana la estingua.
Essa è una inesauribile fonte di male:
spezza il corpo e l'anima dei sommersi, li spegne e
li rende abietti; risale come infamia sugli
oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e
pullula in mille modi, contro la stessa
volontà di tutti, come sete di vendetta,
come cedimento morale, come negazione, come
stanchezza, come rinuncia».
- Pochi corsero
incontro ai salvatori, pochi caddero in preghiera:
Levi ed il suo compagno Charles rimasero in piedi
presso la buca ricolma di membra
livide.
- E anche per
tutto il resto del giorno avevano inconsciamente
cercato di fare qualunque cosa per non avere il
tempo di pensare perché di fronte alla
libertà ci sentivamo smarriti, svuotati,
atrofizzati, disadatti alla nostra
parte.
- Durante l'anno
trascorso nel lager, il "tenebroso edificio di
potenze malvage" era sempre stato al di sopra delle
vittime con la sua complessa struttura gerarchica,
mentre lo sguardo dei "segnati" era sempre rivolto
al suolo: avevo visto sparire i quattro quinti dei
miei compagni e proprio nel momento della
liberazione tutto sembrava sprofondare nei
più funesti pensieri e un dolore nuovo
sembrava impossessarsi delle membra indolenzite;
non era il dolore dell'esilio, della solitudine,
degli amici perduti, della giovinezza perduta,
della massa di cadaveri intorno ma un dolore nuovo
che faceva sentire ora per la prima volta l'assedio
della morte, il suo fiato sordido nelle mie stesse
vene.
- Solo il mattino
dopo vi furono i primi segni di libertà. I
russi precettarono una ventina di civili polacchi
per pulire le baracche e sgomberare i cadaveri e,
verso mezzogiorno, inviarono un bambino con un
mucca che fu macellata in pochi minuti e
distribuita ai superstiti del campo. E poi il
giorno dopo delle ragazze polacche, pallide di
pietà e di ribrezzo, ripulirono i malati e
ne curarono le piaghe. Con il disgelo il campo era
diventato un acquitrino, i cadaveri e le immondizie
rendevano l'aria irrespirabile e velenosa mentre la
morte continuava a falcidiare i malati che morivano
nel freddo delle cuccette o nelle strade fangose
perché non c'erano né medici
né medicine. Giacevo in un torpore febbrile,
tormentato dalla sete e da acuti dolori...
metà della faccia si era gonfiata e la pelle
si era fatta rossa e ruvida come per un ustione...
- Quando venne il
turno di salire sul carro che lo avrebbe portato al
lager centrale di Auschwitz, trasformato in un
lazzareto, Primo Levi non era più in grado
di reggersi in piedi e fu issato sul carro dai
compagni Charles e Arthur: era un carico di
moribondi sotto una pioggia finissima di morte.
«Sfilarono per l'ultima volta sotto i miei
occhi le baracche dove avevo sofferto e mi ero
maturato, la piazza dell'appello su cui ancora si
ergevano la forca e un gigantesco albero di Natale
e la porta della schiavitù, su cui, vane
ormai, ancora si leggevano le tre parole della
derisione: "Arbeit Macht Frei", "Il lavoro rende
liberi"».
- Oltrepassata la
soglia del Campo Grande di Auschwitz vi fu il bagno
alla "maniera russa" e quando toccò
all'ultimo del gruppo la scena fu una miscela di
pietà ed orrore: «Nessuno di noi sapeva
chi fosse costui, perché non era in grado di
parlare. Era una larva, un ometto calvo, nodoso
come una vite, scheletrico, accartocciato da una
orribile contrattura di tutti i muscoli... un
blocco inanimato, e ora giaceva a terra su un
fianco, acciambellato e rigido, in una disperata
posizione di difesa, con le ginocchia premute fin
contro la fronte, i gomiti serrati ai fianchi, e le
mani a cuneo con le dita puntate contro le
spalle... quando... cercarono di distenderlo sul
dorso, emise strida acute da topo... le sue membra
cedevano elasticamente sotto lo sforzo, ma appena
abbandonate scattavano indietro alla loro posizione
iniziale».
- Nel corso di
quei pochi giorni passati in camere buie ed enormi
che solo la fantasia poteva denominare infermerie,
finalmente la febbre era svanita e chi era
sopravvissuto iniziava a riprendere contatto con il
mondo. Nonostante le prime grida allegre e le prime
canzoni Primo Levi e i suoi vicini di letto non
riuscivano a distogliere la loro mente dalla
presenza ossessiva del più piccolo fra loro,
del più innocente, di un bambino,
Hurbinek.
- «Hurbinek
era un nulla, un figlio della morte, un figlio di
Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno
sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non
aveva un nome... perché... quel curioso
nome, Hurbinek, gli era stato assegnato da noi...
Era paralizzato dalle reni in giù, aveva le
gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi
occhi, persi nel viso triangolare e smunto,
saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta,
della volontà di scatenarsi, di rompere la
tomba del mutismo... era uno sguardo selvaggio ed
umano ad un un tempo, anzi maturo e giudice, che
nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico
di forza e di pena... Hurbinek, che aveva tre anni
e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto
un albero; Hurbinek, che aveva combattuto come un
uomo, fino all'ultimo respiro, per conquistarsi
l'entrata nel mondo degli uomini, da cui una
potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il
senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure
stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek
morì ai primi giorni del marzo 1945, libero
ma non redento. Nulla resta di lui: egli testimonia
attraverso queste mie parole».
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- ***
-
- A quasi
sessant'anni da quella liberazione dei lager si fa
ancora fatica a leggerne la storia con animo
spassionato perché i campi di sterminio
hanno provocato una somma incalcolabile di dolore e
di morte.
