-
-
- Stavolta
partiamo da lontano. Ce lo impone, in qualche modo, il
titolo scelto, solo apparentemente facile. Se diciamo
"lirica moderna", infatti, tutti pensiamo a poeti come
Baudelaire, Pascoli, Montale... Che sono poeti non
solo cronologicamente distanti ma anche diversi per
scelte contenutistiche e formali. Che cosa allora, a
intuito, ce li fa raccogliere sotto un'unica
definizione di genere - lirica - e un'unica
indicazione cronologica - moderna? Avvertiamo che
c'è qualcosa che li rende simili, e questo
qualcosa ora cercheremo di individuare. Iniziando da
una riflessione generale che ci porta, per l'appunto,
molto indietro nel tempo.
- Che
cos'è il genere? Se ci pensiamo un po',
probabilmente ci vengono in mente esempi come il
thriller oppure il romanzo rosa, riferiti cioè
alla produzione cinematografica e a quella letteraria,
diciamo così, bassa. Eppure la riflessione
sulla letteratura ha prodotto, nei secoli passati,
innumerevoli pagine sul concetto di genere: che era
una categoria ben precisa entro la quale potevano, o
meglio dovevano, essere raccolte tutte le opere che
rispondevano a una codificazione normativa rigida; il
genere, pertanto, presupponeva l'esistenza di un
modello cui uniformarsi, secondo il principio classico
che gli scrittori antichi avevano raggiunto la
perfezione nelle forme di espressione
artistica.
- Fermiamoci
un attimo. Abbiamo messo insieme due parole importanti
della storia letteraria: genere e classico. Abbiamo
intuito che c'è un legame profondo tra le due,
legame che nasce nel momento in cui il genere diventa
un insieme di norme, un dettato scrupoloso - una sorta
di legislazione insomma: è ovvio, a questo
punto, che ci deve essere qualcuno che detta le
regole. E questo qualcuno, soprattutto da noi, in
Italia, non può essere altro che un autore
della classicità. Sentiamo a questo proposito
cosa diceva Aulo Gellio, erudito del II secolo che, a
quanto risulta finora, è l'"inventore" della
parola "classico". Ebbene, classicus secondo Aulo
è l'autore non proletarius (il latino, qui,
è talmente simile al nostro italiano da
tradursi da sé). Cosa c'entra, direte voi.
Stiamo parlando di letteratura, non di classi sociali.
E invece c'entra eccome. Non dimentichiamo che a volte
i nomi sono davvero conseguenza delle cose: un po' di
sana etimologia, senza cadere ovviamente nei
bizantinismi medievali, non fa mai male. Classicus,
infatti, è aggettivo derivato da classis,
cioè la prima delle sei classi in cui erano
divisi i cittadini romani: quella dei più
ricchi; va da sé che la classe dei proletari
(cioè di coloro che avevano solo la prole e
nient'altro) era la sesta: l'ultima, la più
numerosa, la più povera. Allora dire classicus,
per Aulo, equivale a dire autore "di prima classe". A
questo giudizio di eccellenza si accompagna quello di
esemplarità: un autore di prima classe non
potrà non essere un modello per gli altri,
quelli che vengono dopo di lui. Resta poi da
intendersi su cosa faccia sì che un autore sia
considerato di "prima classe". E qui ci viene in
soccorso un altro e ben più famoso romano.
Orazio, nella sua Arte poetica, elencava una serie di
requisiti indispensabili alla vera opera d'arte
letteraria, riassumibili in una nota formula:
equilibrio armonico e razionale. Ecco quel che fa la
differenza tra uno scrittore qualsiasi e uno scrittore
di prima classe, tra un classico e uno che classico
non è. Alla base del concetto di genere,
dunque, come di quello di classico, c'è il
principio dell'imitazione di un modello. Ed è a
questo principio che si ispireranno per secoli
intellettuali e artisti sforzandosi di individuare
modelli - che, semplificando sommariamente, resteranno
sempre quelli della classicità cui si
aggiungerà successivamente la "triplice" del
nostro Medioevo: Dante e ancor più Petrarca per
la lirica e Boccaccio per la prosa - di "prima classe"
che dessero corpo a quegli ideali di equilibrio,
armonia, misura individuati come costitutivi dell'arte
degna di essere imitata.
