-
- Truman
Capote è uno scrittore che non è mai
entrato nella mia personale biblioteca, mi
riferisco a quella limitata serie di scaffali dove
sono riposti i libri che tengo sempre a portata di
mano: sono i libri degli scrittori che mi hanno
affascinato, che hanno suscitato l'anima, che hanno
aperto le porte a nuove prospettive. Truman Capote
non è uno di questi scrittori.
- Ho
letto da tempo il famoso A sangue freddo, poi
Colazione da Tiffany e, infine, l'ultimo Preghiere
esaudite: se devo essere onesto, ciò che
reputo più importante abbia mai scritto
Truman Capote è l'intervista-saggio a Marlon
Brando dal titolo Il Duca nel suo dominio. Una
meravigliosa intervista che, tra le sue mani,
diventa una sorta di breve racconto, a volte quasi
autobiografico, che rende omaggio a Marlon Brando e
a Truman Capote. Pare incredibile ma è
vero.
- Ciò
che leggerete, in queste mie considerazioni e
riflessioni, è esclusivamente ciò che
ho avuto modo di capire mentre leggevo e rileggevo
alcuni scritti di Truman Capote. Tutto ciò
che scriverò vi sembrerà ammantato da
una mia personalissima visione della sua figura e
dalla scarsa, direi quasi inesistente,
compatibilità tra me e Truman Capote. Solo
seguendo questa direzione o linea di condotta, sono
riuscito a scrivere alcune pagine che, comunque,
vivisezionano e rendono al meglio la sua
personalità e la sua esperienza
letteraria.
- Tutto
ciò che leggerete è necessariamente
crudo, spietato, cinico. Come Truman
Capote.
- I
lettori più attenti avranno già
capito cosa intendo dire. Buona lettura e mi
raccomando... calma e cold blood.
-
- Di
sicuro A sangue freddo fu una nonfiction novel che
dimostrò come Truman Capote sapeva
affrontare le situazioni complicate, anche le
più disperate e strazianti, sanguinose e
devastanti. Quell'impresa, certamente difficile da
portare a termine, lui era riuscito a svolgerla nel
migliore dei modi, come un abilissimo chirurgo. Non
era stato facile. L'assassinio della famiglia
Clutter, un reale fatto di cronaca, accaduto a
Holcomb, nel Kansas, nella notte del 15 novembre
1959, doveva essere riversato nel romanzo in modo
"immacolatamente vero", con neutralità. Dopo
aver letto sul giornale che un agricoltore di nome
Herbert Clutter, la moglie Bonnie e due dei loro
quattro figli, sono stati uccisi dopo essere stati
legati e imbavagliati nella notte, Capote si sente
come attratto da questo sanguinoso fatto di
cronaca. Poi, quando i due assassini Dick e Perry,
vengono arrestati a Las Vegas e confessano di avere
ucciso i quattro componenti della famiglia Clutter,
Truman Capote si rende conto che sono proprio i due
assassini che rendono la tragedia ancora "pulsante"
e inizia a organizzare numerosi incontri con loro.
Ecco allora che la costruzione del romanzo diventa
molto più complessa, deve tenere conto di
numerose testimonianze, di ricostruzioni delle
scene del delitto, di rivelazioni più o meno
veritiere, ed il tutto deve essere presentato in
modo omogeneo e credibile più del vero. I
due esecutori della strage, Dick e Perry, saranno
processati, riconosciuti colpevoli di assassinio e
condannati all'impiccagione.
- Truman
aveva speso sei anni della sua vita in quel
maledetto posto nel Kansas. Fino all'esecuzione dei
colpevoli. Truman Capote assisterà
all'esecuzione su espresso volere dei due
condannati. Questa vicenda avrà una forte e
pesante influenza sul futuro dello scrittore. Gli
effetti si vedranno qualche anno dopo, come un
lento virus che si insinua subdolamente nel corpo
e, solo dopo anni, esplode con tutta la sua
virulenza.
- Sei
anni. Sei anni immerso completamente in una
situazione mentale così stressante, in un
lento recupero d'ogni notizia utile, in una
costante scarnificazione della storia dalle
considerazioni superflue, sempre intento a
ricercare ogni minima traccia, come un segugio
sempre a fiutare le prede: certamente non era stata
impresa facile o raccomandabile.
- Non
a caso, il cinico Truman, dopo quell'esperienza
così faticosa eppure vantaggiosa per le sue
tasche, aveva voglia di godersela: a bordo dello
yacht del vip di turno, sbevazzando ogni cosa e
facendo incetta di snacks. Era giusto ed umanamente
comprensibile.
- Nel
gennaio del 1966 era uscito A sangue freddo, enorme
successo, un best seller che per trentasette
settimane rimase nella classifica del New York
Times. Un anno dopo il film con la regia di Richard
Brooks, con Truman che non accettava le scelte del
regista, l'innesto d'un nuovo personaggio nella
trama, le varie modifiche, fino al punto di
diventare rabbioso.
- Eppure,
apparentemente, tutto andava a gonfie vele. Truman
Capote era onnipresente, pareva avere il dono
dell'ubiquità: pubblicava Un ricordo di
Natale, scritto dieci anni prima; poi aveva
iniziato un nuovo racconto, Il Giorno del
Ringraziamento, che sarà pubblicato nel
1968; partecipava a incontri e dibattiti
televisivi, rilasciava interviste come fossero long
drinks, si trastullava durante vacanze in lussuose
ville, dava ricevimenti e si godeva il
successo.
-
- «È
come entrare in cucina e trovare rifiuti
sparpagliati ovunque» così s'era
espresso quando gli era stata richiesta una
riduzione cinematografica del romanzo di Francis
Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, che pure
apprezzava. Nel 1972, per la rete televisiva ABC,
aveva realizzato un documentario dal titolo Truman
Capote dietro le sbarre con lo scrittore che
intervistava alcuni detenuti nella prigione di San
Quentin e poi, perfino un programma nel quale
intervistava famosi penalisti sul crimine in
America. Insomma un filone d'oro da sfruttare nel
miglior modo possibile.
- Pochi
anni dopo, a causa dell'alcol, durante le
partecipazioni a trasmissioni televisive,
interviste, o eventi pubblici, la sua condizione
mentale sarà penosa: dal ridicolo si
passerà al dramma.
- Nel
1979 finalmente sembra risorgere, facendo appello a
tutta la sua volontà: cerca di risollevare
il suo stato di salute, si cura con attenzione, fa
una dieta, un trapianto di capelli, un lifting.
Cerca anche, disperatamente, di riprendersi a
livello mentale e affitta un piccolo studio che
dovrebbe essere il suo rifugio sicuro dove scrivere
con la massima concentrazione. I racconti che
scriverà in questo periodo daranno vita a
Musica per camaleonti e Truman, con grande enfasi,
affermerà: «Vi è in esso tutto
ciò che io so a proposito dello scrivere.
È quanto di meglio io possa produrre, e
voglio che tutti vedano che è il lavoro di
un grande scrittore. Quando verrà fuori,
l'anno prossimo, i miei amici ne saranno molto
orgogliosi».
- Non
passerà un solo anno che, dopo aver
freneticamente viaggiato tra America ed Europa,
quasi a dimostrare a se stesso che era tornato ad
essere il grande Capote, "The Genius", dovrà
affrontare l'ennesimo crollo fisico: le
frequentazioni rischiose, gli anni d'uso e abuso di
alcol, cocaina e sostanze d'ogni genere producevano
i loro nefasti effetti. Senza scampo.
- E
quando, a chi lo conosceva anche solo di vista,
capitava di vederlo in qualche posto, la
considerazione ricorrente era: «Non mi sembra
Truman, ma è Truman». È proprio
lui.
- Durante
la supervisione della riduzione cinematografica di
Bare intagliate a mano, a Los Angeles, si trova in
uno stato così pietoso che lo riportano a
New York e poi in ospedale.
- Nell'estate
dell'anno seguente vi saranno frequenti ricoveri
per crisi dovute ad abuso di alcol e varie droghe.
Iniziano le allucinazioni e... lasciarlo solo
diventa pericolosissimo. Ormai non lavora
più, non scrive più, le Preghiere
esaudite diventano un incubo e non riuscirà
più a creare una sola pagina di quel libro
«così bello così ben costruito
così unico» fino a farneticare
«nessuno può scrivere così
bene». Verso la fine del mese di agosto
è ospitato da Joanne Carson, a Los Angeles.
Alla mattina, al suo risveglio, dice a Joanne:
«Non sto affatto bene... ma presto
starò meglio». Le impedisce di chiamare
un medico e continua a parlare con lei, per ore,
fino al momento in cui si ferma.
- Tutto
si ferma.
- Truman
inizia il nuovo cammino con la sua anima, non
rimane che la sua opera, la scrittura nata da un
personaggio veramente singolare. E «raggiunse
la zona alberata, proseguì all'ombra,
lasciandosi alle spalle il cielo sconfinato e la
voce del vento che passava, sussurrando, in mezzo
al grano». Come nelle ultime parole del suo
famoso A sangue freddo.
-
- «Sono
come uno squalo: l'unico animale che non dorme mai;
che muove la coda nell'acqua senza mai
fermarsi».
- Come
un moderno dracula, affonda gli incisivi nelle
prede, negli agnelli sacrificali che hanno creduto
nella sua amicizia, nella sua innocuità:
credevano fosse uno di loro, ma non era
così.
- La
sua esperienza umana e la sua opera letteraria
erano state una scrittura e riscrittura di
"margine", un incessante equilibrio tra morte e
vita, un barcamenarsi sulla linea di confine, tra
realtà e "lucida follia". Si era mosso con
abilità nei meandri sconosciuti, aveva dato
fondo a tutta la sua astuzia per emergere e lo
aveva fatto fin dall'inizio: fin da quando era
entrato nella redazione al The New Yorker come
umile copyboy, con il compito di tenere in ordine
gli uffici e raccogliere i disegni da pubblicare.
Era una mansione da svolgere in silenzio ma Truman
si comporta da insolente, crea scompiglio, non si
lascia soffocare e non si sente l'ultimo anello
della catena, vagabonda per tutti gli uffici, su e
giù per i piani, con quella sua voce
stridula che si sente da lontano, con quel suo modo
di vestire con pantaloni larghi e comode scarpe da
ginnastica... Poi comincia a frequentare le
redazioni di Harper's Bazaar, il primo contratto
con la Random House per Altre voci altre stanze...
e poi la scalata.