- L'organizzazione
dei lager è perfettamente conosciuta anche
nei più insignificanti e sordidi particolari
ma poco si sa per quali ragioni e cause si sia
potuta edificare una gigantesca fabbrica di morte e
funzionare con atroce efficienza fino al collasso
tedesco. Del resto nessun saggio o trattato storico
potrebbe risolvere o comprendere un comportamento
extra-umano: «Auschwitz non ha nulla a che
vedere con la guerra, non ne è un episodio,
non ne è una forma estrema». La guerra
è un fatto doloroso e tragico che da sempre
accompagna la storia dell'uomo quasi in una sorta
di crudele lotta per l'esistenza ed è un
germe che ci portiamo dietro, insito dentro di noi:
ma Auschwitz non è in noi, è fuori
dell'uomo, e i suoi autori non sono in preda al
delirio perché sono diligenti e tranquilli,
efficienti e compassati; sono funzionari di Stato,
brutali, insensibili all'orrore quotidiano e anche
le loro dichiarazioni e testimonianze postume sono
fredde e vuote quasi distaccate.
- «Ogni uomo
civile è tenuto a sapere che Auschwitz
è esistito, e che cosa vi è stato
perpetrato: se comprendere è impossibile,
conoscere è necessario». La sua
infezione presenta segni precisi: la negazione
della solidarietà umana, l'indifferenza
cinica per il dolore altrui, l'abdicazione
dell'intelletto e del senso morale, la viltà
abissale mascherata da fedeltà a un'idea.
Solo ad Auschwitz, in nome di tutto ciò,
furono sterminati con meticolosità
scientifica milioni di uomini, donne e bambini; e
furono utilizzati non solo i loro averi e i loro
abiti ma anche le loro ossa, i loro denti perfino i
loro capelli. La Germania nazista e tutti i paesi
da essa occupati erano un tessuto di campi di
sterminio e di campi di lavoro. I lager erano
strettamente collegati con l'industria bellica
tedesca che si fondava su di essi ed il sistema
sarebbe stato perfezionato in caso di "vittoria
finale" con la creazione di un Ordine Nuovo: da un
lato la classe dominante del Popolo dei Signori
(cioè i tedeschi) e dall'altro una
sterminata massa di schiavi a lavorare ed
obbedire.
- A fronte di
queste considerazioni la lettura di queste pagine
tragiche è un dovere per tutti perché
può aiutare a vegliare continuamente sulla
nostra coscienza.
- È una
pura illusione ritenere che tutti gli uomini
abbiano un naturale amore per la libertà e
per la dignità. Da sempre le mani dell'uomo
sono insanguinate. Nei periodi più tragici e
vergognosi pochi uomini hanno lottato e difeso i
diritti inalienabili dell'uomo.
- Tutti noi
sappiamo che la libertà intellettuale,
soprattutto in certe situazioni pericolose,
è poco seducente e comporta immani fatiche
nonché pochi uomini sono disposti a portare
il peso gravoso di questa responsabilità.
Che si tratti di lager o gulag nulla cambia. Eppure
della libertà si sente spesso parlare in
tono enfatico: come principio cosmico, come
garanzia, come bene inalienabile, l'edificante
Uomo-Libertà. Ma la strada per la
libertà è avventura assai più
rischiosa, è un atto di coraggio, un
percorso doloroso.
- L'uomo libero
è tale anche in prigione, nella stanza della
tortura, nella fossa comune, nella miseria, nella
disperazione e anche se sottoposto alle più
atroci sofferenze. Ogni limitazione, ferita,
coercizione, negazione del corpo e della mente
paiono messe lì apposta nella storia
dell'uomo per dimostrare l'inalienabilità
della libertà: proprio dove tutto sembra
perduto, nelle tenebre della morte, nelle camere a
gas, nello sterminio di massa, nell'uomo assassino
dell'uomo. Fortunatamente le testimonianze di
questa vittoria della libertà e della
dignità umana sono numerose anche nelle
condizioni più drammatiche e subumane.
Quella di Primo Levi è una di
queste.
-
- ***
-
- Da ragazzo aveva
sognato di diventare un linguista, poi di fare
l'astronomo, e infine a diciotto anni si era
iscritto all'Università, corso di laurea in
chimica. Una cosa era certa: non avrebbe mai
pensato di diventare uno scrittore e in effetti non
fu mai uno scrittore a tempo pieno dividendo tale
condizione con il lavoro di chimico e diverse volte
scrisse «scrittore non riesco proprio a
considerarmi... sono solo soddisfatto di questa mia
duplice condizione e dei suoi vantaggi». In
effetti ciò gli permise di scrivere solo
quando ne sentiva la necessità o lo
desiderava mai attanagliato dall'obbligo di
"scrivere per vivere". E poi la professione di
chimico offriva insegnamenti continui che potevano
essere utili anche per uno scrittore: «...
quella educazione alla concretezza e alla
precisione, all'abitudine di "pesare" ogni parola
con lo scrupolo di chi esegue un'analisi
quantitativa... quello stato d'animo che suole
chiamarsi obiettività: riconoscimento della
dignità intrinseca non solo delle persone ma
anche delle cose, alla loro verità, che
occorre riconoscere e non distorcere, se non si
vuole cadere nel generico, nel vuoto e nel
falso».
