-
-
-
- Cinquecento
anni fa l'Italia entrava trionfalmente nel XVI
secolo. Fu l'epoca della Rinascenza, come
riconobbero già molti contemporanei, come
esplicitamente dichiarò il Vasari nelle sue
"Vite"; epoca maturata lentamente, sin da quando
Dante indicava in Virgilio il suo maestro di
eloquenza e bello stile; da quando Petrarca
ritrovava le lettere di Cicerone, sepolte da secoli
e polvere, aprendo la fase eroica della riscoperta
dei classici e riscrivendo le sue epistole sul
modello del grande romano; da quando Boccaccio
raccoglieva intorno a sé giovani
intellettuali formando un primo nucleo di quella
"res publica literarum", ideale repubblica di
intelligenze cui sentivano di aderire tutti gli
umanisti del primo Quattrocento. L'epoca in cui
Pico della Mirandola scriveva: "Non ti ho dato, o
Adamo, né un posto determinato né un
aspetto proprio né alcuna prerogativa tua
perché quel posto, quell'aspetto e quelle
prerogative che tu desidererai, tutto secondo il
tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. Ti
posi nel mezzo del mondo perché di là
meglio tu scorgessi tutto ciò che è
nel mondo. Non ti ho fatto né celeste
né terreno, né mortale né
immortale, perché di te stesso quasi libero
e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi
nella forma che avresti prescelto". E se è
vero che in quest'appassionato cantico della
centralità dell'uomo nel cosmo si avverte
già una distanza rispetto all'umanesimo
civile dei primi fiorentini (si pensi a un Coluccio
Salutati, a un Poggio Bracciolini, a un Leon
Battista Albert, tutti impegnati nella costruzione
di un tipo umano il cui contesto naturale era la
città, le istituzioni comunali, la vita
associata, il "fare masserizia" come segno di
supreme saggezza e fermezza) è altrettanto
vero che da secoli nessuno aveva parlato della
dignità dell'uomo con toni così alti.
Per questo vivissima era la coscienza di una
rottura rispetto al "buio" Medioevo, e la
pregiudiziale negativa su questi mille anni di
storia - resa ancora più evidente dallo
stesso nome, quasi un epiteto, attribuitogli:
età di mezzo, di transizione, niente
più che un lunghissimo purgatorio che
separava la luminosa chiarezza della
classicità dall'Uomo ritrovato nel XV secolo
- peserà a lungo, soprattutto in epoche come
l'Illuminismo che ai medesimi ideali di equilibrio,
razionalità e dignità consapevolmente
si riallacciavano.
- Rinascita
dell'uomo, dunque: che trova il suo epicentro, per
una singolarissima e irripetibile coincidenza di
uomini e contingenze storiche, prima nei comuni e
poi nelle corti delle città italiane (da cui
poi si irradierà in tutta Europa): luoghi di
raffinata cultura e di orgoglio municipale, di
elaborazione di altissimi ideali e di appetiti
territoriali sfrenati; qui e ora comincia quella
"ruina d'Italia" che sarà al centro delle
meditazioni politiche di Machiavelli, che con acre
ironia dimostrerà l'insania dei principi
italiani, i quali pensavano - scriveva il
fiorentino - che per conservare il proprio potere
fosse sufficiente scrivere bei versi e ammirare bei
quadri.
- E intanto
l'Italia si avviava a diventare mira di nuovi
appetiti, stranieri questa volta: e per tutta la
prima metà del Cinquecento - con al centro
quel 1527, anno del sacco di Roma, che
mostrò al di là di ogni ragionevole
dubbio la debolezza non solo dello Stato Pontificio
ma dell'intera penisola - eserciti imperiali,
francesi, svizzeri, spagnoli la percorsero in tutte
le direzioni, devastando e saccheggiando; e intanto
Raffaello lavora alle "Stanze", Michelangelo
affresca la volta della Sistina, Ariosto scrive
l'"Orlando Furioso", Leonardo è a Milano,
intento all'"Ultima cena"; e poi Bembo definisce il
modello petrarchesco e forma il canone della volgar
lingua, Tiziano è a Venezia e Baldesar
Castiglione compone il "Cortegiano", dove viene
fissato un altro modello di intellettuale, molto
diverso da quello civilmente impegnato cui
attendevano i fiorentini di quasi un secolo
prima.