- Imitazione
è un'altra parola chiave: Orazio, e prima di
lui Platone e Aristotele, avevano indicato non solo
come l'autore doveva esprimersi, ma anche cosa doveva
dire, e anche questo cosa dire si può
riassumere - non in una formula ma in una parola:
l'uomo. Dire l'uomo significa esprimere nell'opera
d'arte la complessità della dimensione umana e
della sua storia. Marziale, nel I secolo, affermava
orgogliosamente che la sua pagina "sapeva" di uomo.
L'arte classica, dunque, non vuole essere solo
perfezione formale (con il non necessario ma
storicamente decisivo corollario di norme e
prescrizioni) ma anche riflesso e trascrizione della
vicenda umana con le sue molteplici implicazioni di
tipo esistenziale, passionale, filosofico, mistico,
religioso...
- Facciamo
un brusco salto in avanti. Sentire il titolo Arte
poetica avrà forse fatto drizzare le orecchie a
qualcuno. Non c'è un'altra Arte poetica, molto
più recente, in versi, di un signore che si
chiamava Verlaine? Come no. E sentite quel che dice:
"nulla è meglio della canzone grigia / dove
l'indeciso al preciso si sposa; e ancora: preferisci
il ritmo impari / più vago e più
solubile nell'aria / senza nulla che pesi o che posi".
Siamo un po' lontani dall'equilibrio e dalla misura
delle forme prescritti dalla classicità, non
è vero? Come mai questo poeta osava dichiarare
cose tanto irregolari, quando ancora nel secolo
precedente (cioè il 1700) gli studiosi si
accapigliavano per verificare la conformità ai
modelli e scrivevano trattati su trattati per indicare
con il massimo rigore quanto era richiesto a ciascuna
opera per poter essere inquadrata in un genere
preciso? Era successa una cosa straordinaria: il
romanticismo. Che aveva buttato all'aria secoli di
tradizione letteraria al suono di parole d'ordine come
originalità, intuito, invenzione. Una regola,
però, quella meno rigida perché legata
al cosa e non al come, non era cambiata: l'uomo.
L'arte letteraria conservava questa sua
peculiarità: essere il momento e il luogo
privilegiati dove l'uomo può esprimere se
stesso, il proprio mondo interiore, la propria storia.
Tutto questo, ora, all'insegna dell'originalità
che di fatto resta paradossalmente l'unica regola
comunemente accettata. Un così radicale
mutamento nella sensibilità artistica
portò con sé, inevitabilmente,
l'archiviazione definitiva della questione dei generi:
al diavolo le regole, gridavano i romantici, quel che
conta è l'ispirazione autentica. Così la
letteratura si aprì alle sperimentazioni
più varie, e dell'antica minuziosa
catalogazione dei generi non restava altro che una
classificazione amplissima: prosa, poesia, teatro.
Con, all'interno di ciascuna di queste categorie, le
contaminazione più varie, dalla prosa poetica
alla poesia-racconto (di cui, ad esempio, abbiamo
parlato a proposito di Pavese).
- Ed
eccoci a noi. O meglio, al nostro tempo e alla nostra
poesia, che è l'argomento che ci interessa qui.
Com'è, dopo la rivoluzione romantica, la
poesia? È una forma di scrittura che manifesta
al suo interno, pur nella già accennata
multiforme varietà di sperimentazioni, una
vocazione profondamente lirica, intendendo per lirica
ciò che intendeva già Leopardi quando
annotava nello Zibaldone: "vera e pura poesia in tutta
la sua estensione", e ancora: "espressione libera e
schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito
dell'uomo". Pensieri dai quali emerge da un lato
l'identificazione, di fatto, tra lirica e poesia, e
dall'altro lato la centralità assegnata
all'espressione originale degli affetti (cioè i
sentimenti, le passioni, tutto ciò che si
connota emotivamente) umani: ancora una volta viene
ribadito che la pagina letteraria deve "sapere" di
uomo, recare l'impronta di chi l'ha scritta e, vien da
dire, sofferta.
- "In
questo libro atroce ho messo tutto il mio cuore, tutta
la mia tenerezza, tutta la mia religione (travestita),
tutto il mio odio". È il 1866: Baudelaire
scrive in una lettera che cos'è la sua opera,
quei Fleurs du mal che erano usciti in una prima
edizione nel 1855 segnando, per ormai concorde parere
critico, la data di nascita della lirica moderna.