- Nato a Torino
nel 1919 (lo stesso anno in cui veniva fondato in
Germania il partito nazional socialista) da una
famiglia agiata di ebrei piemontesi, compì
gli studi nel periodo del fascismo portando con
sé una naturale avversione alla cultura
fascista. Poi nel 1938 furono proclamate in Italia
le leggi razziali che separavano gli ebrei dal
resto della popolazione: gli ebrei diventarono
anche nel nostro paese i "nemici del popolo e dello
Stato", i "negatori della giustizia e della
morale", i "distruttori dell'arte", i colpevoli in
assoluto. Leggiamo dal testo autografo di Benito
Mussolini inerente la "Dichiarazione sulla razza":
«Il fascismo svolge un'attività
positiva, diretta al miglioramento quantitativo e
qualitativo della razza italiana, miglioramento che
potrebbe essere gravemente compromesso, con
conseguenze politiche incalcolabili, da incroci e
imbastardimenti. Il Gran Consiglio del fascismo
stabilisce: a) il divieto di matrimoni di italiani
e italiane con elementi appartenenti alle razze
camita, semita e altre razze non ariane; b) il
divieto per i dipendenti dello Stato di contrarre
matrimoni con donne straniere di qualsiasi razza;
c) il matrimonio con stranieri di razze ariane
dovrà avere il preventivo consenso del
Ministero dell'Interno; d) dovranno essere
rafforzate le sanzioni contro chi attenta al
prestigio della razza nei territori dell'Impero.
L'appartenenza alla razza ebraica deve essere
denunziata ed annotata nei registri dello stato
civile e della popolazione; divieti all'ingresso
degli ebrei stranieri nel Regno, criteri per
stabilire l'appartenenza alla razza ebraica,
istituzione di cattedre di studi sulla razza nelle
principali università, viene istituito a far
data dal 5 settembre 1938, il Consiglio Superiore
della Demografia e della Razza del quale faranno
parte numerosi presidi di facoltà di varie
università Roma, Napoli, Firenze, Bologna,
Genova nonché una cerchia di senatori,
consiglieri di stato, professori e avvocati».
- Per quanto
riguarda poi l'effettiva applicazione ed esecuzione
di alcune delle disposizioni contenute nella
"Dichiarazione sulla razza" si può ricordare
che Himmler si lamentò con vibrate proteste
del comportamento italiano perché in molte
zone occupate dalle truppe italiane gli ebrei si
erano potuti muovere del tutto liberamente,
sussistevano continue difficoltà per la
consegna degli ebrei croati destinati al
trasferimento verso l'Oriente; poi riguardo la
deportazione di alcuni ebrei dalle zone occupate
della Grecia si lamentava che non si era giunti
all'attuazione di alcun provvedimento, continue
difficoltà, rinvii, mancanza di rigorose
esecuzioni, sospensioni, richieste ostinate di
liberazioni di donne ebree unite in matrimonio con
ufficiali italiani e poi un lungo elenco di consoli
e viceconsoli ebrei "efficientemente stanati
dall'ambasciata tedesca" quali il console svedese
Lekner, i consoli portoghesi Frankel, Coser e
Dunes, il viceconsole spagnolo Garsolini Durando e
il bulgaro Eliznakoff nonché il console
giapponese Schnabel "per un quarto ebreo". È
inutile sottolineare le differenze tra l'azione e
la metodologia italiana e quella tedesca.
Così si conclude la nota: «Dato
l'atteggiamento italiano sulla questione ebraica,
non c'è da aspettarsi che gli Italiani
adottino misure per l'epurazione del corpo
consolare dagli ebrei ma sarebbe gradito fosse
richiamata l'attenzione del Duce».
- D'altra parte le
differenze c'erano e basta leggere il Mein Kampf di
Hitler: «Primo compito non è quello di
creare una costituzione nazionale dello Stato ma
quello di eliminare gli ebrei. Come spesso avviene
nella storia, la difficoltà capitale non
consiste nel formare il nuovo stato di cose, ma nel
fare il posto per esse».
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- Primo Levi aveva
ventitrè anni quando in Germania Hitler
decise la "soluzione finale". Nell'estate del 1943
cadde il fascismo, l'esercito tedesco aveva invaso
l'Italia del nord, gli Alleati erano sbarcati in
Italia, ma nonostante l'entusiasmo Primo Levi era
spaventato al solo pensiero del periodo di lotta e
combattimenti che ne sarebbe seguito. In ogni caso
aderì alla resistenza antitedesca e si
aggregò ad una banda partigiana del
movimento "Giustizia e Libertà" in Val
d'Aosta: non passarono che poche settimane e nel
primo rastrellamento della milizia fascista fu
catturato insieme a pochi altri. Dopo la cattura si
fece riconoscere come ebreo sperando di venir
rinchiuso in qualche prigione in Italia invece, nel
febbraio del 1944, fu consegnato ai tedeschi: e in
quegli anni significava, per qualsiasi ebreo, un
"destino terribile". (Mentre scrivo leggo da un
articolo di Giampaolo Pansa su l'Espresso alcuni
ricordi legati al periodo delle leggi razziali:
Raffaele Jaffe, preside di un istituto magistrale a
Casale, catturato dai fascisti nel 1944, portato,
come Primo Levi, al campo di transito di Fossoli e
poi ad Auschwitz, dove fu mandato nella camera a
gas, all'età di 66 anni; poi Cesare Davide
Segre, 57 anni, sordo e muto, ricoverato da anni al
reparto incurabili dell'ospedale e Sanson Segre, 88
anni, commerciante a riposo che aveva appena subito
l'amputazione di un piede in cancrena: anche loro
inviati a Fossoli e poi ad Auschwitz. E poi ancora
i due fratelli ebrei Riccardo Fiz, 75 anni, e il
geometra Roberto Fiz, 71 anni, anche loro uccisi ad
Auschwitz).
- Le
responsabilità del fascismo ci furono e
l'infamia di aver promulgato le leggi razziali
è incancellabile dalla storia come altre
responsabilità legate alle vendette che
seguirono alla caduta della repubblica sociale ed
è fondamentale non dimenticare gli orrori
compiuti, da ogni parte politica
provengano.