- Chi è
il cortigiano del Castiglione? Un nobiluomo,
innanzi tutto (e già si misura in anni luce
la distanza con le posizioni del primo umanesimo,
dove alla nobilità del sangue si anteponeva
quella dell'animo) che vive alla corte del
principe, che non deve avere tanto a cuore le
"humanae litterae" quanto la piacevolezza del dire,
l'eleganza dell'abbigliamento, l'abilità
della spada; che lungi dal poter incidere realmente
sulla gestione della cosa pubblica, o sulle
decisioni politiche, deve tuttavia cercare di
guadagnarsi in virtù delle sue molteplici
qualità cortigiane la fiducia del principe,
orientandolo verso il bene: strenuo tentativo di
dare ancora un senso civile e civico alla figura
dell'intellettuale, che le vicende storiche portano
fatalmente, invece, a essere il damerino vuoto e
fatuo che troverà la sua più compiuta
teorizzazione nel cronologicamente di poco
successivo "Galateo" di Monsignor della Casa: dove
l'eleganza, da fatto esornativo, diventa l'essenza
stessa dell'essere cortigiano.
- Abbiamo
parlato sin qui di uomini e cortigiani; e le donne?
Diciamo subito che il Cinquecento italiano, tra
l'altro, è il secolo delle poetesse: se ne
contano nel volgere di cento anni più di
quante non ne abbia conosciuto l'intera storia
della letteratura, forse mondiale, sino a quel
momento. Il Cinquecento, infatti, è anche il
secolo di Vittoria Colonna, Veronica Gambara,
Gaspara Stampa, Veronica Franco, Tullia d'Aragona,
e molte, moltissime altre. Parecchie di loro
furono, oltre che poetesse, cortigiane.
L'aggettivo, declinato al femminile, assume
nell'Italia del Cinquecento significato tutto
particolare che pure va subito esplicitato:
cortigiane, infatti, non sono più le dame di
compagnia, le accompagnatrici addette alla corte
dei principi, che difatti d'ora in poi saranno
chiamate "dame di corte", ma le
prostitute.
- E' vero che
nel suo "Cortegiano" il Castiglione dedica un
intero libro, il terzo, alla descrizione della dama
di corte; ed è altrettanto vero che in
realtà tutto il "Cortegiano"mal ruota
attorno alla figura delle due nobildonne, la
duchessa e la sua dama di compagnia, che
distribuiscono i ruoli agli illustri interlocutori,
interrompono gli oratori troppo prolissi o noiosi,
insomma conducono il gioco; ma il ritratto della
donna che ne emerge è quello di una creatura
gentile che, in fin dei conti, deve saper stare al
suo posto (inferiore) poiché ciò che
le si addice non è la "virilità soda
e ferma" dell'uomo bensì una "tenerezza
molle e delicata" grazie alla quale coltivare
nozioni di letteratura, musica e pittura, tali da
renderla una piacevole conversatrice da salotto; il
salotto, beninteso, della sua casa di donna
maritata, dove è opportunamente controllata
da stuoli di servitori e da cui non esce se non
debitamente accompagnata (e quindi ancora una volta
controllata).
- Le donne al
centro di tutta la lirica d'amore del secolo, di
tutti i sonetti dei poeti petrarchisti, sono quindi
assai più creature idealizzate (non
diversamente da quello che accadeva alle dame dei
trovatori di Provenza di quattro secoli prima) che
non esseri reali, vivi e veri. Le donne, insomma,
non conoscono reali progressi nella loro condizione
rispetto alle mamme e alle nonne dei decenni
precedenti, salvo nel caso di alcune rare fortunate
dalla nascita nobilissima (si pensi a una Lucrezia
Borgia, ad esempio); d'altro canto, le donne di
umili o modeste origini restano e resteranno
totalmente escluse dalla storia, relegate nel fondo
delle vite dei loro padri e mariti, inchiodate alle
fatiche domestiche e ignote quasi a loro stesse.