- Una
vita vissuta a sangue freddo, quasi immedesimandosi
con gli esecutori della famosa strage dei Clutter,
quei due giovani assassini che aveva conosciuto a
fondo, che aveva intervistato, che aveva studiato,
analizzato fin nei minimi particolari.
- E
infine, nell'ultimo capitolo della sua vita, le
Answered Prayers.
- Preghiere
esaudite sarà un reportage al vetriolo, tra
gossip e maldicenze allo stato puro, e Truman
Capote, dopo aver annotato vizi e meschinità
per quindici anni, quasi come un guastatore in
avanscoperta tra le linee del nemico,
metterà nero su bianco, una sorta di
vivisezione dei personaggi "incontrati", una
spietata esecuzione a freddo, una devastante e
lunga elencazione delle zone più oscure
dell'uomo, delle loro tragedie, del loro misero
quotidiano, e, in alcuni casi, della loro schifosa
e merdosa fine. E meno male che ne porterà a
termine solo tre capitoli.
- Lo
strumento usato sarà il bisturi e non certo
il fioretto: tagli netti, sanguinanti, ferocia allo
stato primitivo, cinica osservazione per decretare
la nullità d'una persona.
- In
alcune pagine, vien voglia di chiudere il libro:
pare di entrare nelle intenzioni di Capote e
fissarne la frattura tra ciò che sicuramente
nasceva dal suo stato alterato dovuto all'alcool e
alle droghe e ciò che invece, forse solo
minimamente, riusciva ancora ad uscire dalla mente
lucida dello scrittore. Una frattura insanabile fra
se stesso e il mondo circostante. Un essere umano
costretto all'angolo, una volta brillante e
strafottente, ridotto ad una increspatura di se
stesso; uno scrittore, una volta capace di
scrivere, sulla propria pelle, A sangue freddo, ed
ora, ridotto a cianciare di gossip come un
redattore di settimanale che vive del pettegolezzo
o dei fatti degli altri. I residui d'un essere
umano che si aggrappa alle stronzate che facevano
personaggi famosi del suo tempo e con i quali, fino
a poco tempo prima, aveva bevuto cocktails e fatto
battute banali. Prima sguazzando tra di loro, nelle
piscine, nelle ville, nei loro yachts, nelle loro
lussuose dimore, insieme a loro in vacanza nei
luoghi più famosi, ed ora disperso in una
galleria senza uscita. Il buio assoluto dopo le
scintille della vita.
- Le
domande che nascono spontanee su questa condizione
umana, sono fin troppo scontate. Forse è
meglio tralasciare e far calare il pietoso
velo.
- Una
sottile luce illuminava ancora il suo volto, la sua
"piccola lanterna" per muoversi tra le strade,
l'ultima ombra da accarezzare come fosse una sua
proiezione, senza età e senza
risposte.
- In
verità, quei tre capitoli delle Preghiere
esaudite non erano altro che il prolungamento
dell'agonia di Trummy.
- Il
grande Capote che un tempo sgattaiolava sotto le
luci della ribalta e ora pareva un volto in
penombra, una maschera surreale, due mani che non
plasmavano più niente: riportavano
pettegolezzi da portinaia.
- La
sua mente tendeva ad inglobare la nocività
della vita, le tossine dell'esistenza e delle
esperienze, arrivava a lambire i limiti della
dissolvenza umana, un inarrestabile decadimento
fisico, un crollo mentale fino
all'abisso.
- Truman
Capote pagherà il suo tributo alla vita...
perchè la vita, come tutti sappiamo,
presenta sempre il conto.
- Alla
fine. A sangue freddo.
-
-
Massimo
Barile
-
- TRUMAN
CAPOTE - ROMANZI E
RACCONTI
-
-
-
- A
SANGUE FREDDO
-
- Traduzione
di Maria Paola
Dèttore
-
- 2
1 2
-
- A
Jack Dumphy e Harper Lee
- con
affetto e gratitudine
-
- Tutto
il materiale di questo libro non derivato da mia
osservazione diretta o proviene da registrazioni
ufficiali o è il risultato di colloqui con
le persone direttamente interessate, colloqui che
molto spesso si sono protratti per un tempo
considerevole. Poiché questi
«collaboratori» sono già nominati
nel testo sarebbe prolisso elencarli qui, tuttavia
desidero esprimere la mia gratitudine perché
senza la loro paziente collaborazione il mio
compito sarebbe stato impossibile. Inoltre non
intendo fare una lista di tutti quei cittadini
della contea Finney non menzionati in queste
pagine, che hanno offerto all'autore
un'ospitalità e un'amicizia che egli
può solo ricambiare ma mai ripagare.
Comunque desidero ringraziare alcune persone il cui
contributo alla mia opera è stato specifico:
il dottor James McCain, presidente
dell'Università di Stato del Kansas; il
signor Logan Sanford e il personale dell'Ufficio
investigativo del Kansas, il signor Charles McAtee,
direttore degli Istituti di pena dello Stato del
Kansas; il signor Clifford R. Hope Jr., la cui
assistenza nelle questioni legali è stata
inestimabile; e infine, ma soprattutto, il signor
William Shawn del «New Yorker», che mi ha
incoraggiato a intraprendere questo progetto e la
cui capacità di giudizio mi è stata
di grande aiuto dal principio alla
fine.
- T.C.
-
-
- GLI
ULTIMI A VEDERLI VIVI
-
- Il
villaggio di Holcomb si trova sugli altipiani
graniferi del Kansas occidentale, una zona
scarsamente popolata, alla quale nel resto dello
Stato si allude dicendo: «laggiù».
Un centinaio di chilometri a est del confine con il
Colorado, il paesaggio, con i suoi duri cieli
azzurri e l'aria limpida e secca, ha un'atmosfera
più da Far West che da Middle West.
L'accento locale ha la cadenza aspra di quello
delle grandi praterie, una nasalità da
bovari, e molti uomini portano stretti pantaloni da
cow-boy, cappello a larghe tese e stivali con
tacchi alti e punte aguzze. Il terreno è
piatto e gli orizzonti tremendamente estesi;
cavalli, mandrie di bestiame, bianchi silos che si
elevano aggraziati come templi greci sono visibili
molto prima che il viaggiatore li
raggiunga.
- Anche
Holcomb può essere scorto da grande
distanza. Non che ci sia molto da vedere: solo un
confuso agglomerato di edifici diviso al centro dai
binari della Ferrovia per Santa Fé, un borgo
nato a casaccio e delimitato a sud da un tratto del
fiume Arkansas (pronunciato
«Ar-kan-sas»), a nord da un'autostrada,
la Statale 50, a est e a ovest da praterie e campi
di grano. Dopo una pioggia, o quando le nevi si
sciolgono, le strade prive di nome, di ombra, di
selciato, passano dal polverone al fango. A un capo
della cittadina sorge un vecchio casone dai muri a
intonaco, spoglio, il cui tetto sorregge un'insegna
elettrica - DANCE - ma le danze sono cessate da
tempo e l'insegna è spenta da parecchi anni.
Lì accanto c'è un altro edificio,
dall'insegna, pure non pertinente, in oro scrostato
su una vetrina sporca: HOLCOMB BANK. Ma la banca
è fallita nel 1933 e gli uffici sono stati
trasformati in appartamenti. È uno degli
unici due «condomini» della cittadina; il
secondo è un cadente palazzotto noto come il
Professoraio poiché vi abita buona parte del
corpo insegnante della scuola locale. Ma per la
maggior parte le case di Holcomb sono a un solo
piano, con una veranda sul davanti.
- Vicino
alla stazione c'è uno sgangherato ufficio
postale, diretto da una donna dall'aria sparuta che
indossa giubbotto di pelle, calzoni di tela e
stivali da cow-boy. La stazione stessa, con la sua
vernice color zolfo che si scrosta, è
altrettanto malinconica. Ogni giorno vi transitano
i celebri rapidi dai nomi altisonanti - The Chief,
The Superchief El Capitan - ma non vi si fermano
mai. Nessun treno passeggeri si ferma; solo, ogni
tanto, un merci. Sull'autostrada ci sono due
stazioni di servizio, su a nord, di cui una funge
anche da emporio, scarsamente fornito, mentre
l'altra svolge un'attività supplementare
come caffè, il Caffè Hartman, dove la
signora Hartman, proprietaria, dispensa panini,
caffè, bibite e birra a bassa gradazione. (A
Holcomb, come in tutto il Kansas, è proibita
la vendita di alcolici nei locali
pubblici.)
- E
questo è tutto. A meno che non si includa,
come doveroso, la scuola di Holcomb, un
bell'edificio che rivela un dato di fatto che non
traspare invece dal resto dell'abitato: e
cioè che i genitori i cui figli frequentano
questa moderna scuola «parificata»,
dotata di ottimi insegnanti - le classi vanno
dall'asilo al liceo e una serie di pullman
trasporta gli studenti, il cui numero si aggira sui
trecentosessanta, perfino da un centinaio di
chilometri di distanza - sono, in genere, persone
benestanti. Proprietari di grandi fattorie per lo
più, gente che vive all'aria aperta e che
discende da svariate stirpi: tedeschi, irlandesi,
norvegesi, messicani, giapponesi. Allevano bovini e
pecore, coltivano grano, saggina, foraggi e
barbabietole da zucchero. L'agricoltura è
sempre un'impresa incerta, ma nel Kansas
occidentale chi la pratica si considera un
«giocatore d'azzardo» poiché deve
combattere con l'estrema scarsità delle
precipitazioni (la media annua è di
quarantacinque centimetri) e con angosciosi
problemi d'irrigazione. Comunque gli ultimi sette
anni sono stati generosi e non si è avuta
siccità. Gli agricoltori della contea
Finney, di cui Holcomb fa parte, se la sono cavata
bene; hanno fatto quattrini non solo col lavoro dei
campi ma anche «con lo sfruttamento di
abbondanti risorse di metano, e tali profitti si
riflettono nella nuova scuola, nei comodi interni
delle case coloniche, nei silos alti e ben
pieni.