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- La deportazione
al lager di Auschwitz avvenne con uno dei famosi
convogli della morte che conteneva
seicen-tocinquanta persone: cinquecentoventi-cinque
furono soppresse immediatamente; ventinove donne
furono internate a Birkenau; novantasei uomini fra
i quali Primo Levi furono inviati al campo di
lavoro di una fabbrica a Monowitz-Auschwitz. Di
costoro, fra uomini e donne, solo in venti sono
ritornati. Egli stesso può dirsi un
sopravvissuto solo grazie ad una serie di
circostanze fortunate: per il fatto di non essersi
mai ammalato se non alla fine ed è stata una
fortuna perché ha evitato di essere
rideportato verso Buchenwald e Mauthausen e costoro
sono morti tutti, per l'aiuto ricevuto da un
muratore italiano, per aver potuto lavorare per
qualche mese come chimico in un laboratorio della
fabbrica e perché conosceva un po' di
tedesco che in un ambiente come quello del lager
poteva salvare la vita.
- Provate a
immaginare di trovarvi su uno di quei treni della
morte, con i vagoni piombati e chiusi dall'esterno,
dentro uomini donne bambini, compressi senza
pietà come la peggiore merce, le urla dei
militari tedeschi, la fame, la sete, il freddo, la
fatica, la disperazione, l'orrore e il terrore
stampato sui volti dopo dieci giorni di viaggio in
un vagone merci con tutte quelle persone
accatastate una sull'altra senza neanche lo spazio
per muoversi, la promiscuità immaginabile,
le notti un incubo senza fine, l'inizio della
brutalizzazione, il primo gradino verso quel lento
processo che sarà una spietata e feroce
disumanizzazione, la riduzione ad una condizione di
totale abiezione e schiavitù.
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- ***
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- Con la fulminea
occupazione della Polonia il Terzo Reich viene a
trovarsi tra le mani, secondo l'espressione di
Eichmann "le sorgenti biologiche del giudaismo". Le
cose peggiorano ancora di più.
- L'odio nei
confronti degli ebrei era assoluto e l'austriaco
Hitler aveva trovato nei tedeschi un popolo di
obbedienti servitori: gli ebrei erano stati isolati
ed espulsi dalla vita effettiva del paese, reclusi
in nuovi ghetti, costretti al lavoro forzato per le
industrie belliche, condotti alla fame e allo
sfruttamento. Hitler era salito al potere nel
gennaio del 1933 e dopo due mesi già
esisteva Dachau, lager primogenito. Nel settembre
del 1935 vennero emanate le "Leggi di Norimberga" e
la "Legge per la difesa del sangue e dell'onore
tedesco". Gli ebrei sono i distruttori dell'ordine,
i "colpevoli di tutte le colpe" e l'odio viscerale
condurrà alla "strage
purificatrice".
- Infatti
già verso il '43 si era iniziato, in tutta
segretezza, a mettere in atto il "programma":
quello che dalle fonti ufficiali veniva
sinistramente denominato "trattamento appropriato"
o "soluzione finale del problema ebraico". In che
cosa consisteva il trattamento appropriato? Tutti
gli ebrei dovevano essere eliminati. Senza
distinzione od eccezione: vecchi, donne, bambini,
neonati, inabili, malati. Gli ebrei catturati in
tutta l'Europa erano ormai milioni e l'operazione
di eliminazione non era facile. A questo punto
intervenne la "capacità organizzativa
tedesca", come scrive lo stesso Levi, con la
costruzione di autentiche "fabbriche della morte"
capaci di sterminare migliaia di esseri umani in
una sola ora con gas tossici e poi incenerirne i
cadaveri.
- Ecco la fedele
deposizione al processo di Norimberga di Rudolf
Hoss, uno dei comandanti del lager di Auschwitz:
«La soluzione finale del problema ebraico
significava il completo sterminio di tutti gli
ebrei d'Europa. Mi fu dato l'ordine nel giugno del
1941 di creare ad Auschwitz, installazioni per lo
sterminio. A quel tempo nel Governatorato della
Polonia esistevano già tre altri campi di
sterminio: Belzec, Treblinka e Wolzek... Feci una
visita a quello di Treblinka per vedere come si
procedeva allo sterminio... Egli usava monossido di
carbonio. Ma io non ritenni che i suoi metodi
fossero molto efficienti, per cui quando ad
Auschwitz organizzai i locali per lo sterminio,
usai il Zyklon B, acido prussico in cristalli che
veniva fatto cadere nella camera della morte da una
piccola apertura. Per uccidere coloro che vi si
trovavano dentro bastavano da tre a quindici
minuti, a seconda delle condizioni atmosferiche...
Rispetto a Treblinka, un altro progresso fu la
costruzione di camere a gas che contenevano duemila
persone alla volta: mentre a Treblinka le camere a
gas del campo potevano contenere solo duecento
persone ognuna».
- E uno dei
più grandi luoghi di morte fu proprio
Auschwitz dove, ogni giorno, arrivavano fino a
dieci treni stipati di prigionieri di ogni parte
d'Europa. Nel breve volgere di poche ore, per la
maggioranza di loro, l'eliminazione era già
avvenuta: sfuggivano alla morte immediata solo gli
uomini e le donne più giovani e più
forti per essere inviati ai campi di lavoro. La
situazione non cambiava di molto ed il più
delle volte era solo un protrarsi di una lenta
agonia: la morte per fame, per il freddo, per la
fatica, per le malattie e poi, nel momento in cui
si veniva giudicati non più abili al lavoro,
la destinazione era il centro di
sterminio.
- Primo Levi fu
deportato proprio ad Auschwitz e inviato al campo
di lavoro di Buna-Monowitz dove i prigionieri
lavoravano nelle fabbrica di prodotti chimici IG
Farbenindustrie. Ecco cosa scriverà nella
relazione presentata ad un convegno sulla
letteratura ebraica nel novembre del 1982:
«Già durante la prigionia, a dispetto
della fame, del freddo, delle percosse, della
fatica, della morte progressiva dei miei compagni,
della promiscuità in tutte le ore, avevo
provato un bisogno intenso di raccontare quanto
stavo vivendo. Sapevo che le mie speranze di
salvezza erano minime, ma sapevo anche che, se
fossi sopravvissuto, avrei dovuto raccontare, non
ne avrei potuto fare a meno; non solo, ma che il
raccontare, il portare testimonianza, era uno scopo
per cui meritava di conservarsi. Non vivere e
raccontare, ma vivere per raccontare. Già ad
Auschwitz ero consapevole di stare vivendo
l'esperienza fondamentale della mia
vita».
