- Octavio
Paz
«La sfida poetica al
tempo»
- Quando
inizio a leggere una buona parte di opere dello
scrittore o del poeta prescelto per l'articolo
della rivista, mi prefiggo di seguire una linea
di condotta, un personale canovaccio, cerco di
fissare nella mia mente alcune direttive. Poi,
immancabilmente, mi rendo conto che è
fondamentale "entrare" nelle parole e, ancor
più, nelle intenzioni che hanno scaturito
la nascita di quelle parole, fino a scoperchiare
ciò che non è esplicito, estrarre
dalla polvere che ha ricoperto le pagine anche
solo un bagliore che riconduca alla sostanza
autentica di ciò che lo scrittore voleva
conservare nel tempo. Ecco allora che sembra di
vivere la stessa emozione d'un archeologo che
scava nella terra, nel passato,
nell'oscurità del tempo, per riportare
alla luce ciò che era sepolto,
sedimentato, dimenticato, celato sotto un
sottile velo o qualche metro di terra. Capita
sovente di far rivivere alcune parole che hanno
effetti assai diversi, a seconda della
personalità del lettore, miscelando
visioni positive ed evidenze
negative.
- Non vi
sono codici d'avvicinamento, traiettorie sicure,
considerazioni valide per tutte le stagioni:
questa è la magia d'ogni nuova lettura,
dell'ultimo saggio scritto in un momento di
creatività. Questo è il sussulto
inebriante che offre la nuova
impresa.
- Tutto
si consuma, nell'eterna lotta contro la morte, e
anche Octavio Paz scrive che i linguaggi
«nascono e muoiono, tutti i significati un
giorno cessano di avere significato»: non
rimane che arrendersi all'evidenza, alla
cessazione del significato. Le sue parole non si
fermano e arrivano alla constatazione che il
testo poetico è «come quei nudi
femminili della pittura tedesca che simbolizzano
la vittoria della morte: monumenti vivi della
corruzione della carne».
- La
visione si spinge oltre, fino a definire la
figura stessa del poeta: «Non è
poeta chi non abbia sentito la tentazione di
distruggere il linguaggio o di crearne un altro,
chi non abbia provato il fascino della
non-significazione e quello, non meno
terrificante, della significazione
indicibile».
- Octavio
Paz è il poeta che scrive queste
sconvolgenti parole: «L'opera non è
fine a se stessa né possiede esistenza
propria: l'opera è una parte, una
mediazione. La critica del soggetto comporta la
distruzione, non del poeta o dell'artista, ma
della nozione stessa d'autore. Per i Romantici,
la voce del poeta era quella di "tutti"; per noi
è rigorosamente quella di nessuno. Ad
uguale distanza dall'autore e dal suo Io,
nessuno e tutti si equivalgono. Il poeta non
è un piccolo dio...».
- Ecco
allora che si abbandonano le seduzioni e
«il poeta scompare dietro la propria voce,
una voce sua perché voce del linguaggio,
di tutti e di nessuno. Qualsivoglia nome diamo a
quella voce - ispirazione, inconscio, azzardo,
accidente, rivelazione - essa rimane sempre voce
di ciò che è
"altro"».
- Nella
poesia di Octavio Paz tutto può essere
una "porta" che si apre, basta una lieve
pressione e qualcosa può accadere: la
città si può aprire "come un
cuore", la notte può aprirsi in una
"costellazione di segni", l'autunno vacillare
oltre "il muro verdigno", il desiderio di
incarnarsi in un nuovo corpo.
- Tutto
diventa un "ponte" che congiunge, che permette
di oltrepassare un luogo, che unisce e tiene
distante nello stesso tempo: si può
guardare lo scorrere del fiume della vita, una
ragazza col cappotto color fragola, osservare
lucertole sui muri di mattoni, il mormorio
d'incerti fogliami, le vie deserte, la luce di
una lampada, le torri di sabbia che si
sgretolano e la luce che s'inabissa come una
stella caduta nei cerchi del
basalto.
- Il nome
antico del fuoco, l'antidoto che apre un nuovo
spazio nello spazio, altro tempo nel tempo, il
corpo immerso in una luce crudele, sostanza del
tempo e invenzioni in un giardino che non
è più un "luogo" ma fluisce nella
notte: in questa sfida poetica al tempo, il
poeta si posiziona «prima della storia, ma
non all'infuori della stessa. Prima in quanto
realtà archetipa che è impossibile
datare, inizio assoluto, tempo totale e
autosufficiente. Dentro nella storia - meglio,
storia anch'egli - perché vive soltanto
incarnato, ri-generandosi, ripetendosi
nell'attimo della comunione poetica. «Senza
la storia - senza gli uomini che sono origine,
sostanza e fine della storia - il poema non
potrebbe nascere né incarnarsi; e senza
il poema non ci sarebbe nemmeno storia,
perché non ci sarebbero né origine
né inizio» così scrive
Octavio Paz in L'arco e la lira nel lontano
1972.
