- Boris
Leonidovic Pasternak:
- L'arte
è nell'erba e bisogna avere l'umiltà
di chinarsi a raccoglierla
- Ricordo
ancora, come fosse davanti ai miei occhi, la
vecchia casa colonica, una fattoria d'un paesino
della bergamasca, panni stesi ad asciugare,
animali e profumo di cucina che invadeva il
giardino e mio nonno, seduto sulla sua poltrona
preferita, l'immancabile pipa con quel profumo
dolciastro d'un tabacco che veniva chissà
da dove, il cappello stile Borsalino e la "sua"
giacca di velluto nero. Davanti a noi il camino
acceso, a fianco una vecchia pendola che rompeva
le scatole e frantumava lo scoppiettio armonioso
della legna, e lui, con tono pacato, che mi
raccontava, facendo appello ai ricordi, le
vicissitudini e i drammi nella terra di Russia:
lui, Battista, era uno dei pochi sopravvissuti a
quel suicidio guerresco. Portava sulla pelle e
nelle ossa le ferite e i congelamenti subiti in
quel freddo alieno e, mentre i suoi ricordi
fluivano e diventavano storie inimmaginabili per
me che ero ancora un bambino, ogni tanto, quasi
a cercare di ritornare alla realtà, mi
recitava alcune poesie di Pasternak,
anzi, faceva molto di più, prima me le
cantilenava in lingua russa. Per me erano solo
suoni che diventavano poesia quando le recitava
in italiano. Non ho mai saputo in quale
occasione le abbia fissate indelebilmente nella
sua memoria e, come abbia fatto ad impararle in
russo, per me è sempre stato un
mistero.
- I suoi
amici si interessavano più che altro alle
ultime novità in vendita al vecchio
consorzio agrario, le sementi, le coltivazioni,
qualche malattia del grano, e poi, una buona
parte del tempo lo passavano in compagnia con
grandi bevute al bar e, tutto al più,
leggevano qualche giallo con uno dei tanti
investigatori che risolvevano sempre anche il
delitto più oscuro.
- Lui no,
mio nonno leggeva Pasternak. Non disdegnava le
bevute in compagnia ma... recitava Pasternak. A
memoria.
- Tra una
storia e l'altra, la poesia ridava passione,
entusiasmo, senso della vita, ad un uomo che era
tornato vivo dopo essere stato all'inferno. Una
di quelle volte, rimasi abbagliato dalle sue
parole, estasiato davanti al fuoco di quel
camino antico e pensavo e ripensavo a quello che
stavo ascoltando: «l'arte è
nell'erba e bisogna avere l'umiltà di
chinarsi a raccoglierla» che era l'idea
espressa da Pasternak. E poi a me piacevano le
cravatte di Pasternak. (Qualche anno fa è
stato pubblicato anche un libro che ripercorre
la storia di mio nonno e dei suoi compagni: lui
è uno dei pochissimi ad essere
tornati).
- Da
allora è passato il tempo, veloce e
rapinatore: qualche mese fa ho ritrovato una
delle prime edizioni de Il Dottor Zivago,
prima in italiano nel 1957 e poi in lingua russa
nel 1959, pubblicate da Feltrinelli. Inutile
ricordare che il romanzo, in quell'anno, non era
stato ancora pubblicato nell'URSS, rifiutato
perché giudicato ostile.
- Il
successo del Dottor Zivago, per coloro che hanno
letto veramente ed attentamente Pasternak, non
ha mai messo in secondo piano la sua poesia:
anzi, ha confermato ancor più il valore e
la ricchezza delle raccolte poetiche che
rappresentano il fertile terreno su cui cresce
il romanzo di Jurij
Zivàgo.
- Ecco la
fedele immagine, la figura completa dello
scrittore, la solitudine di Zivago e la
solitudine del poeta Pasternak, lo sguardo al
mondo da un'apertura d'un solaio o dalla
finestra d'una cucina, l'allontanamento dalle
dispute, l'inquietudine d'un poeta che
restò molto distante dalle parole
d'ordine e dalle entusiasmanti esortazioni
rivoluzionarie, con la volontà d'una
fedele conservazione, all'interno del proprio
cosmo lirico, del desiderio del
sogno.