- Ad Auschwitz
furono immatricolati circa quattrocentomila
prigionieri e solo poche migliaia sopravvissero.
Quattro milioni, leggasi quattro milioni di esseri
umani inermi ed innocenti, furono eliminati dagli
impianti di sterminio dei nazisti a Birkenau, a
soli due chilometri da Auschwitz. Uomini e donne
prelevati con l'ordine di portarsi dietro "tutto
quanto occorre per un lungo viaggio": nove su dieci
venivano immediatamente soppressi con gas tossico,
i corpi cremati in grandi impianti costruiti dalla
"onesta Ditta Topf e Figli di Erfurt", capace di
costruire forni in grado di incenerire fino a
ventiquattromila cadaveri al giorno. All'atto della
liberazione si trovarono ad Auschwitz "sette
tonnellate di capelli", magazzini stracolmi di sole
scarpe, di soli occhiali, di soli
vestiti.
- Il lager era
concepito, studiato e strutturato apposta per
violentare la persona, per umiliarla, per
distruggerla, per renderla una bestia immonda. La
volontà di sopprimere ed eliminare un essere
umano era congiunta con una forte volontà di
fargli patire le più atroci sofferenze
immaginabili, trattarlo come un animale, come un
oggetto inanimato.
- Il lager era
pensato perché non si potesse sopravvivere.
Come sia stato possibile arrivare al punto di
stabilire di dover far espiare a una razza, nella
sua totalità, la colpa di esistere, rimane
un interrogativo al quale neanche Levi riesce a
rispondere compiutamente. Ma a cosa serviva il
lager? Quali erano gli scopi del lager? «Erano
tre: terrore, sterminio, manodopera».
- Monowitz Buna
era nato nel 1933 con Oranienburg e Dachau, il
primo dei lager nazisti. Erano una sorta di
"modelli sperimentali" dove potevano essere
rinchiuse dalle cinquemila alle diecimila persone e
il loro scopo era principalmente quello di
eliminare ogni forma di resistenza politica
soprattutto quella comunista. L'ironia macabra dei
tedeschi li aveva denominati Knochenmuhlen "mulini
da ossa" e servivano per distruggere, macerare e
macinare gli esponenti politici dai più
pericolosi come quelli comunisti, a seguire quelli
socialdemocratici, poi i cattolici, i protestanti e
qualche ebreo: insomma quelle che erano le spine
nella carne nazista.
- Nel 1936-37 si
ha la proliferazione e nascono Buchenwald,
Ravensbruck, Mauthausen e tanti altri. Nel 1939
all'inizio della guerra i lager sono circa un
centinaio ma con la fulminea occupazione della
Polonia nasce un'altra tipologia di lager non
più destinata a reprimere o "macinare" gli
avversari politici ma a sterminare gli ebrei.
Questi lager funzionarono senza sosta a partire dal
'41 fino alla fine del '43: Majdanek, Treblinka,
Chelmno e poi Auschwitz furono i lager del massacro
puro ed integrale, non usciva nessuno e non
è un caso che erano situati al di fuori dei
confini tedeschi per mantenere una sorta di
segretezza sullo sterminio degli ebrei. Ogni giorno
entravano treni gremiti di esseri umani ed uscivano
soltanto le ceneri dei loro corpi. Ma in Germania
tutti sapevano che esistevano i lager perché
dai lager politici come Mauthausen e Buchenwald
alcuni uscivano e potevano raccontare. Anche la
soppressione dei malati mentali tedeschi (poi
interrotta) che si svolgeva necessariamente in
Germania era a conoscenza di alcuni settori della
società civile e della Chiesa. Una sorta di
"volontà di non sapere" si impossessò
di un popolo (Freud li definiva "battezzati male"),
il problema del consenso di massa seppur in un
paese poliziesco modello, una sorta di viltà
che fece voltare gli occhi dall'altra parte e
certamente il terrorismo di stato del regime
hitleriano non dava molte possibilità di
organizzare una autentica resistenza che comunque
non vi fu mai neanche a nazismo galoppante. Poi
alla fine del '43, la guerra falcidiava uomini su
tutti i fronti, e la carenza di manodopera in
Germania rendeva necessario utilizzare anche gli
ebrei ed è in questi anni che si costruisce
Auschwitz, "impero ibrido di lager" come lo
chiamerà Levi: sterminio attraverso lo
sfruttamento. Si arriva ad un compromesso: "I
più validi di ogni convoglio, uomini e
donne, lavoreranno fino alla morte, gli altri
andranno subito per il camino".
- Questo è
il terzo scopo per il quale i lager sono serviti:
manodopera di schiavi sostituibile in ogni momento.
- Non c'era un
campo di Auschwitz, ce n'erano trentanove. C'era
Auschwitz città e dentro c'era un lager con
quindicimila prigionieri, la capitale del sistema.
A due km c'era Birkenau con ottantamila
prigionieri, (Auschwitz secondo) un enorme lager,
il campo di sterminio, con la camera a gas, diviso
in quattro-sei lager confinanti. Più in alto
c'era la fabbrica con Monowitz (Auschwitz terzo)
con diecimila prigionieri dove era Primo Levi e
tutt'intorno altri trenta piccoli lager di
punizione con più di ventimila prigionieri
che lavoravano tra la fame e il freddo in miniere,
fabbriche di armi, aziende agricole.
- Il sistema di
Auschwitz era in definitiva "il frutto
dell'esperienza di tutti gli altri lager sia di
sterminio che di lavoro forzato".
