- Sommario
- Editoriale a cura di Adriana Montefameglio
- Boris Leonidovic Pasternak «L'arte è nell'erba e bisogna avere l'umiltà di chinarsi a raccoglierla» di Massimo Barile
Testi di
Boris Leonidovic Pasternak
Testo tratto da L'anno novecentocinque - Traduzione di Angelo Maria Ripellino - (Giulio Einaudi Editore - Torino)
- LA RIVOLTA DEI MARINAI
Tutto viene a noia.- Solo a te non è dato di diventare abituale.
- I giorni passano
- e gli anni passano
- e mille, mille anni.
- Col bianco fervore dei flutti
- celandoti
- nel bianco aroma delle acacie,
- proprio tu, forse,
- mare,
- li riduci, li riduci a nulla.
Tu stai su un mucchio di reti.- Tu chiurli alla maniera delle gru,
- scherzando come una sorgiva.
- E come una ciocca dietro l'orecchio,
- la tua corrente in poppa solletica appena.
- Sei ospite dei bimbi.
- Ma con quale inaudita tempesta
- tu rispondi,
- quando la lontananza ti richiama a casa!
La vastità primordiale- s'infuria dalla spuma ed arrochisce.
- La sbrigativa risacca
- si esaspera
- dalla catasta di lavoro.
- Tutto si scompagina e a suo modo
- ulula e va in rovina
- e, imbrattandosi di melma,
- batte a suo modo sui pali.
L'identità delle tinte- che si sono frammischiate
- respinge indietro
- l'insipidezza delle vele,
- e s'approssima un muro d'acquazzone.
- E il cielo scende sempre più basso
- e cade a sghimbescio
- e va giù ruzzoloni
- e sfiora coi gabbiani il fondo.
Per la foschía galvanica- delle nubi scompigliate,
- goffamente,
- strisciando, barcolloni
- si fanno strada nel porto le navi.
- Fulmini dalle gambe turchine
- come ranocchie saltellano in una pozza.
- Attrezzi spilungoni
- sono scaraventati
- da ogni lato.
Tutto si preparava a prender sonno.- E si arrampicavano i granchi,
- e verso il centro
- del sole appesantito
- si piegavano le testine delle làppole.
- E il mare faceva le fusa
- ad una versta e mezza da Tendr,
- il grigio tronco d'una corazzata
- con schizzi arancioni
- screziando.
Il sole tramontò.- E all'improvviso
- di luce elettrica sfolgorò la « Potëmkin ».
- Dalla cambusa alla plancia
- irruppe un'orda di mosche.
- La carne puzzava di putrido...
- E sul mare caddero le tenebre.
- La luce borbottò sino all'aurora
- e ai primi albori si spense.
Lastre- di mareggiata mattinale
- scivolarono
- come rasoi di mercurio
- lungo il piedistallo della mole
- e, guardandole dall'alto,
- cominciò a respirare e a rianimarsi
- la corazzata.
- Cantata la preghiera, cominciarono
- a lavare la tolda.
- Portarono in mare i bersagli.
A pranzo non sedettero al pasto comune,- e mangiavano in silenzio
- pane ed acqua,
- quando d'un tratto echeggiò:
- - Tutti al càssero!
- Ciascuno al proprio posto !
- I due turni di quarto! -
- E un tale in casacca,
- annerendo di bile,
- urlò con stizza:
- - Attenti ! -
- da una bitta d'ormeggio
- minacciando settecento.
- Fermento?!- Chi vuoi mangiare, in cambusa.
- Chi non vuole, al pennone.
- March! -
- Le vedette impetrarono in un grido di meraviglia.
- E all'improvviso, insieme,
- si lanciarono tutti nel subbuglio
- dalla bitta
- di corsa alla batteria:
- - Fermatevi!
- Basta! -
- esclamò imbestialito l'apostolo della minestra.
Parte dei fuggenti restò indietro.- Egli tagliò loro la strada.
- - Di nuovo intrighi?! -
- Poi diede il comando:
- - Nostromo,
- la tela incatramata!
- Sentinella, accerchiarli! -
- Gli altri,
- nascostisi in folla nella torre blindata,
- aspettavano atterriti il supplizio
- che stava per sopraggiungere.