- Nel
1924 Pasternak scrive: «Io non sono nato
per guardare le cose tre volte in maniera
diversa».
- Nella
storia e nell'esperienza di Pasternak, il Dottor
Zivago, in larga parte, rappresenta una sorta di
summa poetica delle precedenti liriche e della
frammentarietà narrativa di alcuni
decenni che vengono assorbiti in un'opera
organica e, come afferma nell'Autobiografia,
pubblicata da Feltrinelli nel 1958, «le
poesie disperse lungo tutti gli anni della mia
vita, sono i gradi preparatori del romanzo»
e poi, quasi ad allontanarsi dalle precedenti
esperienze poetiche, «da poco ho terminato
la mia fatica principale, più importante,
l'unica di cui non mi vergogno, di cui rispondo
senza paura, Il dottor
Zivago».
- Non
v'è dubbio che la frammentarietà
della sua poesia esisteva veramente oltre ad un
legame con le proposte d'avanguardia, ed ora era
in atto la conclusione, un romanzo che miscelava
riflessioni storiche e filosofiche, esigenze
estetiche e riferimenti autobiografici, eppure,
come onda sottoposta al riflusso, il Dottor
Zivago era un romanzo da definirsi legato
alle forme letterarie tradizionali anzi definito
anti rivoluzionario dalla rivista Novyj
mir.
- Pasternak
fu sempre estraneo alle classificazioni ed
etichettature letterarie e, a questo proposito,
basta ricordare ciò che espresse sempre
in Sovremennik, rivista di letteratura,
politica e arte, pubblicata a Pietroburgo dal
1911 al 1915: «Mi sembra che l'estetica
non esista, in punizione del fatto che essa
mente, scusa, incoraggia, accondiscende. Che,
senza saper niente dell'uomo, intreccia Boris
Leonidovic Pasternak, scrittore sovietico e
grande poeta universalmente noto per il suo
romanzo «Il dottor Zivago» (tradotto
in ventinove lingue e venduto in milioni di
copie), nacque a Mosca il 10 febbraio 1890 da
una famiglia di intellettuali di origine ebrea.
i pettegolezzi sulle specializzazioni.
Ritrattista, paesaggista, generista,
naturmortista? Simbolista, futurista, acmeista?
Che gergo micidiale! E' chiaro che si tratta di
una scienza che classifica le sfere aeree
secondo categorie di questo tipo: dove e come vi
si dispongono le falle che impediscono loro di
librarsi in aria. Inseparabili l'una dall'altra,
poesia e prosa sono come due poli. In
virtù di un senso innato dell'udito, la
poesia cerca la melodia della natura tra il
rumore del vocabolario, e tiratala fuori, un po'
come si scelgono i motivi, si abbandona poi a
improvvisare su quel tema. A fiuto, di proprio
impulso, la prosa cerca e trova l'uomo nella
categoria del discorso, e se il presente ne
è privo, allora lo crea con la memoria,
lo mette in piazza e poi per il bene
dell'umanità fa finta di averlo trovato
nell'oggi. Questi due principi non esistono
separatamente». Secondo Pasternak
è fantasticamente "viva" la poesia che si
imbatte nella natura e lo sguardo deve essere
sempre profondo, sempre appassionato nello
stesso modo: il poeta non ne rimarrà
deluso.
- Vivere
senza "guardare" è una "pazzia" e solo i
nostri occhi, colpo dietro colpo,
"sveglieranno" la coscienza fino a
«tendere naturalmente alla
purezza».
- Solo
così si approda alla «pura
essenza della poesia»...
«inquieta come il sinistro roteare di
una decina di mulini sul limitare di un campo
spoglio, in un'annata tetra,
affamata».
- In
verità, Pasternak continuò a
scrivere poesie, anzi, continuò a
lavorarvi fino alla morte. Credo sia sufficiente
per capire chi fu Pasternak.