- Tutto era stato
perfettamente calcolato dai tedeschi: un serbatoio
di manodopera a prezzo nullo e si prevedeva una
sopravvivenza di circa tre mesi. Di giorno in
fabbrica sotto il potere dell'industria tedesca e
di notte in lager sotto il dominio delle SS e in
alcuni casi si creavano dei conflitti tra
l'autorità politica delle SS e i tecnici
dell'industria «se uno era infortunato sul
lavoro, sottostava alle norme sugli infortuni
(perché la fabbrica aveva le sue regole):
non faceva differenza se poi, una volta ritornato
nel lager, veniva mandato nella camera a gas.
L'industria tedesca non voleva che la gente morisse
in fabbrica, gratis». E quando occorreva
costruire una baracca nuova in mattoni veniva
impartito l'ordine da parte delle SS di tornare in
lager con quattro mattoni a testa: diecimila
prigionieri, quarantamila mattoni rubati
all'industria tedesca. Ma nessuno si lamentava
perché le SS erano temute.
- Eppure dalla
fabbrica di Buna non uscì mai un chilo di
gomma perché il giorno prima dell'inizio
della produzione un bombardamento colpiva la
centrale elettrica e paralizzava la
fabbrica.
-
- Nel 1959 su La
Stampa Primo Levi scriverà: "La strage
nazista porta il segno della follia ma anche un
altro segno. È il segno del disumano, della
solidarietà umana negata, vietata, rotta;
dello sfruttamento schiavistico; della spudorata
instaurazione del diritto del più forte,
contrabbandato sotto l'insegna dell'ordine.
È il segno della sopraffazione, il segno del
fascismo. È la realizzazione di un sogno
demenziale, in cui uno comanda, nessuno più
pensa, tutti camminano sempre in fila, tutti
obbediscono fino alla morte, tutti dicono sempre di
sì". Auschwitz è un ammonimento
all'umanità, una testimonianza, un monito:
che l'uomo è, deve essere, sacro all'uomo,
dovunque e sempre.
- Al suo ritorno
in Italia nell'ottobre del 1945 inizia a scrivere,
senza darsi preoccupazioni di stile, cercando di
fissare fedelmente gli episodi che aveva più
freschi nella memoria, gli avvenimenti più
importanti o carichi di valori simbolici. «Non
mi rendevo conto, né avevo intenzione, di
scrivere un libro: mi sembrava di adempiere ad un
debito verso i compagni morti, e ad un tempo di
soddisfare un mio bisogno».
- L'esperienza di
quel mondo pieno d'orrore e disumanità di
Auschwitz sembrava premere nella testa e voler
uscire il più presto possibile: le parole, i
gesti quotidiani, i volti dei compagni morti o
sopravvissuti, l'insperata salvazione, la
libertà ritrovata, il rimpatrio lunghissimo,
imprevedibile, assurdo, straordinario. Raccontare
era una necessità, un impulso
insopprimibile, quelle vite e quelle morti non
potevano rimanere sedimentate e arenate nel cuore e
nella carne di un uomo, dolente e ferito; non
potevano rimanere sconosciute al mondo. Se questo
è un uomo racconta l'anno di prigionia nel
lager di Auschwitz ed è stato scritto con la
volontà di non dimenticare, di non perdere
il ricordo anche del minimo gesto quotidiano o del
volto più insignificante perché in
verità questo è un libro che si
è scritto da sé: «avevo
l'impressione che quelle cose "si scrivessero da
sole" e trovassero in qualche modo una via diretta
dalla mia memoria alla carta». Il Lager non
era un luogo dove si poteva analizzare la propria
esperienza o scrivere per fissare fatti e misfatti,
emozioni e dolori, anche perché era proibita
qualunque forma di possesso personale eppure la
"speranza di sopravvivere era legata alla speranza
di vivere per raccontare". Un desiderio profondo
alimentava ogni reduce ed era che quella esperienza
diventasse storia: le atrocità viste
dovevano essere raccontate, la vita del lager non
doveva essere dimenticata, l'uomo non più
uomo ma ridotto a cosa doveva essere raccontato a
tutti per far capire cosa significava tale
condizione: e in pochi poterono scrivere tutto
ciò, quelli a cui «la fortuna concesse
di sopravvivere». Ecco allora che una volta
tornato a casa c'era quella voglia di raccontare da
"narratore infaticabile", di ripetere le storie
innumerevoli volte quasi a cercare di far ritornare
alla mente qualche gesto o accadimento dimenticato
e alla fine la vicenda umana si materializzava in
breve tempo: «scrivevo di notte, in treno,
alla mensa della fabbrica, in mezzo al frastuono
dei motori. Scrivevo con fretta, senza esitazioni e
senz'ordine; non avevo coscienza di scrivere un
libro».
- In pochi mesi
scrisse i diciassette capitoli del libro partendo
dall'ultimo, il ricordo più fresco, per
arrivare al primo, quello più lontano nel
tempo. Poi aggiunse ad epigrafe una poesia che
già aveva in testa ad Auschwitz ma aveva
scritto pochi giorni dopo il ritorno a casa.
- «Voi
che vivete sicuri
- Nelle
vostre tiepide case,
- Voi che
trovate tornando a sera
- Il cibo
caldo e visi amici:
- Considerate
se questo è un uomo
- Che
lavora nel fango
- Che non
conosce pace
- Che
lotta per mezzo pane
- Che
muore per un sì o per un
no.
- Considerate
se questa è una donna,
- Senza
capelli e senza nome
- Senza
più forza di ricordare
- Vuoti
gli occhi e freddo il grembo
- Come
una rana d'inverno.
- Meditate
che questo è stato:
- Vi
comando queste parole.
- Scolpitele
nel vostro cuore
- Stando
in casa andando per via,
- Coricandovi,
alzandovi;
- Ripetetele
ai vostri figli.