- Nella
sfida poetica al tempo c'è il silenzio
della scrittura che "canta", ci sono le parole
udite da qualcuno, le parole dette da qualcuno,
la verità del desiderio, echi in
labirinti e i tentativi di conservare le parole
come "tesoro ardente" plasmato nella roccia,
grani di energia sotterrati, spiragli
all'interno d'un granito dormiente.
- «La
vita non comincia senza il sangue/ senza la
brace del sacrificio» e il sangue stilla
come gocce di rubino e pare incandescente: poi
si assiste all'addensamento, alla sublimazione,
all'evaporazione del sangue stesso. Così
l'attività poetica «nasce dalla
disperazione di fronte all'impotenza delle
parole e termina nel riconoscimento
dell'onnipotenza del silenzio». E ci si
trova davanti ad un mondo sulfureo, a volte,
quasi pietrificato, eppure vibrante, in una
dilatazione dello spazio, sospeso in una
riconciliazione possibile proprio come la
salamandra che diventa un "ponte sospeso tra le
ere", un ponte di sangue freddo, una "fiamma
nera".
- E
proprio quel nero, colore dell'infinito, ritorna
come parola chiave, come visione cosmica: ecco
allora che il "nero persistente" diventa
simbolico come il "sole nero", gli "alberi
neri", il "panno nero di lacrime", la "piccola
lingua nera", "l'altare nero", la stella nera,
la pietra nera, la montagna nera, il "pensiero
nero", reiterati ossessivamente come terra nera
che si sgretola mentre i "lamenti svaniscono"
nel deserto immenso, alla ricerca d'una fonte
segreta. «Scorpione che si conficca nel mio
petto/ sigillo di sangue sui miei anni
d'uomo»: la parola diventa la sola
rivelazione, il simbolo umano del continuo
errare in terre sconosciute per cercare,
nell'ultimo disperato tentativo, di accedere al
regno perduto. Octavio Paz sente nel profondo
tale tensione e la vive completamente: non a
caso può essere definito poeta, saggista,
favolista, monaco, esploratore e ricercatore
della parola. Senza limitazioni, oltre la forma,
come ad inglobare la realtà della parola
con l'immersione nell'immaginario, nella visione
atemporale.
- Proprio
nel momento in cui si porta la negazione al suo
limite, ecco la contemplazione, la
disincarnazione del linguaggio, la trasparenza
in un mondo che è invenzione dello
spirito. E Octavio Paz riporta questa negazione
con parole che non lasciano spazio a
fraintendimenti: «Alla fine ci attende il
gioco: festa, consumazione dell'opera,
incarnazione momentanea e dispersione». Su
questo fragile ponte di parole, il poeta rende
partecipi della sua visione «L'ora
m'innalza/fame d'incarnazione patisce il
tempo/Oltre me stesso/in qualche luogo attendo
il mio arrivo» come si legge nella chiusa
della lirica Il balcone. In una lenta
costruzione d'una architettura del silenzio,
nelle ondulazioni continue, nelle vibrazioni
dello spazio, v'è il costante zampillo di
segni, una incessante marea di "imminenti
apparizioni" fino alla presa d'atto finale
«Il quadro è volge su se stesso e si
sotterra / nel giorno di pietra / Acqua non
c'è ma gli occhi
brillano».
- Tutto
«frana in silenzio sulla pagina», come
a vedere tutto e vedere nulla, essere padroni
della notte e, allo stesso tempo, preda delle
tenebre: in fondo esiste solo l'unico grande
film che è la vita.
- E la
parola è in primo piano, sugli occhi del
poeta, un piano sequenza unico che dura
all'infinito: per reinventare tutto. Nei
frammenti dello spazio, nel superamento dell'Io,
fissare la visione poetica spirituale, luce
nella notte in una continua esegesi cosmica.
Ecco le evidenze dei periodi trascorsi in
Oriente negli anni Cinquanta e Sessanta e
l'attrazione del pensiero orientale.
- Le
figurazioni e i "resti delle scintille",
così come i luoghi e le sospensioni, le
combinazioni e gli occhi riflessi, non sono
altro che le modulazioni d'un occhio unico,
nascosto dietro il suo manto di trasparenze,
messe di meraviglie: dal colore alla forma,
dalla forma all'incendio.
- La voce
umana è una "scia dell'anima che si
disincarna" e l'estensione poetica si tramuta in
una trasparenza che "regge le cose".
- Non
è possibile limitare la capacità
di espansione letteraria e culturale di Octavio
Paz con una semplice definizione di poeta ma
piuttosto viene spontaneo constatare la
formidabile energia che sprigiona la sua Parola,
il suono poetico che si riesce a catturare, la
volontà di superare il confine reale e
terreno. «Capire una poesia vuol dire, in
primo luogo, udirne il suono» questo
è ciò che afferma il poeta proprio
perché «le parole entrano
dall'orecchio, appaiono davanti agli occhi,
spariscono nella contemplazione».