- Nella
poesia Oltre le barriere si sente la parola:
«Poesia! Spugna greca con ventose / sii
tu e, fra la verzura vischiosa, / io ti metterei
sull'asse bagnata / della verde panchina del
giardino./ Fatti crescere ricche gorgere e
faldiglie, / assorbi le nuvole e i burroni, / e
di notte, poesia, io ti strizzerò / per
il bene dell'avida carta». Poi dirà
«l'arte è una spugna, non una
fonte».
- Le
parole contano: se chi le pronuncia possiede un
valore morale, le parole sono pesanti, sono
taglienti come lame.
- La
forza di quelle parole inciderà segni
indelebili sulla pelle, la sostanza si
insinuerà nella mente, i ricordi si
alimenteranno quando saranno
rilette.
- Coloro
che leggono Pasternak devono avvicinarsi prima
alle sue poesie, entrare in contatto, mettersi
in ascolto della sua voce, avere pazienza,
leggere e rileggere, con cautela ed attenzione,
quasi a giungere ad una fusione
scrittore-lettore.
- Un
viaggio letterario che ha come mèta
l'agganciamento alla sua ispirazione, al momento
della creazione, proprio alla fase in cui le
parole e le idee, si sono impadronite dello
scrittore: poi, sono state fissate per sempre su
fogli sparsi, scritti a mano.
- Pasternak
è poeta che porta con sé la
«calda umanità», la
voce, forte e sicura, della coscienza d'un uomo
che sente sulla propria pelle le suggestioni di
tutti i giorni, di tutto ciò che la vita
può offrire.
- Un
poeta sommesso, una voce solitaria che crea ed
alimenta stupori. Un uomo che con coerenza
persegue la sua visione della vita, senza
distogliersi mai da essa, con orgoglio e
dignità.
- Nella
poesia Essere rinomati non è bello,
Pasternak calca ancora di più la mano,
«non è così che ci si leva in
alto./ Non c'è bisogno di tenere
archivi,/di trepidare per i manoscritti./Scopo
della creazione è il restituirsi,/non il
clamore, non il gran successo./È
vergognoso, non contando nulla,/essere favola in
bocca di tutti./Ma occorre vivere senza
impostura,/viver così da cattivarsi in
fine/l'amore dello spazio, da sentire/il lontano
richiamo del futuro». Quasi a lasciare
le «lacune nel destino»,
annotando i luoghi di tutta una vita; occorre
«tuffarsi nell'ignoto e nascondere in
esso i propri passi». Saranno altri,
che seguendo le tracce, «faranno la tua
strada a palmo a palmo,/ma non sei tu che devi
sceverare/dalla vittoria tutte le
sconfitte». E poi la sublime chiusura:
«E non devi recedere d'un solo/briciolo
dalla tua persona umana,/ma essere vivo,
nient'altro che vivo,/vivo e nient'altro sino
alla fine».
- Ecco
allora che risulta tremendamente evocativo
ciò che ricorda Pasternak nella
Autobiografia: «Sgomento e entusiasmo
erano all'origine delle sensazioni della mia
prima infanzia. Con tinte favolose risalivano a
due immagini centrali, che tutto dominavano e
tutto abbracciavano: l'immagine degli orsi
impagliati nelle rimesse di carrozze del
Karetnyj Rjad e l'immagine di un gigante
bonario, curvo, irsuto, dalla sorda voce di
basso, l'editore Koncalovskij, con la sua
famiglia... Il quartiere era quanto mai
sospetto... continuamente mi trascinavano via
per mano: non dovevo sapere questo, non dovevo
ascoltare quest'altro. Ma le balie e le nutrici
non sopportavano la solitudine, e quindi ci
trovavamo in compagnia di gente di tutti i
colori. A mezzogiorno, poi, c'erano le
esercitazioni dei gendarmi a cavallo sulla
piazza d'armi delle caserme della Znamenskaja.