I cuori battevano forte.- E uno di essi,
- non sopportando il dolore,
- proruppe in un urlo:
- - Fratelli!
- Ma che è tutto questo? - E, scrollando i capelli:
- - Dategli, fratelli, alle canaglie!
- Alle armi!
- Evviva la libertà! -
- Uno strèpito d'acciaio e di piedi
- andò rotolando
- verso le murate della nave.
E la sommossa prese lo slancio,- stormendo,
- verso le cime dietro l'albero poppiero,
- e si gonfiò,
- e lassù
- come una mazza
- descrisse un arco.
- - A che ci serve correre a gara?
- Fermati!
- Ti raggiungerò, canaglia! -
- Trach-tach-tach...
- La mano tesa alla mira
- e una scarica in corsa.
Trach-tach-tach...- E le pallottole balzarono sui ponti,
- dai ponti,
- trach-tach-tach...
- in acqua,
- sui nuotatori.
- - È ancora a bordo?! -
- Scariche in acqua e in aria.
- - Ahà! Tu imbestialisci
- per le nostre lagnanze?! -
- Scariche, scariche,
- e per i piedi in mare
- e fila a Port-Arthur.
Ma nel reparto macchine si affaccendavano,- senza sapere ancora per benino
- come andava sul càssero,
- quando, nuotando con l'ombra sulle caldaie,
- sulla griglia delle macchine
- come un gigante
- passò
- Matjusénko
- e, piegatosi sopra l'inferno,
- esclamò:
- Stëpa!- La vittoria è nostra! -
- Il macchinista si levò.
- Si abbracciarono.
- - Proveremo senza balie.
- Sta tranquillo!
- Sono già in gabbia.
- Ed agli altri una palla per uno e giù in acqua.
- Ma io son venuto, Stëpa, per sapere
- chi sia il nostro più giovane meccanico.
- - Ce n'è uno.
- - Va bene.
- Mandamelo di sopra -.
Il giorno passò.- All'alba,
- avviluppandosi in una cortina di fumo,
- gridò nel megàfono un marinaio ai marinai:
- - Levate l'àncora! -
- La voce si spense in una nuvola.
- La corazzata puntò verso Odessa,
- nel tronco severo
- di schizzi arancioni
- brillando.
Testi tratti da Quando il tempo si rasserena - Traduzione diAngelo Maria Ripellino (Giulio Einaudi Editore - Torino)
- IN OGNI COSA HO VOGLIA DI ARRIVARE
In ogni cosa ho voglia di arrivare- sino alla sostanza.
- Nel lavoro, cercando la mia strada,
- nel tumulto del cuore.
Sino all'essenza dei giorni passati,- sino alla loro ragione,
- sino ai motivi, sino alle radici,
- sino al midollo.
Eternamente aggrappandomi al filo- dei destini, degli avvenimenti,
- sentire, amare, vivere, pensare,
- effettuare scoperte.
Oh, se mi fosse dato, se potessi- almeno in parte,
- mi piacerebbe scrivere otto versi
- sulle proprietà della passione.
Sulle trasgressioni, sui peccati,- sulle fughe, sugli inseguimenti,
- sulle inavvertenze frettolose,
- sui gomiti, sui palmi.
Dedurrei la sua legge,- il suo cominciamento,
- dei suoi nomi verrei ripetendo
- le lettere iniziali.
I miei versi sarebbero un giardino.- Con tutto il brivido delle nervature
- vi fiorirebbero i tigli a spalliera,
- in fila indiana, l'uno dietro l'altro.
Introdurrei nei versi la fragranza- delle rose, un àlito di menta,
- ed il fieno tagliato, i prati, i biodi,
- gli schianti della tempesta.
Così Chopin immise in altri tempi- un vivente prodigio
- di ville, di avelli, di parchi, di selve
- nei propri studi.
Giuoco e martirio- del trionfo raggiunto,
- corda incoccata di un arco teso.
- ESSERE RINOMATI NON È BELLO
Essere rinomati non è bello,- non è così che ci si leva in alto.
- Non c'è bisogno di tenere archivi,
- di trepidare per i manoscritti.
Scopo della creazione è il restituirsi,- non il clamore, non il gran successo.
- È vergognoso, non contando nulla,
- essere favola in bocca di tutti.