L'attenzione si sposta sul suono delle parole,
sulle immagini che si creano e ricreano davanti
ai nostri occhi: in fin dei conti, possiamo
immaginare, fantasticare e illuderci mentre
ascoltiamo una poesia. «Leggere una poesia
è udirla con gli occhi, udirla è
un corpo/avvolto solo nel suo enigma
nudo».
- Octavio
Paz pare avere come intenzione quella di
provocare il lettore: costringerlo a udire, a
"udirsi".
- In
Versante est il poeta scrive «ignorando
l'esito di ciò che scrive», come ad
avventurarsi tra le righe, la sua immagine
è «la lampada accesa nel pieno della
notte»: un saltimbanco tra i suoi "pensieri
in fuga", nel flusso della marea della memoria,
nella lacerazione e nel vortice, tra l'assoluto
e il confine terreno, fino all'ultimo pensiero
«ho fame di vita e anche di morte / Conosco
ciò in cui credo e lo scrivo», per
giungere all'ultimo atto «movimento in cui
si conforma / e si sfalda l'essere intero / Mani
e coscienza per cogliere il tempo / sono una
storia / una memoria che s'inventa / Mai sono
solo / parlo sempre con te / parli sempre con me
/ Cammino nel buio e pianto dei
segni».
- Le
evidenze della realtà e la sostanza
stessa del tempo vengono vivisezionate: «Le
pietre sono tempo / Il vento / secoli di vento /
Gli alberi sono tempo / gli uomini sono pietre /
Il vento / si avvederla con gli
orecchi».
- «Leggendo,
ascoltando una poesia, non sentiamo, non
assaporiamo non tocchiamo le parole. Tutte
queste sensazioni sono immagini mentali. Per
sentire un testo poetico occorre capirlo; per
capirlo ascoltarlo, vederlo contemplarlo:
convertirlo in eco ombra nulla. La comprensione
è un esercizio
spirituale».
- La
poesia è la nostra unica istanza contro
il tempo rettilineo, contro il
progresso.
- La
morale dello scrittore non è nei suoi
temi, nelle sue intenzioni, ma nella sua
condotta davanti al linguaggio. Octavio Paz
riporta alla mente dell'essere umano che la
poesia è la «sola rivelazione dello
stato di cose attuale».
- «Attraverso
le parole possiamo accedere al regno perduto e
così recuperare gli antichi poteri. Quei
poteri che non ci appartengono» e poi,
quasi a ricercare una rivelazione, ecco la
constatazione finale che diventa inesorabile
presa d'atto «l'uomo ispirato, colui che
davvero parla, non dice nulla di suo; per la sua
bocca parla il linguaggio».
- Octavio
Paz, fin dall'inizio del suo percorso
letterario, si è impegnato in una
indagine profonda e in una continua penetrazione
per avvicinarsi all'essenza poetica: una sintesi
estrema, quasi una scarnificazione testuale, in
una operazione di riduzione piuttosto che di
incremento poetico. Octavio Paz "sente" nel
profondo il testo fino a viverlo completamente,
fino a raggiungere una simbiosi tra l'efficacia
delle parole e l'immersione
nell'immaginario.
- Un
continuo errare attraverso le immagini, le
creature, gli elementi naturali, le simbologie,
e "l'altra faccia dell'essere", l'altra faccia
del tempo, il rovescio della vita, quando la
bellezza non è più leggibile,
quando la presenza diventa terribile, quando il
visibile diventa invisibile, quando il tempo si
ferma, quando «il luogo solitario è
il punto di convegno».
- Tra
quiete e movimento, tra cicatrici cosparse di
sale e l'uragano che «s'è piantato
in mezzo all'anima». La vita come un lento
avanzare tra precipizi, tra turbine e vuoto, in
lotta con i sogni, ogni volta più in
fondo nel corpo, nel delirio, nella ferita,
«nel mondo che si chiude come un
anello», nell'onda che
rinasce...
- Concepire
lo spirito fuori del dramma della vita eppure
assaporare l'amarezza diabolica che esaurisce il
contenuto, la realtà corporea: incanalare
la sconvolgente passione per dimenticare tutto,
per sfuggire alla coscienza. Nell'istante
dell'ultimo pensiero e dell'ultimo abbandono ci
si ritrova davanti al dilemma: o esplodere in
una deflagrazione definitiva e ammettere il
trionfo del non essere o vivere la rivelazione
del tempo, sentirsi invasi dalla vita e
scaldarsi alla fonte luminosa del proprio
essere. E forse pervenire al valore assoluto del
primigenio suono, della divina voce, della prima
parola.
Massimo
Barile
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