Tranne alcune: giovani di grande bellezza e di
ancora più grande intelligenza che con il
solo ausilio di queste due virtù riescono a
strapparsi i cenci di dosso, ad avere sontuose
dimore e corteggiatori galanti e generosi, con
tutto ciò che di ambiguo e pericoloso questo
comporta. Sono, per l'appunto, le cortigiane; le
quali, complice la quasi totale assenza delle donne
di rango dalla vita pubblica (dove compaiono solo
in particolari occasioni e, come si diceva, mai
sole e libere di intrattenersi con gli uomini)
conducono treni di vita talvolta assai lussuosi,
ricevono nobili e artisti in salotti raffinati ed
elegantemente licenziosi, stabiliscono relazioni
con le personalità più in
vista.
- La più
celebre? Imperia, nome d'arte della bella romana
Lucrezia, a sua volta figlia di una cortigiana e di
un esponente tanto importante quanto anonimo della
curia pontificia, che si suicida come una Monroe
ante-litteram nel 1512 (forse per amore, forse per
dolore), all'apice della fortuna e della bellezza:
dopo la sua morte Giulio II, il papa guerriero, le
accorda la benedizione e l'assoluzione da tutti i
peccati, consente a che venga seppellita in una
cappella della chiesa di San Gregorio; Agostino
Chigi, ricchissimo banchiere e mecenate e suo
entusiastico ammiratore, le fa erigere un
monumento.
- Un'altra
eroina della cortigianeria? La già ricordata
Veronica Franco, veneziana di nascita borghese, che
tra i suoi corteggiatori conta Marco Venier (di
antica e potente famiglia) e a un certo punto della
sua carriera sfida a un duello all'arma bianca
l'anonimo autore di certe poesie nelle quali veniva
pesantemente insultata per poi, una volta scoperto
l'autore delle offese, dedicargli duecentotto versi
che iniziano con un'ammonizione che riprende una
norma precisa del galateo cortese: "di ardito
cavalier non è prodezza" colpire una donna.
Nel 1574 Veronica riceve nel suo salotto, in un
incontro coperto dal massimo riserbo che tuttavia -
o forse proprio per questo - desta il massimo
scalpore, Enrico di Valois, figlio di Caterina de'
Medici in procinto di ricevere la corona di
Francia: Enrico riparte da Venezia con un ritratto
in smalto della bella ospite, la quale lo ringrazia
delle attenzioni ricevute nel modo che le è
più congeniale, cioè dedicandogli due
sonetti. La poesia non è l'unico ambito in
cui si manifesta l'amore di Veronica per la
letteratura e l'arte: sue sono anche numerose
epistole, da lei stessa date alle stampe nel 1580
ricevendone parecchi apprezzamenti, dove tra
l'altro si legge: "io sono tanto vaga e con tanto
mio diletto converso con coloro che sanno, per aver
occasione ancora d'imparare, che, se la mia fortuna
il comportasse, io farei tutta la mia vita e
spenderei tutto l'mio tempo dolcemente
nell'accademia degli uomini virtuosi". Difficile
immaginare che si tratti solo di vanagloria, o
desiderio di compiacere i colti corteggiatori:
più verosimile invece pensare che Veronica
abbia trovato nel mestiere più antico del
mondo l'unica strada che le offrisse, a lei di
oscuri natali, la possibilità di dedicarsi
ai piaceri dello spirito. Non disgiunti, peraltro,
da quelli della carne, di cui verseggia senza
mercenaria licenziosità ma con un fondo
realistico che costituisce la sua
peculiarità rispetto all'imperante maniera
petrarchesca. A un corteggiatore, ad esempio,
scrive versi che sono un sussurro e una promessa:
"Certe proprietadi in me nascose / vi
scovrirò d'infinita dolcezza, / che prosa o
verso altrui mai non espose [...] /
Così dolce e gustevole divento / quando mi
trovo con persona in letto, / da cui amata e
gradita mi sento / che quel mio piacer vince ogni
diletto / sì che quel che strettissimo
parea, / nodo de l'altrui amor divien più
stretto". Libera poesia di libero amore, vien da
pensare; allo stesso modo che per i versi dedicati
a un uomo di religione, amore non ricambiato di
gioventù, cui Veronica dedica in età
più matura un capitolo in terza rima dove
sogna che quella passione possa tramutarsi in una
serena amicizia non completamente dimentica del
"folle amore" passato: schiettezza, testimonianza
di vita e buona disciplina letteraria sono dunque
gli ingredienti principali delle poesie di Veronica
Franco, tanto legata alla sua città da
dedicarle versi di liquida, mesta bellezza: "l'alma
cittade / del mar reina, in mezzo 'l mar assisa /
a' cui pie' l'acqua giunta umile cade / e per
diverso e tortuoso calle / s'insinua a lei per
infinite strade".