Questo contatto con i mendicanti e le
pellegrine, questa vicinanza con il mondo dei
reietti, con le loro storie e con le loro
isteriche esibizioni sulle vie lì
attorno, mi fece provare prematuramente, e poi
per tutta la vita, una sgomenta
piètà per le donne, e una
pietà ancor più profonda per i
miei genitori, che sarebbero morti prima di me e
che dovevo salvare dalle pene dell'inferno
compiendo qualcosa di eccezionalmente luminoso,
senza precedenti». Da allora comincia a
svolgersi, senza intervalli e lacune, il
lavorìo della coscienza.
- Il
suono del pianoforte suonato dalla madre, quel
colore nero come i «vestiti da sera
degli uomini», il fumo delle candele,
le campane che suonavano tristi, la mostra degli
ambulanti, la famosa finestra della cucina che
dava direttamente nello studio dello scultore
Pavel Trubeckoj e permetteva di sbirciare il suo
lavoro mentre ritraeva bambini, ballerine e
cosacchi; e poi, le illustrazioni del padre per
Resurrezione (Voskresenij del 1899) di
Lev Nikolaevic Tolstoj, sempre fatte di
fretta e inseguendo i tempi di Tolstoj che
«si teneva a lungo le bozze e le
rimaneggiava completamente»... e
«sul fornello cuoceva la colla da
falegname» per fissare i disegni su
cartone, poi impacchettarli e sigillare i pacchi
con ceralacca e finalmente consegnarli al
capotreno degli espressi della linea
Nikolaevskaja.
- Poi
conoscerà Majakovskij, Brjusov, Belyj,
Baltrusajtis, Blok, Aseev, Esenin e Marina
Ivanovna Cvetaeva.
- È
importante ricordare alcune considerazioni
rilasciate da Pasternak e pubblicate in
Sovremennik nel 1922, nonché
verificare come queste riflessioni sono di
un'attualità sconcertante: «Le
correnti contemporanee hanno immaginato l'arte
come una fontana, mentre essa è una
spugna. Hanno deciso che l'arte deve zampillare,
mentre deve succhiare e lasciarsi impregnare.
Hanno ritenuto che l'arte si può
scomporre in metodi di rappresentazione, mentre
è formata dagli organi di percezione.
Deve sempre essere tra gli spettatori, e
guardare ogni cosa in maniera sempre più
pura, sempre più ricettiva, sempre
più fedele; ma ai giorni nostri l'arte ha
conosciuto la cipria, il camerino, e si esibisce
sul palcoscenico del varietà: come se al
mondo ci fossero due specie di arte, e una di
esse potesse permettersi il lusso - visto che
c'è l'altra di riserva - di
autotravisarsi, che è poi suicidarsi.
Essa si esibisce: invece dovrebbe affondare nel
loggione, nell'anonimità, quasi senza
sapere che si fa comunque riconoscere, e che
anche lasciata in un angolo essa viene
incendiata dalle trasparenze luminose e dalla
fosforescenza, come una
malattia».
- E noi
non possiamo fare altro che leggere la poesia In
ogni cosa ho voglia di arrivare dalla raccolta
Quando il tempo si rasserena: «In ogni
cosa ho voglia di arrivare/sino alla
sostanza./Nel lavoro, cercando la mia
strada,/nel tumulto del cuore./Sino all'essenza
dei giorni passati,/sino alla loro ragione,/
sino ai motivi, sino alle radici,/sino al
midollo./Eternamente aggrappandomi al filo/dei
destini, degli avvenimenti,/ sentire, amare,
vivere, pensare,/effettuare scoperte./ Oh, se mi
fosse dato, se potessi/almeno in parte,/ mi
piacerebbe scrivere otto versi/ sulle
proprietà della passione./Sulle
trasgressioni, sui peccati,/sulle fughe, sugli
inseguimenti,/ sulle inavvertenze
frettolose,/sui gòmiti, sui
palmi./Dedurrei la sua legge,/ il suo
cominciamento,/dei suoi nomi verrei ripetendo/le
lettere iniziali./I miei versi sarebbero un
giardino./Con tutto il brivido delle
nervature/vi fiorirebbero i tigli a
spalliera,/in fila indiana, l'uno dietro
l'altro./Introdurrei nei versi la
fragranza/delle rose, un alito di menta,/ ed il
fieno tagliato, i prati, i biodi,/ gli schianti
della tempesta./Così Chopin immise in
altri tempi/un vivente prodigio/ di ville, di
avelli, di parchi, di selve/ nei propri
studi./Giuoco e martirio/del trionfo
raggiunto,/corda incoccata/di un arco
teso».