Ma occorre vivere senza impostura,- viver così da cattivarsi in fine
- l'amore dello spazio, da sentire
- il lontano richiamo del futuro.
Ed occorre lasciare le lacune- nel destino, non già fra le carte,
- annotando sul margine i capitoli
- e i luoghi di tutta una vita.
Ed occorre tuffarsi nell'ignoto- e nascondere in esso i propri passi,
- come si nasconde nella nebbia
- un luogo, quando vi discende il buio.
Altri seguendo le tue vive tracce,- faranno la tua strada a palmo a palmo,
- ma non sei tu che devi sceverare
- dalla vittoria tutte le sconfitte.
E non devi recedere d'un solo- briciolo dalla tua persona umana,
- ma essere vivo, nient'altro che vivo,
- vivo e nient'altro sino alla fine.
ANIMA
Anima mia che trèpidi- per quelli che mi attorniano,
- sei divenuta il lòculo
- dei martoriati vivi.
Imbalsamando i corpi,- cantandoli in poesia,
- rimpiangendoli tutti
- con singhiozzante lira,
nel nostro tempo egoistico- per scrupolo e paura,
- come urna funeraria
- tu ne ospiti le ceneri.
Gli spasimi comuni- ti hanno prostrata. Odori
- del limo cadaverico
- di tombe e di obitori.
Anima-sepoltura,- tutto quello che hai visto,
- tritando come màcina,
- hai mutato in mistura.
Continua a macinare- quello che mi
- è accaduto,
- come da quarant'anni,
- nell'umo di un ossario.
CAMBIAMENTO
Io avevo un debole una volta per i poveri,- non da un punto di vista superiore,
- ma perché solamente in mezzo a loro
- la vita andava senza pompa né parata.
Benché conoscessi la casta dei nobili- e il pubblico più delicato,
- ero avversario del parassitismo
- ed amico degli infimi straccioni.
E cercavo di stringere amicizia- con persone dedite al lavoro,
- che in cambio mi facevano l'onore
- di riputare pure me un rifiuto.
Senza vuote frasi era tangibile,- sostanziale, solido, corposo
- l'ambiente degli spogli sotterranei,
- delle soffitte prive di tendine.
Ma io mi sono guastato da quando- mi sfiorò la corruzione dell'epoca
- e il dolore fu preso a vergogna
- da schiere di ottimisti e filistei.
A tutti coloro in cui avevo fiducia- da lungo tempo ormai sono infedele.
- Io ho perduto l'uomo dal momento
- in cui l'uomo da tutti fu perduto.
LUGLIO
Per la casa gironzola un fantasma.- Un calpestío sul capo tutto il giorno,
- un balenare d'ombre nel solaio.
- Per la casa gironzola un folletto.
Vàgola in ogni dove a contrattempo,- s'intromette in tutte le faccende,
- nella vestaglia striscia verso il letto,
- strappa la tovaglia dalla tavola.
Senza asciugarsi i piedi sulla soglia,- irrompe in una raffica di vento
- e solleva la tenda-ballerina
- con un vortice sino al soffitto.
Ma chi è questo monello ineducato- e questo spettro e questo sosia? E il nostro
- nuovo inquilino da poco arrivato,
- un villeggiante, un nostro ospite estivo.
Per il tempo del suo breve riposo- l'intera casa noi gli cederemo.
- Luglio, l'aria di luglio con bufere
- prende da noi le camere in affitto.
Luglio che sì trascina nel vestito- peluria di soffioni e di bardane,
- luglio che penetra dalle finestre
- e parla sempre forte, ad alta voce.
Acciarpona arruffata della steppa,- impregnata d'aroma di finocchio,
- di tiglio e d'erba e di foglie d'ortaggi,
- l'aria di luglio che soffia dai prati.
I PAGLIAI
Guizzano le libellule scarlatte,- volano da ogni parte i calabroni,
- le colcosiane ridono dal carro,
- passano con le falci i falciatori.
Fino a che il tempo si mantiene bello,- rastrellano e rivoltano il foraggio
- e lo abbícano prima del tramonto
- in pagliai dell'altezza di case.
Il pagliaio nel crepuscolo assume- l'aspetto di un ostello in cui la notte
- si distenda sopra un tavolaccio
- in mezzo ai trifogli falciati.