- Imperia e
Veronica, Roma e Venezia: capitali, secondo
più di uno storico, non solo di importanti
stati italiani ma anche del mondo cortigiano. A
Roma la preponderanza dell'elemento maschile su
quello femminile (in primo luogo per l'altissima
presenza di prelati, com'è noto non
così osservanti del voto di castità
in particolare prima della Controriforma; in
secondo luogo per l'altrettanto cospicua presenza
di personale variamente aggregato alla curia) e le
grandi ricchezze che vi si riversano da tutta la
Cristianità determinano naturalmente e
inevitabilmente l'aumento della prostituzione; a
Venezia, Serenissima fastosa e mondana, centro
cosmopolita e ricchissimo che ancora non avverte (o
solo in minima parte) i contraccolpi dell'apertura
delle nuove rotte atlantiche, complice un decreto
che chiude il Castelletto dove fino al 1498 le
donne di vita erano rinchiuse, esse sciamano in
città, attirate come a Roma da una vita
ricca e gaudente.
- Ma per una
Imperia e una Veronica, cortigiane "oneste" secondo
la terminologia del tempo, mille e forse più
ce ne sono che, come scriveva l'Aretino, "muoiono
nell'ospedale": sono le cortigiane "da lume", che
esercitano la loro professione in sordidi
retrobottega e finiscono i loro giorni miseramente,
spesso a causa di quel "mal francese" che proprio
nel Cinquecento comincia a mietere le sue prime
vittime; di una di queste ha lasciato una grottesca
descrizione Machiavelli, che indugia sullo
squallido aspetto della poveretta (della quale,
peraltro, non aveva disdegnato di fare l'uso cui la
donna si destinava): "li ochi haveva - scriveva
Machiavelli all'amico Luigi Guicciardini - uno
basso et uno alto, et uno era maggiore che l'altro,
piene le lagrimatoie di cispa et e' nipitelli
dipilicciati; il naso li era conficto sotto la
testa aricciato in su, e l'una delle nari tagliata,
piene di mocci; la bocca somigliava a quella di
Lorenzo de' Medici, ma era torta da un lato e da
quello n'uisciva un poco di bava, ché per
non havere denti non poteva ritenere la sciliva;
nel labbro di sopra haveva la barba lunghetta, ma
rara" e via di questo passo per parecchie righe.
Era il rovescio della medaglia dello scintillante
mondo delle cortigiane "oneste", la fine straziante
di quelle che non ce l'avevano fatta, spesso
vittime delle violenze e degli inganni che
quotidianamente minacciavano la vita di tutte le
donne che praticavano il mestiere.
- Il "divino",
come lo chiamò l'Ariosto, Pietro Aretino,
ricattatore e verseggiatore geniale che non a caso
dimorò a lungo sia a Roma che a Venezia,
alle cortigiane dedicò i suoi celebri
"Ragionamenti", ovvero il dialogo tra la cortigiana
Nanna e la figlia Pippa, che viene istruita
sull'arte della prostituzione. Da un certo punto di
vista i "Ragionamenti" rientrano a pieno titolo
nella trattastica del tempo: non solo sono in forma
dialogica ma in più si occupano, tutto
sommato, di "formazione umana": così come il
Castiglione delineava il tipo umano del cortigiano,
allo stesso modo l'Aretino, per bocca della Nanna,
fornisce precise istruzioni sulla teoria e la
pratica dell'arte cortigiana, dai mille trucchi e
imbroglio necessari alla prostituta per ricavare
dal cliente il meglio in cambio del meno possibile,
alle altrettante insidie da cui la vera
professionista si deve guardare per conservare i
suoi "beni al sole" e il suo buon nome. Il
risultato è un quadro spietatamente
realistico dei costumi del tempo, dove l'indulgenza
al riso licenzioso e alla vera e propria
oscenità si mescolano alla feroce irrisione
dell'ipocrita moralità di una società
che condanna la prostituzione ma al tempo stesso la
crea e la incentiva. Che l'Aretino abbia fatto
dell'oscenità e della maldicenza la cifra
prima della sua attività poetica, del resto,
è cosa nota: dai famosi "Sonetti lussuriosi"
ispirati a sedici licenziose incisioni che
circolavano a Roma intorno al 1520 (un esempio?