- Fino
a una certa mattina di metà novembre 1959,
pochi americani, anzi, persino pochi kansasiani
avevano sentito parlare di Holcomb. Come le acque
del fiume, come gli automobilisti sull'autostrada e
come i treni gialli che sfrecciano sulle rotaie
della Santa Fé, neanche il dramma, sotto
forma di avvenimento eccezionale, si era mai
fermato qui. Gli abitanti del paese, che ne conta
duecentosettanta, erano soddisfatti che le cose
stessero così e contenti di condurre
un'esistenza del tutto ordinaria: lavorare, andare
a caccia, guardare la televisione, partecipare alle
feste della scuola, alle prove del coro, ai raduni
dei Club 4-H. Ma poi, alle prime ore di quella
domenica di novembre, certi rumori insoliti si
intromisero fra i normali suoni notturni di
Holcomb: il lugubre isterismo dei coyote, il
fruscio secco dell'erba cascarla trascinata dal
vento, il fischio delle locomotive che si
allontanano veloci. Sul momento non un'anima di
Holcomb, immersa nel sonno, li udì: quattro
colpi di fucile che, a conti fatti, posero fine a
sei vite umane. Ma in seguito gli abitanti della
cittadina, fino a quel momento tanto fiduciosi da
prendersi raramente la briga di chiudere a chiave
la porta di casa, ebbero a ricrearli mentalmente
più e più volte: cupe detonazioni che
facevano deflagrare incendi di sfiducia al cui
riverbero molti buoni vicini di un tempo si
guardavano adesso in modo strano, come
estranei.
- Il
padrone della fattoria River Valley, Herbert
William Clutter, aveva quarantotto anni e, come
risultava da un recente controllo medico per una
polizza assicurativa, sapeva di essere in perfette
condizioni fisiche. Nonostante portasse occhiali da
miope e fosse di media statura, poco sotto il metro
e settantacinque, aveva una gagliarda figura
virile. Spalle ampie, capelli ancora folti e bruni,
un viso dalla mascella forte e volitiva, giovanile,
di colorito sano, denti bianchissimi e tanto
robusti da schiacciare noci, ancora intatti. Pesava
settantacinque chili, come il giorno in cui si era
diplomato all'Università di Stato del Kansas
come perito agrario. Non era ricco quanto il
più facoltoso cittadino di Holcomb, il
signor Taylor Jones, proprietario di una fattoria
confinante. Era tuttavia la persona più
ragguardevole della comunità, eminente sia a
Holcomb sia a Garden City, il vicino capoluogo di
contea dove aveva presieduto il comitato promotore
della Prima Chiesa Metodista, di recente
costruzione, costata ottocentomila dollari.
Attualmente era presidente dell'Associazione
coltivatori diretti del Kansas, e il suo nome
godeva di grande rispetto tra gli agricoltori di
tutto il Middle West, come pure in certi ambienti
di Washington, dove aveva fatto parte della
Commissione federale per il credito agricolo
durante l'amministrazione Eisenhower.
- Sempre
sicuro di sé e di quanto voleva dal mondo,
Herbert Clutter l'aveva in larga misura ottenuto.
Alla mano sinistra, su quel che gli restava
dell'anulare maciullato da una trinciaforaggi,
portava una fede d'oro, simbolo, vecchio di un
quarto di secolo, del suo matrimonio con la donna
che aveva scelto di sposare: la sorella di un
compagno d'università, una ragazza timida,
pia, delicata, di nome Bonnie Fox, di tre anni
più giovane di lui. Bonnie gli aveva dato
quattro figli: tre femmine e per ultimo un maschio.
La figlia maggiore, Eveanna, sposata e madre di un
bimbo di dieci mesi, abitava nell'Illinois ma
veniva spesso a Holcomb. Infatti, lei e la sua
famiglia erano attesi entro i prossimi quindici
giorni poiché era in programma, per il
Giorno del Ringraziamento, una riunione plenaria
del clan dei Clutter (oriundo della Germania: il
primo Clutter - o Klotter, come era scritto allora
il nome - era immigrato in America nel 1880). Erano
stati invitati una cinquantina di parenti, parecchi
dei quali sarebbero giunti da località
lontane come Palatka, in Florida. E neppure
Beverly, la secondogenita, abitava più nella
fattoria River Valley, bensì a Kansas City,
dove seguiva un corso da infermiera. Beverly era
fidanzata con un giovane studente di biologia che
suo padre vedeva molto di buon occhio: gli inviti
alla festa di nozze, fissata per la settimana di
Natale, erano già stati stampati. Quindi
restavano ancora in casa il ragazzo, Kenyon, che a
quindici anni era più alto del padre, e una
sorella di sedici anni, la beniamina del villaggio,
Nancy.
- Nei
confronti della famiglia, Clutter aveva un solo
serio motivo di preoccupazione: la salute di sua
moglie. Era «nervosa», soffriva di
«piccoli attacchi»; tali erano le
eufemistiche espressioni usate da coloro che le
stavano vicino. Non che la verità circa i
«malanni della povera Bonnie» fosse un
segreto; tutti sapevano che da circa sei anni
andava saltuariamente da uno psichiatra. Eppure,
anche su questa zona d'ombra recentemente aveva
brillato il sole. Il mercoledì precedente,
di ritorno da due settimane di cure presso il
centro medico Wesley di Wichita., suo abituale
luogo di ritiro, la signora Clutter aveva portato
notizie quasi incredibili a suo marito; con gioia
lo aveva informato che la fonte dei suoi mali,
così avevano infine decretato i medici, non
era nella testa bensì nella spina dorsale:
era una causa fisica, una questione di vertebre
spostate. Naturalmente avrebbe dovuto sottoporsi a
un'operazione e poi, be', sarebbe tornata quella di
un tempo. Era forse possibile che la tensione
nervosa, quel suo chiudersi in se stessa, quei
singhiozzi soffocati sul cuscino, pa orte chiuse...
tutto ciò fosse dovuto a una spina dorsale
deviata? Se così era, Herbert Clutter, nel
discorso che avrebbe tenuto a tavola il Giorno del
Ringraziamento, avrebbe ben potuto recitare una
preghiera colma di gratitudine.
- Di
solito la giornata di Herbert Clutter cominciava
alle sei e mezzo; a svegliarlo erano il clangore
dei secchi del latte e le chiacchiere sommesse dei
due ragazzi che li portavano, figli di un
bracciante a nome Vic Irsik. Ma quel sabato egli
indugiò a letto, lasciando che i figli di
Vic Irsik se ne andassero com'erano venuti: la
serata precedente, un venerdì 13, era stata
per lui faticosa anche se piacevole. Bonnie era
apparsa «quella di un tempo»: quasi a
offrire un'anteprima della normalità, del
vigore che presto avrebbe ritrovato, si era messa
il rossetto, si era pettinata con cura e, indossato
un abito nuovo, si era recata con lui alla scuola
di Holcomb, dove avevano applaudito una recita
studentesca di Tom Sawyer in cui Nancy sosteneva la
parte di Becky That-cher. Era stata una gioia per
lui rivedere Bonnie tra la gente, nervosa ma
sorridente, e udirla chiacchierare con gli amici; e
poi tutti e due si erano sentiti orgogliosi di
Nancy, che aveva recitato a meraviglia, senza mai
impaperarsi. Al termine dello spettacolo il padre
si era congratulato con lei e le aveva detto:
«Sei bellissima, tesoro: una vera bellezza del
Sud». Al che Nancy si era atteggiata a tale,
facendo un inchino in costume di scena, con gonna e
crinolina; quindi aveva domandato il permesso di
recarsi a Garden City. Allo State Theatre davano
uno speciale, alle undici e mezzo di quel
venerdì 13, un film dell'orrore, e tutti i
suoi amici ci andavano. In altre circostanze
Clutter avrebbe rifiutato. Le sue leggi erano leggi
e una di queste era: Nancy, e anche Kenyon,
dovevano rientrare per le dieci di sera nei giorni
feriali, ed entro la mezzanotte il sabato. Ma, reso
più indulgente dai piacevoli avvenimenti
della serata, aveva invece acconsentito. E Nancy
era tornata a casa solo verso le due. L'aveva
sentita entrare e l'aveva redarguita; non era sua
abitudine alzare sul serio la voce, ma aveva alcune
cose molto semplici da dirle, non tanto riguardo
all'ora tarda quanto al ragazzo che l'aveva
riaccompagnata in auto: un asso della squadra di
pallacanestro della scuola, Bobby Rupp.
- Il
signor Clutter aveva simpatia per Bobby e lo
considerava, per un ragazzo della sua età,
diciassette anni, assolutamente fidato e perbene;
tuttavia in quegli ultimi tre anni - da quando
cioè le era stato concesso di avere dei
filarini - Nancy, graziosa e ammirata com'era, non
era mai uscita con altri, e Clutter, pur rendendosi
conto che era attualmente costume degli adolescenti
fare coppia fissa e scambiarsi anelli di
fidanzamento, non gradiva la cosa, specie da
quando, poco tempo addietro, aveva sorpreso per
caso la figlia e il giovane Rupp a baciarsi. Allora
aveva consigliato a Nancy di smettere di
«vedere così spesso Bobby»,
spiegandole che un graduale distacco ora sarebbe
stato meno doloroso di una brusca rottura in
seguito poiché, le rammentò, una
separazione era inevitabile. La famiglia Rupp era
cattolica, i Clutter invece metodisti, e questo
bastava a porre fine a qualsiasi illusione, che lei
e il ragazzo potessero nutrire, di sposarsi un
giorno. Nancy si era mostrata ragionevole, o
perlomeno non aveva puntato i piedi, così,
prima di augurarle la buonanotte, Clutter le aveva
fatto promettere di cominciare a mollare
gradualmente Bobby.
- L'episodio,
comunque, gli aveva purtroppo ritardato l'ora di
coricarsi, di solito le undici. Di conseguenza
erano le sette passate quando si risvegliò
quel sabato, 14 novembre 1959. Sua moglie si
svegliava sempre il più tardi possibile.
Tuttavia, mentre si radeva, faceva la doccia e si
vestiva (indossando pantaloni a coste, giacca di
cuoio e morbidi stivali da cavallo), Clutter non
aveva timore di disturbarla: non condividevano
infatti la camera da letto. Da diversi anni lui
dormiva da solo nella stanza matrimoniale, a
pianterreno. La casa, in legno e mattoni, a due
piani, aveva quattordici stanze. Nonostante
riponesse gli abiti negli armadi di quella camera e
tenesse i suoi pochi cosmetici e la miriade di
medicine nell'attigua stanza da bagno, in
piastrelle azzurre e mattonelle di vetro, la
signora Clutter occupava stabilmente la stanza che
era stata di Eveanna e che, come quelle di Nancy e
di Kenyon, si trovava al piano
superiore.
- La
casa, per la maggior parte progettata dal signor
Clutter, che si era così dimostrato
architetto razionale e giudizioso, anche se non
particolarmente estroso, era stata costruita nel
1948, con una spesa di quarantamila dollari.