- La
parola di Pasternak è pura
intensità evocativa, stupefatto ed
inebriante assorbimento delle emozioni: ogni
poesia sorge come umile fiore dalle zone d'ombra
della vita fino a guardare nei minimi
particolari, a perdersi in una contemplazione
della natura, delle immagini, delle cose,
dell'Uomo sempre intento in una sua personale
investigazione.
- Tutto
diventa miscela poetica: aroma di tiglio, cielo
azzurro, acquavite all'anice, profumo di terra,
la nebbia dei prati come latte con salnitro, la
natura, il mondo, un «cantuccio del
cosmo»: «sognavo l'autunno nella
penombra dei vetri... e come dai cieli un falco
sazio di sangue/scendeva il mio cuore sulla tua
mano» e ancora «io resterò con
lacrime di gioia,/penetrato da un brivido
recondito». La notte, la fiamma, la
pioggia sul viale, il viavai delle strade, il
destino degli uomini soli: la neve cade,
«non fai tempo a girarti dattorno, ed
è Natale», la vita stringe e gli
anni si succedono «come la neve o come
la parole d'un poema».
- E nel
momento specifico della creazione: «Di
notte, non riuscendo a prendere sonno,/ in un
attimo lucido balzando dal divano,/mettere un
mondo intero nella pagina,/situarsi nei confini
della strofa»... «Sulla carta
innalzare un oceano di tetti,/un mondo intero,
un'intera città fra la
neve».
- La
serietà dell'uomo, il suo sguardo che
riesce ad estrapolare l'essenza delle cose,
tutto assume una trasparenza primordiale, in una
visione che rende cristalline le immagini,
simboli del tempo che emergono dalla neve, dalla
terra bagnata dalla pioggia, dalla nebbia, dalle
oscurità, dalle acque gelide... quasi per
magia. Da un lato, la sua mite timidezza, la sua
discrezione, il suo appartamento dalle diatribe,
la sua lontananza dalle polemiche, dai conflitti
ideologici, culturali e letterari e, dall'altro
lato, quel meraviglioso stupore "da bambino", la
sua facilità all'entusiasmo, la
capacità d'incantarsi davanti alla
vertigine immane della natura: le immagini e le
metafore nascono dalle riflessioni, da un
dialogo intimo, ed emerge sempre quella
propensione, che durerà fino alla fine
dei suoi giorni, ad una semplice vita
appartata.
- In
Znamja nel 1940, Lilja Brik ha scritto di
Majakovskij: «...era tutto imbevuto di
Pasternak. Lo diceva poeta stupendo,
oltremarino. Con Asèev egli era
più intimo, ma non fu mai invaghito di
lui come del delizioso, attraente e un po'
enigmatico Pasternak. Lo conosceva tutto a
memoria, lo recitò per lunghi
anni...».
- L'arte
deve essere libera, intoccabile il diritto
dell'Uomo a vivere come "individuo" e non
diventare una insignificante parte d'un
meccanismo che, senza pietà, lo
annienterà. Prima o poi. La parola di
Pasternak è molto più fedele alla
realtà e ai mutamenti che sconvolgevano
la terra russa, le sue parole più vere di
coloro che erano i poeti ufficiali.