- O vi si
sfaccia la casa,
- La
malattia vi impedisca,
- I
vostri nati torcano il viso da
voi».
- Alcuni amici nel
leggere quelle pagine consigliarono di riunirle,
ordinarle e completarle: è così che
nasce Se questo è un uomo pubblicato nel
1947 da un piccolo editore: De Silva di Torino. Se
questo è un uomo è oggi un classico
tradotto in varie lingue, adattato per versioni
radiofoniche e teatrali, inserito in numerose
antologie e continuamente ristampato ma il
manoscritto fu inviato a due editori che lo
rifiutarono: "commercialmente i tempi non erano
ancora maturi per capire il Lager" e dulcis in
fundo fu rifiutato per anni anche da una
personalità ebrea della letteratura
italiana: un lettore disattento.
- Un libro che
è sì di testimonianza ma anche di
domande su come era potuto avvenire un tale orrore,
su come si era potuto vivere senza speranze
all'ombra dei camini dei crematori, una spiegazione
al perché di questa tragedia, "l'intuizione
del destino deciso al di sopra dell'uomo da un Dio
incomprensibile".
- Dopo aver
scritto e pubblicato Se questo è un uomo
Primo Levi si era "sentito in pace con se stesso
come chi ha compiuto il proprio dovere". La sua
testimonianza, la sua parola, la sua memoria erano
lì e chi lo desiderava poteva leggerla per
cercare di capire cosa era successo.
- A dire la
verità il libro era stato accettato solo da
un piccolo editore e stampato in 2500 copie. Le
recensioni erano state positive ma di certo non si
parlava di ristampe né di traduzioni e dopo
solo due anni si può dire che era già
un libro entrato nel dimenticatoio.
- E poi Primo Levi
si era dedicato intensamente alla sua professione
di chimico e si era sposato, quasi accontentandosi
di essere autore di un solo libro, un "piccolo
libretto solitario" al quale non pensare più
come lo stesso autore scriverà.
- Dieci anni
più tardi, in occasione di una mostra della
deportazione tenuta a Torino, alla quale era stato
chiamato per dare un suo contributo, Primo Levi fu
favorevolmente stupito per l'interesse e la voglia
di conoscere e sapere "come era potuto accadere"
soprattutto da parte di molti giovani presenti nel
pubblico e fu così che propose il libro
all'editore Einaudi che lo ripubblicò nel
1958 e da quell'anno non ha mai cessato di essere
ristampato ed è entrato nella storia della
letteratura italiana.
-
- ***
-
- «Si
immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone
amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini,
i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto
quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto
a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità
e discernimento, poiché accade facilmente, a
chi ha perso tutto, di perdere se stesso... si
potrà a cuor leggero decidere della sua vita
o morte al di fuori di ogni affinità
umana... si comprenderà allora il duplice
significato del termine "campo di annientamento" e
sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere
con questa frase: giacere sul
fondo».
- Se questo
è un uomo è un libro che si
può definire pedagogico perché Primo
Levi non fa altro che condurre il lettore per mano
all'interno di un campo di sterminio, come a fargli
sentire sul volto il vento gelido del mattino, il
rancido della zuppa nella gamella, il freddo
assassino sempre in agguato, l'orrore per l'odore
di morte che c'è nell'aria, la putredine
della carne, i cumuli di cadaveri, la negazione
dell'uomo. E lui è lì a sopravvivere
solo per raccontare e far conoscere.
- Eppure Levi non
emette nessuna condanna e non esprime alcun
giudizio quasi se chiedesse allo stesso lettore di
cercare di capire, di comprendere e agire di
conseguenza in futuro: questa sua esigenza di
neutralità, questa sorta di sospensione del
giudizio, questo suo porsi piuttosto come
accusatore che giudice spietato, induce il lettore
ad avere una reazione, a pronunciare egli stesso
una condanna.
-
- E quell'anno ad
Auschwitz fu tremendo perché Primo Levi
trovò nel lager la "schiuma della terra",
degli infelici che avevano alle spalle cinque anni
di persecuzioni, persone scappate dalla Germania
nazista in Polonia dove erano state raggiunte, poi
scappate a Parigi e raggiunte anche lì per
finire infine ad Auschwitz oppure poveri uomini
della Bielorussia o dell'Ucraina assai lontani
dalla civiltà occidentale e gettati in una
condizione che non potevano capire. I compagni di
viaggio di Levi, nel tragitto dall'Italia in
Germania, speravano di trovare dei compagni ma
trovarono dei "nemici". E il trauma iniziale fu la
mancanza di solidarietà, il trovarsi a
scontare come ebrei la colpa di essere nati, la
percezione di avere a che fare con la follia, e la
mancanza di comunicazione e l'isolamento
linguistico in quel luogo erano quasi sempre
mortali «sono morti quasi tutti gli italiani
per questo»: perché non capivano gli
ordini e non potevano dirlo, sentivano le urla,
perché i militari tedeschi urlano sempre
«per dar vento a una rabbia vecchia di
secoli», e loro non capivano. Quel non
riconoscersi come compagni fu la fine per
molti.
- «Non
martiri» scrive Primo Levi ma la sua vicenda
umana induce a riflessioni che si bagnano nel
sangue di tanti esseri umani testimoni di quella
inevitabile negazione dell'uomo, di quella
persecuzione, di quello smaltimento di ossa. Eppure
non è insignificante che la parola
"martirio" ricalchi la parola greca
"martùrion" che significa
"testimonianza".
- Dopo una simile
tragica esperienza il bisogno primario era quello
di scrivere a scopo di liberazione interiore
«Io non ero convinto che Se questo è un
uomo sarebbe stato pubblicato. Volevo farne quattro
o cinque copie per fidanzata ed amici. Il mio
scrivere era dunque un modo di raccontare a
loro». Scrivere per ritornare a vivere in modo
sereno e dissolvere i gemiti dei "fantasmi dolenti"
durante i sogni.