(Attuale valore: sessantamila dollari.) Situata in
fondo a un lungo viale ombreggiato da due filari di
olmi cinesi, quella bella casa bianca, circondata
da un ampio prato ben curato di erba Bermuda, era
molto ammirata a Holcomb: una casa che la gente
additava a esempio. Quanto all'interno, c'erano
molti tappeti morbidi color sangue di bue che
rompevano a tratti il lucido dei risonanti
pavimenti verniciati; c'era, in soggiorno, un
immenso divano moderno, ricoperto di una stoffa
granulosa intessuta di luccicanti fili di metallo
argenteo; c'era un angolo per la prima colazione,
con un tavolo ricoperto di plastica bianca e blu.
Insomma, era il tipo di arredamento che piaceva ai
coniugi Clutter come alla maggior parte dei loro
conoscenti, le cui abitazioni, in linea di massima,
erano arredate in modo analogo.
- A
parte una donna tuttofare che veniva nei giorni
feriali, i Clutter non avevano domestici. Quindi,
in seguito alla malattia della moglie e alla
partenza delle due figlie maggiori, il signor
Clutter aveva per forza di cose imparato a
cucinare; lui o Nancy, ma più spesso Nancy,
preparavano i pasti. A Clutter piaceva quella
mansione ed era un ottimo cuoco; in tutto il Kansas
nessuna massaia sapeva preparare un pane casareccio
migliore, e i suoi famosi biscotti al cocco erano i
primi a esaurirsi alle vendite di dolci per
beneficenza. Non era però un gran
mangiatore; a differenza degli altri proprietari di
fattorie, preferiva colazioni spartane. Quella
mattina gli bastarono una mela e un bicchiere di
latte; non prendeva mai tè né
caffè ed era abituato a iniziare la giornata
senza niente di caldo nello stomaco. Fatto sta che
era contrario a qualsiasi stimolante, per quanto
blando. Non fumava e naturalmente non beveva; non
aveva mai toccato alcolici e preferiva evitare le
persone che ne facevano uso. Ciò non
restringeva tanto la sua cerchia sociale quanto si
potrebbe pensare, poiché il nucleo di quella
cerchia era costituito da membri della Prima Chiesa
Metodista di Garden City, congregazione di
millesettecento fedeli, la maggior parte dei quali
astemi quanto poteva desiderare il signor Clutter.
E se questi evitava con cura di rendersi noioso
ostentando le sue norme e anzi si sforzava di
adottare, fuori dal suo reame, un atteggiamento
tutt'altro che censorio, le faceva bensì
rispettare rigorosamente all'interno della propria
famiglia e dai dipendenti della fattoria River
Valley. «Lei beve?» era la prima domanda
che rivolgeva a chi si presentava per essere
assunto; e anche se costui dava una risposta
negativa, doveva ugualmente firmare un contratto di
lavoro contenente una clausola per cui l'impegno
risultava automaticamente scisso qualora il
dipendente fosse stato scoperto «in possesso
di alcolici». Un amico, agricoltore di antica
data, Lynn Russell, gli aveva detto una volta:
«Tu non hai misericordia. Sono sicuro, Herb,
che se beccassi un dipendente a bere, lo
sbatteresti fuori. E non te ne importerebbe nulla
anche se la sua famiglia morisse di fame».
Quella era forse l'unica critica che mai fosse
stata mossa a Herbert Clutter come datore di
lavoro. Per il resto erano noti la sua
equanimità, il suo animo caritatevole e il
fatto che pagava buoni salari e distribuiva
frequenti gratifiche; gli uomini che lavoravano per
lui - il cui numero a volte arrivava a diciotto -
avevano scarsi motivi di lamentele.
-
- Dopo
aver bevuto il bicchiere di latte ed essersi messo
in capo un berretto foderato di pelo, Clutter
addentò una mela e uscì all'aperto, a
godersi la mattinata. Era il tempo ideale per
mangiare mele; da un cielo purissimo scendeva la
più fulgida luce solare, e un vento di
levante faceva stormire, senza staccarle, le ultime
foglie degli olmi cinesi. L'autunno ripaga il
Kansas occidentale di tutti i mali inflitti dalle
altre stagioni: i rabbiosi venti invernali del
Colorado e le nevi alte fino ai fianchi,
sterminatrici di pecore; il fango e le strane brume
che la terra esala a primavera; e poi la calura
dell'estate, quando persino i corvi cercano un po'
d'ombra e le fulve distese di spighe, irte,
avvampano. Infine, dopo settembre, il clima si fa
clemente e arriva l'estate di san Martino che a
volte si protrae fino a Natale. Mentre contemplava
quel superbo paesaggio autunnale, Clutter fu
raggiunto da un cane bastardo, per metà
collie, e insieme si diressero al recinto del
bestiame, adiacente a uno dei tre granai della
tenuta.
-
- Uno
di questi granai era un enorme capannone
prefabbricato, traboccante di sorgo Westland, e un
altro conteneva una scura montagna di saggina
dall'odore pungente e di valore considerevole:
centomila dollari. Tale somma, da sola,
rappresentava un incremento del quattromila per
cento rispetto al reddito complessivo del giovane
Clutter nel 1934, l'anno in cui aveva sposato
Bonnie Fox e si era trasferito con lei dalla loro
città natale, Rozel (Kansas), a Garden City,
dove aveva trovato lavoro come assistente
dell'assessore all'agricoltura della contea Finney.
Come c'era da aspettarsi da lui, gli occorsero solo
sette mesi per essere promosso, vale a dire per
assumere la carica del suo superiore. Gli anni nei
quali tenne quel posto, dal 1935 al 1939, furono i
più aridi, i più disastrosi che
quella regione avesse conosciuto da quando vi si
erano stabiliti i bianchi, e Herbert Clutter,
dotato com'era di una mente capace di tener dietro
ai più moderni ed efficienti sistemi
agricoli, possedeva tutte le qualità
necessarie per fungere da intermediario tra il
governo e gli scoraggiati agricoltori questi
avevano molto bisogno dell'ottimismo e
dell'aggiornata istruzione di un simpatico
giovanotto sicuro, a quanto pareva, del fatto suo.
Tuttavia non era quello il compito che lui
desiderava svolgere; figlio di contadini fin
dall'inizio aveva mirato a mandar avanti una
proprietà sua. Prefiggendosi questo, dopo
quattro anni diede le dimissioni dall'Assessorato
all'agricoltura e, sul terreno preso in affitto con
denaro ottenuto in prestito creò, in
embrione, la fattoria River Valley (nome
giustificato dalla presenza serpeggiante del fiume
Arkansas ma non certo dalla conformazione del
terreno). Un'impresa che parecchi conservatori
della contea Finney considerarono con divertita
incredulità: gente dalle idee antiquate, si
era divertita a punzecchiare il giovane assessore a
proposito delle sue nozioni universitarie:
«Naturale Herb. Tu sai sempre qual è la
cosa migliore da fare sul terreno altrui. Pianta
questo. Disponi quest'altro a terrazza. Ma forse
parleresti diversamente se il podere fosse
tuo». Si sbagliavano: gli esperimenti del
nuovo venuto ebbero successo, anche perché,
nei primi anni, lavorava diciotto ore al giorno. Ci
furono alcuni rovesci: due volte il raccolto di
grano andò in malora, e un inverno diverse
centinaia di pecore morirono in una bufera di neve;
ma in capo a dieci anni il dominio di Clutter
estendeva su ottocento acri di sua proprietà
e altri tremila coltivati da fittavolo: ed era,
come ammettevano i suoi colleghi, «una bella
distesa». Frumento, sorgo, mais, foraggi:
questi erano i prodotti dai quali dipendeva la
prosperità della fattoria. Anche gli animali
erano importanti: pecore e soprattutto bovini. Una
mandria di parecchie centinaia di Hereford portava
il marchio di Clutter. Non lo si sarebbe
però sospettato, a giudicare dai pochi capi
di bestiame rinchiusi in quel recinto, che era
riservato ai manzi malati, a qualche mucca da
latte, ai gatti di Nancy e a Babe, la beniamina
della famiglia, una vecchia cavalla da tiro,
grassa, che non si rifiutava mai di trotterellare
pesantemente con tre o quattro bambini a cavalcioni
della larga groppa.
- Ora,
Clutter offrì a Babe il torsolo della mela,
e augurò il buongiorno a un uomo che
rastrellava lo strame all'interno del recinto,
Alfred Stoecklein, l'unico salariato residente alla
fattoria. Con la moglie e tre figli abitava in una
casetta a meno di duecento metri dalla casa
principale; a parte loro, i Clutter non avevano
vicini nel raggio di mezzo miglio. Stoecklein, un
uomo dalla faccia lunga, con lunghi denti scuri,
domandò: «C'è qualche lavoro
urgente da fare oggi? Abbiamo una figlia malata. La
piccola. Mia moglie e io siamo stati in piedi quasi
tutta la notte. Bisognerà portarla dal
dottore». E Clutter, esprimendo la sua
comprensione, gli rispose di prendersi senz'altro
la mattinata libera; e se c'era qualcosa -
soggiunse - in cui lui o sua moglie potevano essere
d'aiuto, glielo facessero sapere. Poi, preceduto
dal cane che correva, si diresse a sud verso i
campi, fulvi di stoppie e rilucenti al sole dopo la
mietitura.
- In
quella direzione c'era il fiume e vicino all'argine
sorgeva un boschetto di alberi da frutta: peschi,
peri, ciliegi e meli. Cinquantanni fa, a quel che
ricordavano i vecchi, un boscaiolo avrebbe
impiegato dieci minuti ad abbattere tutti gli
alberi del Kansas occidentale. Anche oggi qui si
piantano comunemente solo pioppi neri e olmi
cinesi, piante perenni e indifferenti alla sete
come i cactus. Tuttavia, come spesso osservava
Clutter, «basterebbero due centimetri di
pioggia in più e questa regione sarebbe un
paradiso terrestre». Quel piccolo frutteto in
riva al fiume rappresentava il suo tentativo di
dare vita, pioggia o no, a un pezzetto di quel
verde Eden profumato dai meli, che lui sognava. Sua
moglie aveva detto una volta: «Mio marito
tiene più a quegli alberi che ai suoi
figli», e a Holcomb tutti ricordavano il
giorno in cui un piccolo aereo in avaria si era
abbattuto sui peschi. «Herb era fuori di
sé! Accidenti, l'elica non aveva ancora
smesso di girare e lui aveva già citato per
danni il pilota.»