- Pensare
a ciò che scrive Pasternak quando
racconta dove e come scrisse il suo primo libro
di poesie può essere molto utile per
coloro che stanno ancora a dubitare «su
una parola che spieghi meglio ciò che
vogliono dire»: fatica inutile se
«la sostanza ha perso valore»,
se non si è capaci di creare un
«proprio stile», di essere
riconoscibili da un lettore dopo solo due righe,
se non si è capaci fare altro che
scimmiottare ciò che un altro essere
umano ha creato dopo lunga fatica. Ecco allora
che si ha a che fare con dei cloni che cercano
disperatamente di catalogare i vocaboli che
più utilizzi, le aperture e le chiusure,
le metafore e i simboli, la tessitura
personalissima che solo uno scrittore originale
riesce ad ottenere: eppure, neanche impegnandosi
fino al sudore, riescono a "suscitare l'anima"
come l'originale. Il motivo del loro fallimento
risiede nel fatto che non vivono la "tua"
estasi. Quando si scrive è necessario far
ribollire il sangue, arpionare ciò che
passa velocemente nella mente, liquefarsi nelle
parole, diventare uguale sostanza. Il dramma
deve essere vissuto. Questo è il mio
percorso, queste sono le mie virate estreme, le
mie acrobazie rabbiose nella vertigine
immane.
- Qui
habet aures audiendi, audiat. Come non
ripensare al giovane Pasternak quando scrive
nell'Autobiografia: «Ai margini d'un
parco serpeggiava un ruscello dai rapidi gorghi.
Su uno dei vortici si protendeva mezzo
sradicata, e continuava a crescere
all'ingiù, una grande, vecchia betulla...
Il groviglio verde dei suoi rami formava una
pergola sospesa sull'acqua. Nel loro solido
intreccio ci si poteva accomodare a piacere,
seduti o semisdraiati.
- Qui
stabilii il mio cantuccio per lavorare... Nel
folto di quell'albero, per due o tre mesi
dell'estate, scrissi le poesie del mio primo
libro... Scrivere questi versi, cancellarli,
riscriverli, era una esigenza profonda per me, e
mi procurava una incomparabile soddisfazione,
fino alle lacrime». E poi ancora
«non sentivo alcun bisogno di gridare i
miei versi da un palco... non sentivo alcun
bisogno che le modeste grazie dei miei versi
mandassero in deliquio le mosche e le mogli dei
professori... Io non esprimevo nulla, non
rispecchiavo, non raffiguravo, non rappresentavo
nulla. In seguito, mi scoprirono doti d'oratore
e declamatore. È falso. Non ne ho
più di chiunque parli» ...
«Al contrario, mia preoccupazione
costante era il contenuto, mio sogno costante
era che la poesia in sé contenesse
qualcosa, un nuovo pensiero o una nuova
immagine; che fosse incisa in ogni suo
particolare all'interno del libro, che parlasse
dalle sue pagine con tutto il suo silenzio e
tutti i colori della sua nera stampa
incolore». L'unica cosa in nostro
potere è di «saper non travisare
la voce della Vita che risuona in noi. Non
essere capaci di trovare la verità,
è una colpa che non può mascherare
nessuna abilità a dire la
non-verità. Il libro è un'essenza
viva». Nel 1958, due anni prima della
sua morte, a Pasternak viene assegnato il premio
Nobel per la letteratura. Il romanzo Il Dottor
Zivago non è stato ancora pubblicato
nell'URSS e la premiazione dello scrittore viene
considerata un atto politico ostile. La
possibile espulsione dall'URSS, il suo
sconcerto, il linciaggio morale, l'esclusione
dall'Unione degli scrittori sovietici, la sua
amarezza per la reazione violenta contro
l'assegnazione del premio Nobel, inducono
Pasternak a rinunciare.
- Molte
sono le cose che Pasternak ha perso:
«Nella vita, perdere è più
necessario che acquistare. Il grano non
germoglia se non muore. Bisogna vivere senza
stancarsi, guardare avanti e nutrirsi delle
riserve vive elaborate dall'oblìo in
collaborazione con la memoria».
«Addio a tutti gli altri miei
ricordi» erano state le ultime parole
dell'Autobiografia.
- Nel
mese di maggio del 1960 Pasternak muore. La
stampa sovietica ignora la notizia. Si racconta
che una grande folla di amici, giovani e poeti
abbia assistito ai funerali. Zakljàtie
smèchom. Smech.
- Massimo
Barile
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