"Marte, maledettissimo poltrone! / Così
sotto una donna non si reca, / e non si fotte
Venere alla cieca, / Con molta furia e poca
discretione. / - Io non son Marte, io son Hercol
Rangone / e fotto voi, che sete Angela Greca" dove,
tra l'altro, si noti il più che preciso
riferimento a un nobile signore dell'epoca e a una
cortigiana altrettanto nota) alle invettive
scagliate contro le donne più venerate del
tempo, entrambe poetesse: Veronica Gambara a
Vittoria Colonna. La prima definita "meretrice
laureata", la seconda derisa perché - diceva
l'Aretino - usava la poesia per consolarsi del suo
vuoto letto di vedova.
- I versi di
queste due poetesse di nobile nascita, cui unanime
andò il plauso dei contemporanei, sono stati
di recente almeno in parte ridimensionati dalla
critica quanto ai contenuti, rimanendo inalterato
il giudizio sulla qualità stilistica che le
fa rientrare a buon diritto nel novero delle
migliori prove della poesia petrarchista. Per
Vittoria Colonna in particolare, la mistica amica
di Michelangelo cantata dall'artista come creatura
superiore, è stato notato come l'alto
idealismo e la forte vocazione all'apostolato
(visse infatti a lungo in conventi dove si ritirava
per bisogno di raccoglimento religioso) limitino
fortemente l'espressione autentica dei moti
dell'animo; mentre alla Gambara si riconosce una
maggiore eleganza e facilità del verso, che
pure resta privo di sensibilità
profonda.
- Qualità
che invece vengono riconosciute a un'altra poetessa
del Cinquecento, che secondo alcuni è anche
la maggiore poetessa italiana in assoluto: quella
Gaspara Stampa dalla vita misteriosa su cui schiere
di storici si sono accaniti per dimostrarne o
smentirne l'appartenenza alla schiera delle
cortigiane "oneste"; quella Gaspara Stampa che
visse a Venezia nello stesso periodo dell'Aretino
ma che dalla maldicenza di questi scampò per
misteriosi motivi (da viva, almeno; perché
dopo la morte anche a Venezia circolarono rime
anonime, da qualcuno attribuite proprio
all'Aretino, dove la giovane veniva messa alla
gogna); quella Gaspara Stampa di cui D'Annunzio
dirà: conosco un verso sublime di questa
donna, "vivere ardendo e non sentire il male" (con
procedimento consueto all'Immaginifico, che
estraeva cammei dalle poesie altrui, isolandoli dal
contesto per volgerli ai propri fini).
- Vale la pena
conoscerla più da vicino, questa donna.
Impresa non facile, data la scarsità di
notizie certe disponibili. Gaspara, Gasparina per
gli intimi, nasce a Padova nel 1523. Il padre
è un gioielliere agiato che desidera per lei
e per gli altri due figli, un maschio e una
femmina, un'educazione raffinata: giovanissima
comincia a studiare musica e metrica. Ma il padre
muore presto, e la madre Cecilia si trasferisce con
i figli a Venezia, decisa ad assicurare loro
l'educazione iniziata sotto la guida paterna. Come
la famiglia Stampa viva a Venezia è materia
di congettura: di certo si sa che il loro salotto
era aperto e ben frequentato, cosa che contrasta
singolarmente con le modeste sostanze dichiarate
sotto giuramento da Cecilia nel 1544; forse
vivevano della generosità degli amici, forse
la generosità non era del tutto gratuita.