- Attraversato
il frutteto, Clutter proseguì lungo il
fiume, ora in fase di magra e punteggiato di
isolette, piccole spiagge di soffice sabbia in
mezzo alla corrente, dove - nelle calde giornate
festive di un tempo ormai lontano, quando ancora
Bonnie «se la sentiva» - si portavano i
cestini da picnic e si trascorrevano tranquilli,
familiari pomeriggi in attesa di uno strappo
all'estremità della lenza. Raramente Clutter
incontrava degli estranei nella sua tenuta: a due
chilometri dall'autostrada, raggiungibile solo per
stradine secondarie, non era un luogo dove si
potesse capitare per caso. Ora, improvvisamente,
apparve un folto gruppo di persone e Teddy, il
cane, subito si slanciò, abbaiando
minaccioso. Ma Teddy era una strana bestia. Per
quanto facesse buona guardia, sempre vigile, sempre
pronto a far baccano, il suo coraggio aveva una
pecca: bastava che vedesse un fucile, come ora -
dato che gli intrusi erano armati - e abbassava la
testa, la coda tra le gambe. Nessuno capiva
perché, visto che nessuno conosceva il suo
passato, tranne che era un randagio che Kenyon
aveva adottato anni fa. I forestieri risultarono
essere cacciatori di fagiani venuti dall'Oklahoma.
Nel Kansas la stagione dei fagiani, celebre
ricorrenza di novembre, richiama orde di sportivi
dagli stati vicini, e dalla settimana precedente
interi reggimenti in berretto scozzese
scorrazzavano per i campi autunnali, facendo alzare
e abbattendo con scariche di pallini grandi stormi
color rame di quegli uccelli ingrassati dalle
granaglie. È usanza che i relatori, qualora
non siano stati invitati, paghino un tanto al
proprietario per poter inseguire la selvaggina sul
suo terreno; ma quando quei cacciatori
dell'Oklahoma gli offrirono un tributo, il signor
Clutter sorrise. «Non sono povero come sembro.
Andate pure, prendete tutta la selvaggina che
volete» disse. Poi, portata una mano alla
visiera del berretto, tornò verso casa,
tornò alla sua giornata di lavoro, senza
sapere che sarebbe stata l'ultima.
-
-
-
- DA
RITRATTI E APPUNTI DI
VIAGGIO
-
- Traduzione
di Pier Francesco Paolini
-
-
-
-
- IL
DUCA NEL SUO DOMINIO
-
- Le
ragazze giapponesi sono, perlopiù,
ridarelle. La camerierina al quarto piano
dell'albergo Miyako a Kyoto non faceva eccezione.
L'ilarità, insieme con i tentativi di
reprimerla, le arrossava le guance (a differenza
della cinese, la carnagione giapponese è
spesso colorita) e scuoteva la sua figura
grassottella, in kimono a peonie e pansé.
Non v'era alcun motivo particolare per tanta
allegria: la ridarella giapponese nasce senza
motivi apparenti. Le avevo semplicemente chiesto di
indicarmi una certa stanza. «Siete venuto
vedere Marron?» chiese quella, mostrando - al
pari di tanti suoi compatrioti - una chiostra di
denti d'oro. Poi, a passettini schettinanti -
quello zampettio cui è costretto chi indossa
un kimono - mi fece strada per un dedalo di
corridoi, promettendo: «Busso io [per]
voi Marron». I giapponesi non hanno la
«l» e, per Marron, lei intendeva Marlon:
Marlon Brando, l'attore americano che si trovava a
Kyoto in quel periodo per gli esterni del film
Sayonara, una coproduzione Warner Brothers-William
Goetz tratta dal romanzo di James
Michener.
- La
mia guida bussò alla porta di Brando e
gridò: «Marron!», poi
scappò via - e le maniche del suo kimono
sbattevano come le ali di un parrocchetto. Ad
aprire la porta venne un'altra cameriera del
Miyako, delicata come una bambola, la quale a sua
volta fu presa da un accesso di isterica euforia.
Da una stanza interna, Brando gridò:
«Che c'è, tesoro?». Ma la ragazza
- con gli occhi strizzati dall'allegria e le manine
paffute incastrate tra i denti, come quelle di una
bimba che strilla - non fu in grado di rispondere.
«Ehi, tesoro, ma che c'è?»
tornò a chiedere Brando, e comparve sulla
soglia. «Oh, salve» disse appena mi vide.
«Sono le sette, eh?» Avevamo appuntamento
per cenare insieme alle sette e io ero in ritardo
di quasi venti minuti. «Bene, togliti le
scarpe ed entra, accomodati. Ho quasi finito. E,
senti, tesoro» disse alla cameriera,
«portaci del ghiaccio.» Poi, guardando la
ragazza che partiva di volata, portò le mani
ai fianchi e dichiarò sorridendo: «Mi
fanno morire. Davvero, mi fanno morire. I
ragazzini, anche. Non li trovi magnifici... non li
ami anche tu... i ragazzini
giapponesi?».
- Il
Miyako, dove alloggiava circa la metà della
troupe, è il più prestigioso fra gli
alberghi in stile cosiddetto occidentale di Kyoto:
le sue stanze sono perlopiù arredate con
robusti, ancorché ordinari e ingombranti,
mobili europei: letti, tavoli, sedie, divani. Ma,
per uso dei clienti giapponesi che preferiscono il
loro décor pur ambendo al prestigio di
alloggiare al Miyako, nonché di quei
forestieri che pretendono un'atmosfera locale
autentica ma non sono inclini a sopportare i rigori
di una fredda, reale locanda nipponica, al Miyako
trovi anche appartamenti arredati alla maniera
tradizionale: era in una di codeste suite che
Marlon aveva scelto di installarsi. Disponeva di
due stanze, un bagno e un terrazzino a vetrata.
Senza l'ingombro delle masserizie personali di
Brando, le stanze sarebbero state illustrazioni da
manuale della propensione giapponese per
l'ostentata nudità degli ambienti. Il
pavimento era ricoperto da tatami, stuoie di colore
fulvo, e cosparso qua e là di cuscini di
seta grezza; una pergamena raffigurante pesci rossi
in una vasca pendeva in una nicchia, nella quale si
trovava un vaso pieno di alti gigli e foglie rosse,
sistemati alla meglio. La più grande delle
due stanze - quella interna - che l'ospite usava a
mo' di ufficio e dove, anche, mangiava e dormiva,
conteneva un lungo e basso tavolino laccato e un
giaciglio. In quelle stanze, i divergenti concetti
che dell'arredamento hanno giapponesi e occidentali
(gli uni miranti a stupire con la rigorosa mancanza
di ogni ostentazione, gli altri intenti all'esatto
opposto) potevano entrambi osservarsi, tanto
più che Brando non sembrava propenso a
servirsi degli sgabuzzini situati al riparo di
porte di carta scorrevoli. Tutto ciò che
possedeva, avresti detto, era allo scoperto.
Camicie da inviare in lavanderia; calzini anche;
scarpe e maglioni e giacche e cappelli e berretti e
cravatte... sparpagliati qua e là, come il
costume di uno spaventapasseri smantellato. E poi
macchine fotografiche, una macchina per scrivere,
un registratore, una stufetta elettrica che
funzionava con soffocante competenza. Da ogni
parte, frutti morsicati per metà; una
scatola di fragole, le famose fragole giapponesi,
grosse come uova di gallina. E poi libri, una
caterva di libri, non di amena lettura
perlopiù, fra cui notai The Outsider di
Colin Wilson e svariati testi di preghiere
buddiste, meditazioni zen, respirazione yoga,
misticismo indù... Niente romanzi.
Perché Brando non ne legge. Non ha mai
aperto un libro di narrativa - giura - dal 3 aprile
1924 (giorno in cui nacque a Omaha nel Nebraska) in
qua. Ma sebbene non gli interessi leggere opere di
fantasia, desidera scriverne. Il tavolinetto
laccato era, infatti, coperto di traboccanti
portacenere e pile di fogli: pagine e pagine del
suo più recente sforzo creativo: una
sceneggiatura cinematografica dal titolo A Burst of
Vermilion.
- Evidentemente,
Brando stava lavorando a questo copione al momento
del mio arrivo. Quando entrai nella stanza, un uomo
piuttosto giovane, dall'aria dimessa, che
chiamerò Murray e che mi era stato in
precedenza indicato come «quello che da una
mano a Brando a scrivere», stava seduto alla
turca sulla stuoia, scartabellando il manoscritto
di A Burst of Vermilion. Soppesandone in mano
alcune pagine, costui disse: «Senti, Mar.
È meglio che gli do una scorsa giù in
camera mia... e magari ci si rivede più
tardi, eh? Diciamo verso le dieci e
mezza>.
- Brando
si accigliò, come se non gli sorridesse
l'idea di riprendere il lavoro a tarda ora.
Leggermente indisposto (come appresi in seguito),
aveva trascorso tutto il 'giorno' in camera, e
adesso sembrava irrequieto, «Cose quella
roba?» domandò, indicando un paio di
pacchetti oblunghi che si trovavano sul tavolo
laccato, frammezzo agli avanzi
letterari
- Murray
si strinse nelle spalle. Li aveva portati la
cameriera: altro, lui non sapeva. «Gli mandano
regali di continuo, a Mar» disse rivolto a me,
«Spesso neppure lo sappiamo, chi li manda.
Vero, Mar?»
- «Eh
sì» disse Brando, dandosi ad aprire i
regali, che, al pari di gran pane dei pacchetti
giapponesi- anche acquisti da nulla in negozi senza
pretese - erano magnificamente confezionati. Uno
conteneva dolcetti, l'altro supplì di riso
in bianco - che si rivelarono duri come cemento
sebbene sembrassero soffici come batuffoli di nube.
Non v'era alcun biglietto, atto a identificare i
donatori, in nessuno dei due. «Come ti rigiri,
c'è qualche giapponese che ti rifila un
regalo. Vanno matti per fare regali»
osservò Brando. Sgranocchiando un
supplì con atletiche mandibole, passò
le scatole a Murray e a me.
- Murray
scosse la testa. Gli premeva solo di ottenere da
Brando la promessa di rivedersi alle dieci e mezza.
«Dammi un colpo di telefono verso
quell'ora» gli disse Brando, alfine.
«Vediamo come siamo messi.»