Sul mattino, quando il buio dirada,- si erge il pagliaio come un fienile,
- in cui la luna di passaggio
- si sia nascosta a pernottare.
Prima dell'alba un carro dietro l'altro- rotola per i prati nelle tenebre.
- Dalla locanda sorge il nuovo giorno
- con tritume e fieno fra le chiome.
E nel meriggio il cielo torna azzurro,- sono di nuovo i pagliai come nuvole,
- come acquavite all'anice di nuovo
- la terra è gagliarda e odorosa.
UN VIALE DI TIGLI
Un portone dall'arco a tutto sesto.- Campi d'avena, colli, prati, boschi.
- Il freddo e il buio d'un parco nel recinto
- ed una casa di bellezza insolita.
Là i tigli larghi parecchie bracciate,- nascondendosi l'uno dietro l'altro,
- nel tenebrore dei viali festeggiano
- il loro giubileo bicentenario.
Si annodano dall'alto come volte.- In basso un praticello e spiazzi erbosi,
- che file di passaggi regolari
- tagliano in linea retta.
Sotto quei tigli come sotto terra- non c'è un puntino chiaro sulla sabbia,
- e come il foro d'una galleria
- luccica l'uscita in lontananza.
Vengono i giorni della fioritura- e i tigli in una cinta di steccati
- diffondono insieme con l'ombra
- un irresistibile aroma.
La gente che passeggia sotto i tigli- col cappello d'estate vi respira
- questo forte odore inesplicabile,
- ma familiare all'intuito delle api.
Esso costituisce negli istanti- in cui prende la gente per il cuore
l'oggetto e il contenuto d'un volume.- Le aiuole fanno da rilegatura.
Su un annoso albero massiccio,- ricoprendo dall'alto la casa,
- macchiettati di cera sfavillano
- i fiori accesi dalla pioggia.
QUANDO IL TEMPO SI RASSERENA
Il grande lago somiglia ad un piatto.- Gli sta dietro una massa di nuvole,
- accatastate come un bianco mucchio
- di rigidi, alpestri ghiacciai.
Man mano che cambia la luce,- cambia anche il bosco colore.
- Ora s'accende tutto, ora è coperto
- di un'ombra di nera fuliggine.
Quando alla fine dei giorni piovosi- fra le nubi balugina l'azzurro,
- com'è festoso il cielo coi suoi squarci,
- com'è piena di esultanza l'erba!
Sgombrato l'orizzonte, il vento cade.- È effuso il sole per la terra.
- Traluce il verde delle foglie,
- come pittura su un vetro a colori.
Nell'affresco di chiesa delle imposte- contemplano l'eterno dal di dentro
- con le aureole lucenti delle insonnie
- i santi, i romiti, i sovrani.
Come se lo spazio della terra- fosse l'interno d'una cattedrale,
- dalla finestra mi
- è dato sentire
- a volte l'eco d'un coro lontano.
Natura, mondo, cantuccio del cosmo,- io resterò con lacrime di gioia,
- penetrato da un brivido recòndito,
- sino alla fine del tuo lungo uffizio.
MUSICA
La casa s'innalzava come torre.- Per una stretta scala a chiocciola
- due omaccioni portavano un pianoforte
- come una campana su un campanile.
Trascinavano in alto il pianoforte- sull'ampiezza del mare cittadino,
- come una tavola dei comandamenti
- su un altipiano di pietra.
Ed ecco lo strumento nel salotto,- e la città, fra sibili e baccano,
- era rimasta in basso sotto i piedi,
- come sott'acqua al fondo di leggende.
L'inquilino che stava al sesto piano- contemplò la terra dal balcone,
- come se la tenesse fra le mani,
- governandola legittimamente.
Tornato dentro, cominciò a sonare,- non un pezzo qualunque di un altro,
- ma il proprio pensiero, un corale,
- il brusio d'una messa, il frusciare d'un bosco.
Lo schianto degli improvvisi portava- la notte, la fiamma, un rimbombo di botti,
- la pioggia dirotta sul viale, un rumore di ruote,
- il viavai delle strade, il destino degli uomini soli.
Così di notte, a lume di candela,- in cambio delle ingenuità passate,
- annotava il suo sogno Chopin
- sugli intagli neri del leggío.