- La sua parola
è stata quindi una "necessità vitale"
di far riemergere una libertà interiore e
spirituale dopo la disumana privazione: «Il
bisogno di raccontare agli "altri", di fare gli
"altri" partecipi... un impulso immediato e
violento, tanto da rivaleggiare con gli altri
bisogni elementari... il libro (Se questo è
un uomo) è stato scritto per soddisfare
questo bisogno; in primo luogo quindi a scopo di
liberazione interiore».
- Non vi troveremo
"nuovi capi d'accusa" ma documenti di un periodo
della storia, uno strumento per cercare di capire
determinati aspetti dell'animo umano. Ma una accusa
universale c'è. L'accusa viene rivolta a
tutti quegli uomini che ritengono "ogni straniero
un nemico", "convinzione che giace in fondo agli
animi come una infezione latente" e quando si
propaga, al vertice della piramide sta il Lager:
«La storia dei campi di distruzione dovrebbe
venire intesa da tutti come un sinistro segnale di
pericolo» e la minaccia di questa concezione
del mondo può essere allontanata solo con le
parole che uomini come Primo Levi hanno lasciato
come testimonianza, a quasi sessanta anni da quel
'44, anno in cui fu deportato ad
Auschwitz.
- Per ricordare
gli ultimi dieci giorni nel lager ecco cosa scrive
di quel 26 gennaio del 1945: «Noi giacevamo in
un mondo di morti e di larve. L'ultima traccia di
civiltà era sparita intorno a noi e dentro
di noi. L'opera di bestializzazione, intrapresa dai
tedeschi trionfanti, era stata portata a compimento
dai tedeschi disfatti. È uomo chi uccide,
è uomo chi fa o subisce ingiustizia; non
è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il
letto con un cadavere. Chi ha atteso che il suo
vicino finisse di morire per togliergli un quarto
di pane, è, pur senza sua colpa, più
lontano dal modello dell'uomo pensante, che il
più rozzo pigmeo e il sadico più
atroce. Parte del nostro esistere ha sede nelle
anime di chi ci accosta: ecco perché
è non-umana l'esperienza di chi ha vissuto
giorni in cui l'uomo è stato una cosa agli
occhi dell'uomo».
- «Oh poter
piangere! Oh poter affrontare il vento come un
tempo facevamo, da pari a pari, e non come vermi
vuoti di anima!»: ecco il pensiero pieno di
speranza che assediava la mente nei rari momenti di
riposo, accovacciati nelle baracche. Ma la
realtà era la polvere della morte nella
gola, le schiere di schiavi capaci di qualunque
cosa per un pezzo di pane, i ritmi brutali che
scandivano i passi stanchi ogni mattina e ogni
sera, le miserande spoglie di cadaveri a pezzi
trasportate nei forni crematori. «L'umano come
valore può andare perduto, si salva solo se
viene coraggiosamente e tenacemente difeso contro
le forze che minacciano di opprimerlo e
distruggerlo».
- Possiamo
chiamare disumano ogni tentativo di adoperare
l'uomo come una cosa, rendendolo servo di una
situazione che egli non può controllare e
modificare attraverso la propria libertà:
l'unica speranza è che il ventre che
partorì la cosa immonda non sia più
fecondo smentendo inesorabilmente
Brecht.
-
- ***
-
- Quando Primo
Levi ritornò finalmente a Torino il 19
ottobre del 1945, dopo un lunghissimo e
terrificante viaggio attraverso mezza Europa: la
casa era in piedi, tutti i familiari vivi, nessuno
mi aspettava. Gonfio, barbuto e lacero da essere
quasi irriconoscibile e poi gli amici, il calore
della casa, un letto comodo, pulito e morbido, la
gioia liberatrice del raccontare. «Ma solo
dopo molti mesi svanì in me l'abitudine di
camminare con lo sguardo fisso al suolo, come per
cercarvi qualcosa da mangiare o da intascare presto
e vendere per pane; e non ha cessato di visitarmi,
ad intervalli ora fitti, ora radi, un sogno pieno
di spavento... Sono a tavola con la famiglia o con
gli amici in un ambiente placido e disteso...eppure
provo un'angoscia sottile e profonda... sono solo
al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io
SO che cosa questo significa, ed anche so di averlo
sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era
vero all'infuori del Lager».
- Aveva urgenza di
raccontare e poi ancora raccontare senza mai
saziarsi e Levi era un meraviglioso conversatore,
preciso e scrupoloso, sempre attento alle parole
giuste e calibrate per esprimere quel tormento che
lentamente, troppo lentamente andava scomparendo,
capace di numerose associazioni di memoria e di
ricordi dettagliati e precisi di quell'atroce
esperienza che lo aveva segnato nell'anima (Levi
scriverà in diverse occasioni "rotto": e
tale parola rende meglio di qualunque altra il suo
stato d'animo). Primo Levi aveva un grande rispetto
dell'uomo: era gentile, mite e di una dolcezza
estrema. La sua sofferenza e la sua testimonianza
sono diventate patrimonio comune, e la sua parola,
sempre sobria e di un'efficacia spoglia, è
ancora fondamentale antidoto contro l'odio e il
sopruso dell'uomo sull'uomo.
- Parlava sempre a
voce bassa. Senza rancore.
- «Levi non
gridava, non insultava, non accusava, perché
non voleva gridare, voleva molto di più: far
gridare» così scriverà
Ferdinando Camon.
- E, alla fine di
una serie di memorabili interviste sempre con
Camon, ecco cosa Primo Levi aggiunse a matita sul
foglio: «C'è Auschwitz, quindi non
può esserci Dio. (Non trovo una soluzione al
dilemma. La cerco, ma non la
trovo)».
-
Massimo
Barile
-
Per
leggere alcuni testi di
PrimoLevi
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