- Murray,
a quel che sapevo, era solo un accolito di quella
cui si alludeva, nell'ambiente di Sayonara, come la
«ghenga di Brando». Oltre all'assistente
letterario, la ghenga comprendeva: Marlon Brando
senior, che funge da manager del figlio; una
graziosa segretaria bruna, miss Levin; e il
truccatore privato dì Brando. Le spese a
viaggio - e di sussistenza, in esterni - di questo
entourage erano, contrattualmente, a carico della
Warner Brothers. Contrariamente al mito, i
produttori di solito non sono così di manica
larga, finanziariamente. Un uomo della Warner, da
me successivamente interpellato, mi spiegò
il motivo di tanta accondiscendenza con Brando.
«Di solito» mi disse, «non ci
staremmo. Sapessi quante esigenze ha! Solo che,
vedi, per questo film ci voleva una grossa star.
È l'unica cosa che conta realmente, al
botteghino.»
- In
seno alla troupe c'erano alcuni che si lamentavano
perché la cerchia protettiva dei suoi intimi
impediva loro di «avvicinare Brando e arrivare
a conoscerlo meglio» come avrebbero
desiderato. Brando si trovava in Giappone da oltre
un mese e, durante questo periodo, si era
comportato sul set come un giovanotto straccamente
dignitoso, in apparenza affabile, sempre pronto a
collaborare con i colleghi, a incoraggiarli persino
- specie gli attori - e, tuttavia, nel complesso
non era socialmente disponibile; preferiva, durante
i tediosi intervalli fra una scena e l'altra,
starsene appartato a leggere filosofia o a
scribacchiare su un quaderno di scuola. Al termine
della giornata di lavoro, anziché accettare
l'invito dei colleghi a una bevuta in compagnia, a
una cenetta a base di pesce crudo al ristorante, a
un giro nel quartiere delle gheisce, anziché
aggregarsi alla comitiva e partecipare a quello
spirito di festa in famiglia che, in teoria, si
instaura quando i cineasti lavorano in esterni,
lui, di solito, rientrava in albergo e ci restava.
Poiché i più ferventi ammiratori dei
divi del cinema sono quelli che nel cinema lavorano
essi stessi, Brando era oggetto di enorme interesse
all'interno della troupe di Sayonara. E tanto
più lo era, in quanto quel suo atteggiamento
di cordiale distanza, scontrandosi con la loro
curiosità, produceva malinconia e
frustrazione. Persino il regista, Joshua Logan,
dopo aver lavorato con Brando per un paio di
settimane, fu indotto a dire: «Marlon è
la persona più affascinante che ho
incontrato, dopo la Garbo. Un genio. Ma non lo so
mica, com'è fatto. Non so nulla, di
lui».
- La
cameriera era rientrata nella stanza del divo, e
Murray, uscendo, per poco non inciampava nello
strascico del suo kimono. La ragazza, deposta una
ciotola di cubetti di ghiaccio, raggiante, ebbe un
tale slancio che i suoi piedini, simili a zoccoli
nei bianchi calzini con l'alluce diviso dagli altri
diti, scalpitarono come quelli di un puledro che si
impenna. Annunciò: «Torta di mere!
Stasera, in menù, torta di
mere!».
- Brando
gemette: «Torta di mele. Ci mancava anche
questa!». Sdraiatosi sul pavimento, si
slacciò la cinghia che gli stringeva troppo
la pancia prominente. «Dovrei stare a dieta,
dovrei. Ma le uniche cose di cui vado ghiotto sono
le torte, di mele o di quel che vi pare.» Sei
settimane prima, in California, Logan gli aveva
detto che doveva dimagrire di sei chili per quel
ruolo in Sayonara; e quando arrivò a Kyoto,
Brando era riuscito a smaltirne sette. Da quando
era in Giappone, però, con la
complicità non solo della torta di mele
all'americana ma anche della cucina giapponese - in
cui deliziosamente predominano i dolci, gli amidi,
il fritto - non solo aveva recuperato i chili
perduti ma era aumentato di altrettanti. Ora,
allentatasi ancora la cinta e massaggiandosi
pensoso l'addome, diede una scorsa al menu, che
offriva una vasta scelta di specialità
occidentali, e dopo aver rammentato a se stesso:
«Devo assolutamente dimagrire»
ordinò una minestra, bistecca con patate
fritte, tre&emdash;contorni di verdure, uno sfizio
di spaghetti, panini e burro, una bottiglia di
sakè, formaggio e cracker. «E torta di
mere, Marron?» Marlon sospirò.
«Con gelato, tesoro.» Sebbene non sia
astemio, Marlon Brando ci va leggero con il vino e
gli alcolici. Mentre si aspettava che la cena ci
venisse portata in camera, mi offrì
un'abbondante vodka al ghiaccio ma, per sé,
ne versò solo un sorsetto. Tornato a
sdraiarsi sulla stuoia, la testa abbandonata su un
cuscino, socchiuse gli occhi, poi li chiuse. Fu
come se si fosse appisolato e si destasse, di
soprassalto, da un sogno inquietante. Batté
le palpebre... e, quando parlò, la sua voce
- una voce pacata, in certo qual modo coltivata,
garbata, e tuttavia sorprendentemente
adolescenziale, una voce che aveva un non so che di
querulo, inquisitivo, fanciullesco - parve
provenire da una sonnolenta lontananza.
- «Gli
ultimi otto, nove anni della mia vita sono stati un
pastrocchio» disse. «Forse questi ultimi
due sono andati un po' meglio. Un po' meno in balia
dei flutti. Sei mai stato in analisi? A me, da
principio, metteva paura. Temevo che potesse
distruggere, in me, quell'impulso che mi rendeva
creativo, artista. Una persona ipersensibile riceve
cinquanta impressioni laddove un'altra può
riceverne solo sei, sette. Le persone molto
sensibili sono estremamente vulnerabili. Facilmente
vengono ferite e violentate proprio perché
sono sensibili. Più sei sensibile più
sei certo che verrai brutalizzato, che ti
attaccheranno la rogna. Non ti evolvi. Non ti
permetti mai di sentire alcunché,
perché senti sempre troppo. L'analisi aiuta.
Me, mi ha aiutato. Ma in questi ultimi otto, nove
anni sono stato lo stesso piuttosto confuso, un bel
po' incasinato...»
- La
voce seguitò, come se parlasse per udire se
stessa: effetto, questo, che l'eloquio di Brando
spesso produce, poiché, al pari di tanti che
sono intensamente pieni di sé, in sé
assorti, lui è un grande monologatore...
Cosa che riconosce e della quale offre una
spiegazione tutta sua.
- «Quelli
che mi circondano non dicono mai nulla» dice,
«Sembrerebbe che vogliano soltanto ascoltare
ciò che ho da dire io. Ecco perché
sono sempre io a parlare.» A guardarlo
così, con gli occhi chiusi, la faccia senza
rughe bianca sotto la luce che piove dall'alto,
ebbi la sensazione di rivivere il nostro primo
incontro, nel 1947...
-
- 2
1 2
-
- ...Mi
appartai sul terrazzino, affinché Brando e
la signorina Taka seguitassero a parlare in
libertà. Sotto di me il giardino
dell'albergo, piante e pietre disposte in modo
semplicissimo e soigné, fluttuava nella
nebbiolina che si leva dai canali di Kyoto:
perché questa è una città
acquatica, attraversata in lungo e in largo da
corsi d'acqua poco profondi e punteggiata da
laghetti cheti come serpenti acciambellati e da
allegre cascatelle che risuonano come il riso delle
fanciulle giapponesi. Un tempo capitale
dell'impero, oggi museo culturale del paese, tanto
preziosa esteticamente che i bombardieri americani
non la molestarono affatto durante la guerra, Kyoto
è circondata da acque: oltre i colli che le
fanno corona, strade strette attraversano come
pontili le risaie allagate. Quella sera, nonostante
l'inquieta foschia, le azzurre colline circostanti
erano discernibili sullo sfondo della notte,
perché il cielo nelle alte sfere era
limpido, trapunto di stelle, con uno spicchio di
luna. Si vedevano alcune parti della città.
Nei pressi c'era un quartiere di case dai tetti
ricurvi, dalle facciate aristocratiche, graziose e
tuttavia austere, nordiche, segrete come i palazzi
di Siena. Quelle case facevano apparire più
brillanti i lampioni delle strade e le lanterne
che, dalle porte d'ingresso, diffondevano colori da
kimono: rosa e arancione, giallo limone e rosso.
Più oltre, un quartiere moderno: ampie
strade, insegne al neon, un grattacielo di cemento
armato che appariva meno duraturo, più
deperibile delle dimore di carta velina che lo
circondavano.
- Brando
aveva terminato la telefonata. Avvicinandosi al
terrazzino, guardò me che ammiravo il
panorama. Mi domandò: «Sei stato a
Nara? È molto
interessante».
- Sì,
c'ero stato, e certo lo era. L'«antica Nara
dei vecchi tempi» - come il nostro cicerone la
chiamava - è a un'ora di macchina da Kyoto:
una città da cartolina incastonata in un
parco fiabesco. Si ha, lì, l'apoteosi del
genio giapponese capace di ipnotizzare la natura e
indurla a comportarsi in modo innaturale. Il grande
parco, tempestato di santuari, è un enorme
salone verde dove pascolano pecore, e branchi di
cervi addomesticati vagolano sotto pini ben potati
e, al pari dei piccioni veneziani, posano
volentieri con le coppie in luna di miele; dove
ragazzini tirano la barba a capre remissive; dove
vegliardi in cappa nera bordata di visone siedono
alla turca in riva a laghetti trapunti di loto e,
battendo le mani, richiamano branchi di pesci,
carpe screziate e scarlatte, grosse come trote, che
si lasciano accarezzare sul muso e poi s'ingozzano
delle briciole che i vegliardi gettano loro. Che
quell'Eden senza serpente avesse tanto affascinato
Brando era un po' sorprendente. Dato il gusto che
aveva per le cose fuori ordinanza e non troppo
agghindate avresti detto che non fosse il tipo da
estasiarsi per un paesaggio così ordinato,
così artefatto e soggiogato. POI, quasi
fosse a proposito di Nara, egli disse: «Sai,
mi piacerebbe sposarmi. Vorrei avere dei
figli». Non era forse, il non sequitur che
sembrava: la compostezza e la dolce
tranquillità di Nara poteva benissimo, per
associazione di idee, far pensare al matrimonio, a
una famiglia. «Dell'amore non puoi fare a
meno» disse. «Non c'è altra
ragione per vivere. Gli uomini non sono mica
diversi dai topi. Nascono per compiere la medesima
funzione: procreare.» («Marlon» per
citare il suo amico Elia Kazan, «è una
delle persone più delicate che io conosca.