Oppure, superato l'universo- con un salto di più generazioni,
- sui tetti degli alloggi cittadini
- tempestava un volo di Valchirie.
O, tra crepiti e strepiti infernali,- la grande sala del Conservatorio
- Cajkovskij scrollava sino alle lacrime
- con la sorte di Paolo e Francesca.
Testi tratti da Poesie - Traduzione di Angelo MariaRipellino (Giulio Einaudi Editore - Torino)
- FAZZOLETTI, TACCHI
Fazzoletti, tacchi, sguardo ardente- dei bucaneve: non ci si può staccare.
- E la cioccolata rossiccia del fango
- non è livellata a bolla d'aria.
Ma il tempo piovoso impasta di raggi- la primavera e il bàttito assonnato delle pietre,
- e il rivo rimena clamori di uccelli,
- come con le dita si plasmano i raviuoli.
Fazzoletti, falpalà: che gioia!- Nera liquirizia dei luoghi disgelati...
- Lasciati ripagare cento volte
- e come un fiume sciògliti e respira.
Lascia che, sorpassando la livella,- io ti ringrazi sino ad arrochire
- e dall'alto immergi il tuo mondo
- come in uno specchio nel mio grazie.
Capovolgi la folla e i paracarri- e le gronde nella saliva e nella schiuma.
- E il turchino còrneo del cielo,
- e le vuote ombre delle nubi.
La gelatina del cieco mezzogiorno- e i gialli occhiali dei borri,
- e le sottili làmine di mica dei ghiacci,
- e i monticelli dalla frangia nera.
1932
- NON CI SARÀ NESSUNO A CASA
Non ci sarà nessuno a casa,- tranne il crepuscolo. Il solo
- giorno invernale in un trasparente spiraglio
- di cortine non accostate.
Solo di bianchi biòccoli bagnati- il rapido aleggiante balenìo.
- Solo tetti, neve e tranne
- i tetti e la neve, - nessuno.
E di nuovo arabeschi intesserà la brina,- e di nuovo mi domineranno
- lo sconforto dell'anno passato
- e le vicende di un altro inverno.
E mi scherniranno di nuovo per una- colpa non ancora perdonata,
- e una fame di legna avvinghierà
- la finestra lungo la crociera.
Ma inaspettatamente per la tenda- scorrerà il trèmito di un'irruzione.
- Misurando coi passi il silenzio,
- come l'avvenire tu entrerai.
Tu apparirai sulla soglia, indossando- qualcosa di bianco senza stranezze,
- qualcosa proprio di quelle stoffe
- di cui si cuciono i fiocchi di neve.
1931
VERSI MIEI
Versi miei, in fretta, in fretta,- di voi ho bisogno come non mai.
- C'è una casa all'angolo del viale,
- dove s'è infranta la serie dei giorni,
- dov'è vano il benessere e abbandonato il lavoro
- e si piange, si pensa e si aspetta.
Dove si beve come acqua il bromo amaro- di mezze insonnie, di mezzi sopori.
- Una casa ove il pane è come atrèpice,
- una casa: bisogna andarvi in fretta.
Ululi dalle vie la bufera di neve,- voi siete arcobaleno su cristallo,
- voi siete sogno, voi notizia: io vi mando,
- io vi mando, vuoi dire che amo.
O scalfitture intorno ai colli femminili- per gli amuleti che vi sono appesi!
- Come li conosco, come li ho compresi
- io che ad essi mi sono aggrappato.
- Tutta la vita ho trattenuto un grido
- sull'evidenza di queste catene,
- ma sempre le soverchia la menzogna
- degli altrui giacigli raggelati
- e l'immagine di Barbablu
- è più forte delle mie fatiche.
Retaggio orrendo dei borghesucci,- li visita ogni notte,
- irreale come il Vij,
- l'oltraggioso fantasma del disamore
- e deformato da quello spettro
- è il naturale destino delle spose migliori.
Oh, com'era ardita quando,- appena uscita di sotto l'ala
- della madre diletta, scherzando,
- mi diede il suo riso infantile
- senza contraddizioni e senza impacci,
- il suo mondo infantile e il suo riso infantile,
- bambina ignara delle offese,
- le sue inquietudini e le sue faccende.
Boris Pasternak
Per leggere l'articolo di Massimo Barile
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