Gaspara e la sorella Cassandra, cui precocemente
muore anche il fratello Baldassarre, poeta egli
pure, erano graziose, ben educate, colte e
raffinate; la loro conversazione era scintillante,
la loro musica apprezzata da intenditori. Presto la
fama di Gaspara supera quella di Cassandra:
è chiamata "musica eccellente", si
infittiscono opere letterarie a lei dedicate,
è cantata come donna bellissima. E' nel
pieno della giovinezza e della fama quando, nel
1548, conosce l'uomo che amerà
appassionatamente e a cui dedicherà il suo
"Canzoniere": il conte Collaltino di Collalto,
giovane patrizio molto compiaciuto dei suoi capelli
biondi e della sua prestanza fisica, molto
impegnato a seguire le armate di Enrico II di
Francia, di cui è capitano, molto spesso
lontano da Venezia. La relazione dura tre anni
durante i quali, a differenza dell'amato, Gaspara
non si sposta dalla Serenissima; ma la sua fama
cresce, e anche la sua consapevolezza di poetessa.
I versi del suo canzoniere seguono questa vicenda
con espressioni di autenticità appena
mitigate dai dettami della maniera petrarchista: la
poetessa indaga ed esprime tutti i moti del suo
cuore, dalla pienezza di un amore vissuto (e non
solo sognato o idealizzato fino alle platoniche
astrazioni religiose) al timore di perdere la sua
felicità, timore che pure accetta
perché in esso avverte molecole di
felicità; d'altro canto, nell'accorgersi del
proprio valore di poetessa assegna al conte il
merito di tanta creatività, ma non manca di
pensare alla gloria che le può derivare dal
suo stile, che è frutto solo del suo ingegno
e del suo cuore: con il rattenuto orgoglio della
donna che per convenzione sociale sa di non potersi
esporre troppo (alle donne si richiedeva, come
sappiamo, soprattutto delicatezza e discrezione) ma
al contempo ha forza abbastanza per rivendicare a
se stessa quella centralità e dignità
di cui parlavano gli intellettuali del
Rinascimento. Collalto finisce con lo sposare una
donna del suo rango, e Gaspara è sola, ma
non per molto: di nuovo s'accende d'amore per un
altro veneziano del quale si conosce solo il nome:
Bartolomeo Zen; l'inizio della relazione è
segnato da uno dei sonetti più celebri del
canzoniere, "Amor m'ha fatto tal ch'io vivo in
foco". La breve vita della donna, però,
è giunta alla fine: nel 1554 muore. Un
documento la dice affetta dal "mal di madre", e
anche su questo dato biografi e storici si sono
scatenati: chi la vuole morta di parto, chi per un
aborto, chi di appendicite. Chi lo sa; del resto,
l'ultimo anno di vita di Gaspara è di
silenzio poetico, e nulla è dato sapere
dalla sua penna. Quel che si sa è che la sua
non fu, comunque la si voglia intendere -
cioè cortigiana sì o cortigiana no -
una condizione facile. Venezia era certamente una
città unica dove confluivano e si
tolleravano perseguitati, fuoriusciti politici,
persone dal dubbio passato provenienti da ogni
Stato: ma tanta tolleranza riguardava
esclusivamente gli uomini. Le donne, stabiliva la
Serenissima, o vivevano coi mariti o erano
meretrici. Che dire allora di questa donna giovane,
bella, intelligente e sola? Che la sua era quanto
meno una situazione da irregolare, nella quale le
lodi potevano confinare pericolosamente con la
pubblica condanna, o peggio; e che la sua
libertà, voluta e patita al tempo stesso,
trovava nella dimensione amorosa il terreno
più sicuro (perché consacrato dalla
lirica d'amore del tempo) e allo stesso tempo
più pericoloso (per la sua solitudine
così spericolata) per esprimersi: come dire
che la sua condizione esistenziale, che era quasi
un ossimoro, trovava il suo necessario
corrispettivo nel "dolce fuoco" dell'amore.
Condizione, comunque, che accomuna molte tra le
poetesse del Cinquecento; soprattutto quelle, le
cortigiane "oneste", che sperimentavano una
libertà nuova con il coraggio delle
pioniere, e con i loro versi e la loro vita
testimoniavano la volontà di essere
protagoniste vive, fatte di carne e sangue, di
quell'amore che, nei versi dei loro colleghi
uomini, le idealizzava: cioè, di fatto,
ancora una volta le emarginava dalla vita
vera.
-
- Olivia
Trioschi
-
|