Forse la più dolce di tutte.» Queste
parole di Kazan acquistavano un significato quando
osservavi Brando in compagnia di bambini. Per lui,
i giapponesi dell'ultima generazione - amabili,
vivaci ragazzini dalle guance di ciliegia, gambe
storte e ispidi ciuffi di capelli - erano sempre i
benvenuti intorno al set di Sayonara. Lui era molto
gentile coi bambini, a suo agio, giocherellone,
comprensivo... ben diverso dal solito Brando che ti
guarda con commiserazione, che dispensa
caritatevoli sorrisi agli adulti.)
- Accarezzando
il dono floreale di Miiko Taka, seguitò:
«Quale altro motivo c'è, per vivere? A
parte l'amore, cioè? Questo è sempre
stato il guaio principale, con me: la mia
incapacità d'amare chicchessia».
Rientrò nella stanza illuminata e si mise a
cercare qualcosa... una sigaretta? Raccattò
un pacchetto. Era vuoto. Si diede a tastare le
tasche di calzoni e giacche sparse qua e là.
Il guardaroba di Brando non è più
quello d'un teppista. In fatto di eleganza è
progredito - o regredito - verso uno stile
piuttosto retro: lo chic dei fuorilegge e degli
elegantoni all'epoca del proibizionismo: - cappello
nero di feltro, abito a rigoni, camicia scura alla
George Raft e cravatta pastello. Trovate le
sigarette, Brando tornò a sdraiarsi sul
giaciglio, fumando. Il sudore gli imperlava il
labbro. Nella stanza faceva un caldo tropicale: ci
si sarebbero potute coltivare orchidee. Al piano di
sopra i coniugi Buttons avevano ripreso il loro
trapestio, ma Brando sembrava aver perso interesse
per loro. Stava meditando. Poi, seguendo il filo
dei suoi pensieri, disse: «Non ci riesco. Ad
amare nessuno. Non riesco a fidarmi tanto di
qualcuno per fargli dono di me stesso. Ma sono
pronto. Lo desidero. E potrei. Sono quasi lì
lì. Devo proprio...». Aguzzava gli
occhi ma il suo tono, tutt'altro che intenso, era
quasi indifferente, di un'opaca obiettività,
come se stesse ragionando intorno a un personaggio
di commedia... un ruolo che non avesse alcuna
voglia di interpretare ma cui fosse legato per
contratto. «Perché... insomma, che
cos'altro c'è? È intorno a questo che
ruota tutto. Amare qualcuno.»
- (All'epoca
Brando era scapolo, ovviamente. Era stato fidanzato
un paio di volte, quasi ufficialmente. Con
l'aspirante scrittrice e attrice, a nome Blossom
Plumb; poi di nuovo - con maggior attenzione da
parte del pubblico - con la figlia di un pescatore
francese, Josanhe Mariani-Bérenger. In
nessuno dei due casi, tuttavia, si arrivò
alle pubblicazioni matrimoniali. Poi però il
mese scorso, nel corso di una improvvisa e alquanto
segreta cerimonia a Eagle Rock, in California,
Brando ha sposato una giovane attrice di pelle
bruna, avvolta in sari, nota come Anna Kashfi. Le
cronache dei giornali sono discordi: c'è chi
la dice di pura stirpe indiana, buddista, nativa di
Darjeeling nel Bengala Occidentale, mentre secondo
altri sarebbe nata a Calcutta da genitori inglesi,
a nome O'Callaghan, attualmente residenti nel
Galles. A tutt'oggi, Brando non ha fatto nulla per
chiarire il mistero.)
- «Comunque
ho degli amici. No. No, non ne ho» soggiunse,
tirando verbalmente di boxe con l'ombra. «Ma
sì, certo, ne ho» decise, detergendosi
il sudore dal labbro. «Ho un gran bel po' di
amici. Con alcuni di loro mi apro. Gli racconto
tutto. Bisogna pur fidarsi di qualcuno. Be', non
fino in fondo. Non c'è nessuno su cui faccio
pieno affidamento, da cui mi lascio
guidare.»
- Gli
chiedo se questo vale anche per i consulenti
professionali. Mi risulta, per esempio, che Brando
fa molto assegnamento sui consigli di Jay Kanter,
un giovane esponente dell'agenzia che cura i suoi
interessi, la Music Corporation of America.
«Oh, Jay...» dice Brando, lentamente.
«Jay fa come gli dico io di fare. Sono solo a
tal punto.»
- Squilla
il telefono. A quanto pare è trascorsa
un'ora, ed è di nuovo Murray.
«Sì, stiamo ancora chiacchierando»
gli dice Brando. «Senti, ti richiamo io... Oh,
fra un'oretta, circa. Ti trovo in camera tua?...
D'accordo.»
- Riagganciò
e disse: «Un bravo ragazzo. Vuole fare il
regista... da grande. Ma ti stavo dicendo qualcosa.
Parlavamo di amici. Lo sai, come mi faccio un
amico?». Si sporse un po' verso di me, come se
avesse da confidarmi un segreto divertente.
«Ci vado molto cauto. Ci giro intorno intorno.
Poi, un po' alla volta, mi avvicino. Poi allungo
una mano e li tocco... oh, piano piano...» Le
sue dita protese, muovendosi come antenne
d'insetto, mi sfiorarono il braccio.
«Poi» disse, un occhio semichiuso,
l'altro magneticamente sgranato, lucente, alla
Rasputin, «mi tiro indietro. Aspetto un po'.
Li lascio stare in forse. Al momento giusto mi
faccio di nuovo avanti. Li tocco. Gli giro
intorno.» Adesso la sua mano, semichiusa,
descrive un cerchio, come se stringesse una corda
con la quale stesse legando un'invisibile presenza.
«Loro non sanno cosa sta accadendo. Prima che
se ne rendano conto, sono presi, avvinti, avvolti.
Li ho in mano. E poi qualche volta,
improvvisamente, sono io tutto quello che hanno
loro. Molti di loro, vedi, sono persone che non si
sono mai inserite da nessuna parte: non sono
accettate, sono state ferite, menomate in un modo o
nell'altro. Ma io intendo aiutarle, e loro possono
puntare su di me: io sono il duca. Una sorta di
duca nel mio dominio.»
- (Uno
che in passato era stato vassallo nei possedimenti
ducali, descrivendone il signorotto e i suoi
sudditi, ebbe a dirmi di recente: «È
come se Brando abitasse in una casa le cui porte
non sono mai chiuse a chiave. Quando viveva a New
York, la sua porta era sempre aperta. Chiunque
poteva entrare - che Marlon fosse o non fosse in
casa e tutti quanti entravano. Tu arrivavi, e ci
trovavi una decina, una quindicina di persone che
giravano qua e là. Come fossero nella sala
d'aspetto di una stazione. Era strano, nessuno
sembrava conoscere nessuno. Certuni dormivano in
poltrona. Certi altri leggevano. Una ragazza
danzava per suo conto. Un'altra si laccava le
unghie. Un comico provava il suo numero da cabaret.
In un angolo, c'era magari qualcuno che giocava a
scacchi. E non mancava mai chi suonava il tamburo:
bam, bum, bam, bum bum! Ma non si beveva, no, non
si beveva... niente alcolici di sorta. Di tanto in
tanto, qualcuno diceva: "Andiamo giù al bar,
qui di sotto, a farci un gelato". Ebbene, era
Marlon il loro unico comune denominatore, il solo
anello che li connettesse. Lui si aggirava qua e
là, nella stanza, prendeva in disparte ora
questo ora quello, e parlava con loro a tu per tu.
Non so se l'hai notato: Marlon non parla mai con
due persone simultaneamente, non gli riesce, non
gli va. Non prende mai parte a una conversazione di
gruppo. Deve sempre essere un colloquio intimo,
tète-à-tète - una persona alla
volta. Il che si rende necessario, suppongo, se usi
lo stesso tipo di charme con ciascuno. Ma anche
quando lo sai, che è così che si
comporta con tutti, non importa. Poiché
quando arriva il tuo turno, lui ti da la sensazione
che sei tu l'unica persona presente nella stanza.
Nel mondo. Ti fa sentire che sei sotto la sua
protezione e che i tuoi guai, i tuoi stati d'animo,
lo coinvolgono, gli stanno a cuore. Devi credergli
per forza. Più di chiunque altro ch'io
conosca, lui irradia sincerità. Dopo, puoi
domandarti: "Stava recitando?". In tal caso, a che
prò? Cos'hai, tu, da dargli? Niente, tranne
- ed è questo il punto - tranne l'affetto.
Un affetto che, a lui, conferisce autorità
su di te. Certe volte me lo figuro, Marlon, come un
orfanello che, divenuto grande, cerca di risarcirsi
divenendo l'affabile direttore di un grande
orfanotrofio., anche al di fuori di questo
istituto, lui vuole che tutti lo amino».
Sebbene esistano decine di testimoni che potrebbero
contraddire tranquillamente quest'ultima
asserzione, Brando stesso ha fama di aver detto una
volta a un intervistatore: «Posso entrare in
una sala dove ci sono cento persone... e se in
mezzo a loro ce n'è una sola che non mi
vuole bene, me ne accorgo, e devo uscire di
là». A mo' di nota a pie di pagina, va
aggiunto che, in seno alla cricca da lui
presieduta, Brando è considerato sia un
padre intellettuale, sia un emotivo fratello
maggiore. La persona che forse meglio lo conosce,
il comico Wally Cox, dichiara che lui è
«un filosofo creativo, un profondissimo
pensatore». E aggiunge: «È una
vera e propria forza liberatrice, per i suoi
amici»)
- Brando
sbadigliò. Si era fatto tardi: l'una e un
quarto. Fra cinque ore - lavato, sbarbato e fatta
colazione - doveva trovarsi sul set, dove un
truccatore gli avrebbe colorito da mulatto il viso
pallido, come il technicolor richiede.
- «Fumiamoci
un'altra sigaretta» disse, quando io feci per
infilarmi il cappotto.
- «Non
sarebbe ora che andassi a letto?»
- «Questo
significa solo doversi poi alzare. Perlopiù,
la mattina non lo so mica, perché mi alzo.
Non mi va di affrontare la nuova giornata.»
Guardò il telefono, come se ricordasse la
promessa fatta a Murray di chiamarlo.
«Comunque, posso anche lavorare più
tardi. Vuoi qualcosa da bere?»
- Fuori,
le stelle si erano spente e si era messo a
piovigginare, quindi l'idea di un cicchetto mi
sorrideva, specie perché mi toccava tornare
a piedi al mio albergo, lontano un miglio dal
Miyako. Mi versai della vodka. Marlon
declinò di farmi compagnia. Però,
poi, prese il mio bicchiere e ne bevve un sorso,
quindi all'improvviso disse, in tono disinvolto,
come di sottogamba, che però tradiva molto
sentimento: «Mia madre... Mia madre
andò in pezzi come un oggetto di
porcellana».
- Avevo
spesso udito amici di Brando dire: «Marlon
adorava sua madre». Ma prima della
première di Un tram che si chiama desiderio,
nel 1947, pochi - nessuno, forse - dei suoi
colleghi avevano mai incontrato l'uno o l'altro dei
suoi genitori; né sapevano alcunché
dei suoi trascorsi, a parte quello che lui aveva
scelto di raccontare. «Marlon dipingeva sempre
un quadro molto idillico della sua vita familiare
in Illinois» ebbe a dirmi uno dei suoi
conoscenti. «Quando apprendemmo che i suoi
venivano a New York per la prima del Tram, eravamo
tutti molto curiosi. Non sapevamo cosa aspettarci.
La sera del debutto, Irene Selznick diede una festa
al Club 21. Marlon si presentò con il padre
e la madre. Ebbene, non puoi immaginare due persone
più simpatiche. Alte, belle, affascinanti.
Quel che mi fece impressione - e credo stupì
tutti quanti - fu l'atteggiamento di Marlon nei
loro confronti. In loro presenza, lui non era il
ragazzo che conoscevamo. Era un figlio modello.
Reticente, rispettoso, educatissimo, premuroso...
da non credersi.»
- Nato
a Omaha (Nebraska) dove il padre faceva il
rappresentante di materiali edili, Brando - terzo
figlio e, unico maschio - si trasferì con la
famiglia, da piccolo, a Libertyville (Illinois).
Qui, i Brando andarono ad abitare in una zona
semirurale. Perlomeno, c'era abbastanza campagna
intorno alla loro grande casa dalla pianta
irregolare, per poter tenere oche e galline e
conigli, un cavallo, un cane danese, ventotto gatti
e una mucca. Mungere la mucca era, ogni giorno,
compito di Bud - come allora Marlon era
soprannominato. Pare che Bud fosse un ragazzo
estroverso e competitivo. Chiunque entrasse nella
sua orbita era sfidato a qualche gara: chi mangia
più svelto? chi riesce a trattenere il fiato
più a lungo? chi la conta più grossa?
E poi era un ribelle, Bud: pioggia o sole, scappava
di casa ogni domenica. Sia lui sia le sorelle
Frances e Jocelyn, erano molto attaccati alla
madre. Molti anni più tardi, Stella Adler,
insegnante di recitazione di Brando,
descriverà la signora Brando, morta nel
1954, come «una creatura bellissima,
celestiale, smarrita, fanciullesca». Per tutta
la vita, la signora Brando recitò in varie
compagnie di filodrammatici, e sempre avrebbe
aspirato a teatri più prestigiosi di quelli
le cui scene calcava in provincia. Tale aspirazione
fu di sprone ai figli. Frances si dedicò
alla pittura, Jocelyn al teatro: attualmente
è un'attrice professionista. Anche Bud aveva
ereditato dalla madre la passione per il teatro;
sennonché a diciassette anni annunciò
che voleva studiare da pastore protestante.
(Allora, come oggi, Brando era alla ricerca di una
fede. Come ebbe a dire uno dei suoi discepoli:
«Ha bisogno di trovare qualche punto fermo
nella vita, come pure in se stesso, qualcosa che
sia vero in perpetuo, qualcosa cui dedicare
l'intera esistenza. Niente, al di sotto di
ciò, può fare al caso di una
personalità tanto intensa».) Dissuaso
da quelle ambizioni ecclesiastiche, espulso da
scuola, escluso dal servizio militare nel 1942 per
via di un difetto al ginocchio, Brando fece i
bagagli e andò a New York. Qui Bud, il
grassoccio infelice adolescente dai capelli di
stoppa, esce di scena, e viene alla ribalta Marlon,
un adulto molto dotato.
- Brando
non ha dimenticato Bud. Quando parla del ragazzo
che era lui, il ragazzo sembra abitarlo... come se
ben poco avesse fatto, il tempo, per separare
l'uomo dal fanciullo ferito, sognatore: «Mio
padre ha sempre dimostrato indifferenza, verso di
me» dice. «Nulla di ciò che io
facessi suscitava il suo interesse, il suo
compiacimento. Adesso l'ho accettato, questo. Siamo
amici, adesso. Andiamo d'accordo.» Da una
decina d'anni, Brando padre gestisce gli affari
finanziari del figlio. Oltre alla Pennebaker
Production, di cui Brando senior è un
impiegato, hanno avviato insieme numerose imprese,
fra cui un'azienda agricola nel Nebraska, nella
quale Brando junior ha investito una grossa
porzione dei suoi guadagni. «Ma mia madre era
tutto per me. Un mondo intero.
- Io
ce la mettevo tutta. Certe volte tornavo a casa da
scuola...». Esitò, come se aspettasse
che io me lo raffigurassi: Bud, coi libri
sottobraccio, che scarpina per una strada, di
pomeriggio. «Ma a casa non c'era nessuno.
Niente nel frigorifero.» Altri fotogrammi di
lanterna magica: una stanza vuota, una cucina.
«Poi squillava il telefono. Era qualcuno che
chiamava da un bar. E diceva: «C'è qui
una signora... Dovreste venire a prenderla,»
All'improvviso Brando si azzittì. Nel
silenzio il fotogramma divenne fisso: Bud al
telefono. Finalmente un'altra immagine seguì
a quella, compiendo un balzo in avanti nel tempo.
Bud ha diciotto anni. E racconta: «Pensavo
che, se lei mi amava abbastanza, se aveva
abbastanza fiducia in me, pensavo, allora si
potrebbe stare insieme, qui a New York, Potremmo
abitare insieme e io mi prenderei cura di lei. In
seguito, questo accadde sul serio. Lei
lasciò mio padre e venne a stare con me, a
New York. Io recitavo in un teatro. Ce la mettevo
tutta. Ma il mio amore non era abbastanza. Lei non
mi voleva abbastanza bene. Tornò dal marito.
E poi un giorno» - la sua voce si fece ancor
più piatta, e, tuttavia, il timbro emotivo
divenne più marcato, tanto che si poteva
cogliere, come un suono dentro un suono, un
accorato sgomento - «non me n'importava
più. Lei era là... in una stanza... e
si aggrappava a me. E io la lasciai cadere.
Perché non ne potevo più... Vederla
andare in pezzi, di fronte a me, come un oggetto di
porcellana. Le passai sopra, la scavalcai e via, me
ne andai, uscii dalla stanza. Ero indifferente. Da
allora, sono sempre stato
indifferente».
- Il
telefono stava squillando. Quegli squilli parvero
destarlo dal dormiveglia. Si guardò intorno,
come se si fosse svegliato in una stanza
sconosciuta, poi fece una smorfia, un abbozzo di
sorriso e sussurrò: «Accidenti,
accidenti...» mentre allungava una mano verso
il telefono. «Mi dispiace» disse a
Murray, «Stavo giusto per telefonarti... No,
se ne sta andando adesso. Ma, senti, lasciamo
perdere per stasera. È l'una passata. Quasi
le due... Sì... Senz'altro. Domani.»
Frattanto, io mi ero messo il cappotto e aspettavo
per dargli la buonanotte. Brando mi
accompagnò alla porta, dove mi rimisi le
scarpe. «Allora, sayonara» mi disse
scherzosamente. «Digli, in portineria, di
chiamarti un taxi.» Poi, mentre mi allontanavo
nel corridoio, mi gridò dietro: «Ah,
senti. Non prestar troppa attenzione a quello che
dico. Io non sempre la penso alla stessa
maniera».
- In
un certo senso, non fu l'ultima volta che, quella
sera, lo vidi. Scesi da basso. L'atrio del Miyako
era deserto. Non c'era nessuno in portineria.
Né, lì fuori, c'erano taxi in vista.
Persine in pieno giorno, mi ero smarrito per le
strade di Kyoto. Tuttavia mi avviai a piedi sotto
una stizzosa, fredda pioggerella, sperando di aver
imbroccato la giusta direzione. Mai mi ero trovato
in giro per la città a così tarda
ora. Forte era il contrasto con le ore diurne -
quando il centro della città, percorso da
folle festanti, risuona come una sala da pachinko e
con l'atmosfera di prima sera, il momento
più magico di Kyoto, allorché, simili
a fiori notturni, le lanterne inghirlandano le
stradine secondarie, e risplendenti gheisce - con
facce di ceramica bianca ed enormi parrucche
laccate tempestate di campanellini d'argento, a
passettini saltellanti - si recano, fra il lusco e
il brusco, alle loro meticolosamente raffinate
baldorie. Ma alle due di notte tutti questi
squisiti grotteschi sono scomparsi, i cabaret hanno
chiuso i battenti. Erano rimasti soltanto i gatti a
tenermi compagnia, oltre agli ubriachi e alle dame
del quartiere a luci rosse, gli inevitabili
senzatetto accovacciati negli androni, e, per un
breve tratto, un cencioso suonatore ambulante che
mi seguì suonando col flauto una musichetta
medievale. Avevo scarpinato per oltre un miglio
quando, finalmente, da un ennesimo vicoletto,
sbucai nel centralissimo quartiere dei grandi
magazzini e dei cinematografi. Fu allora che rividi
Brando. Alto una ventina di metri, con un testone
grande come quello del più enorme dei
Buddha, eccolo là - a colori da giornalino a
fumetti - su un manifesto che, sopra l'ingresso di
un cinema, reclamizzava La Casa da tè della
luna d'agosto. Piuttosto simile a Buddha era,
inoltre, la sua posa, poiché era stato
ritratto seduto alla turca, con un sorriso sereno
sul volto che luccicava nella pioggia al riverbero
di un lampione. Una divinità, sì; ma,
più che altro, veramente, soltanto un
giovanotto che siede sopra un mucchio di
dolciumi.
-
-
-
-
Truman
Capote
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