Eccoci arrivati al punto, allo snodo fondamentale: in
questo libro "atroce" confluisce tutto intero, per
ammissione dell'autore, il suo io poetico, che
è però cosa ben diversa dall'io
empirico; Baudelaire non riversa le sue esperienze
autobiografiche nei versi, bensì parla con la
"coscienza di essere il sofferente della
modernità". Una pagina che sa di uomo, per
riprendere una formula che ci è ormai familiare
(ed è per questo che per il poeta francese
possiamo utilizzare senz'altro l'aggettivo
"classico"), ma in senso profondamente esistenziale:
siamo di fronte a un essere umano che si propone di
parlare a nome di tutti, ma soprattutto di dar voce a
qualcosa che ben pochi riescono a cogliere ed
esprimere: un disagio, uno spleen, una sofferenza
acuta, a tratti lancinante, che non abbandona mai. Il
male di vivere, quel tormento senza nome, il cui
mistero affonda nelle zone più oscure e
profonde dell'essere, preme per essere portato alla
luce: inizia un lavoro di scavo, di ricerca nel
profondo, che porterà la lirica molto
lontano.
- La
scoperta dell'io è uno dei momenti più
importanti del romanticismo e apre alle generazioni
future possibilità (e dolori) prima
insospettabili; l'artista post-romantico (figlio di
molteplici delusioni storiche, da quella della
Rivoluzione Francese a quella seguita ai fallimentari
moti del 1848, cui non a caso partecipò sia
pure per pochissimo tempo lo stesso Baudelaire) si
guarda intorno e trova un mondo che non gli è
familiare, un mondo che, sotto molti aspetti, lo
rifiuta. È il mondo della borghesia in ascesa,
questa classe che con una cavalcata imponente e
inarrestabile acquista in meno di un secolo le leve
del potere e dell'economia trasformandole
profondamente e modellando secondo le sue esigenze
tutto ciò che sa di affari, commerci e finanza;
inclusa l'editoria, che diventa un buono o un cattivo
investimento a seconda dei profitti e delle perdite
che fa registrare. Il che, in teoria, è un
bene, dal momento che così si amplia il numero
dei lettori e si allarga la sua base sociale, prima
ristretta essenzialmente all'aristocrazia; ma l'altra
faccia della medaglia è che il nuovo lettore
borghese cerca nei libri la celebrazione della sua
buona coscienza, dei suoi miti di progresso e
libertà (che avrebbero tragicamente rivelato i
propri limiti proprio con le repressione sanguinose
dei moti del 1848), del modello del self-made man;
cerca, anche, qualcosa che non sia troppo complicato,
che sia godibile da chi non ha gusti particolarmente
raffinati ed esigenti. È il trionfo del
romanzo, questo genere "proteiforme", secondo la nota
definizione di Bachtin, il cui unico canone sembra
proprio il non averne alcuno - e proprio in
ciò, forse, risiede il segreto del suo
straordinario e a quanto sembra inossidabile successo.
Ma questa è un'altra storia, che magari
racconteremo più avanti. Per la poesia, o
meglio la lirica, iniziano tempi tristi: complici i
mutati gusti del pubblico e le mutate regole
dell'editoria essa viene progressivamente rimossa
dalla posizione di centralità nel sistema dei
generi che tutto sommato era stata sua di diritto per
secoli.
- Il
"che fare" diventa per il poeta un interrogativo
drammatico. Che ruolo dare a se stesso e all'arte, se
non si vuole suonare il piffero della borghesia? A chi
rivolgersi, se l'unico pubblico possibile è
fatto di persone così irrimediabilmente "altre"
da sé? A quelle stesse persone, irridendole,
scuotendole, provocandole fino allo spasimo: "È
la noia! - scriveva Baudelaire nell'apostrofe Al
lettore - L'occhio gravato da una lagrima
involontaria, sogna patiboli fumando la sua pipa. Tu
lo conosci, lettore, questo mostro delicato - tu,
ipocrita lettore - mio simile e fratello!"; a se
stesso, per trovare una giustificazione alla propria
arte e alla propria esistenza.
- Nasce
qui l'idea del poeta veggente, dell'alchimista che con
l'ausilio della propria arte poetica, la sola grazie
alla quale ciò sia possibile, si eleva oltre la
realtà del mondo sensibile, cogliendo rapporti
segreti tra le cose, ricreando sulla pagina l'armonia
ineffabile e mistica del tutto. Ecco, allora, che
viene trovata la risposta al "che fare". Mostrare
all'uomo, avviato a diventare uomo-massa, che la sua
lacerazione interiore, ora drammaticamente denunciata,
può essere ricomposta elevandosi più in
alto, abbandonando tra le scorie inutili la sua
realtà fenomenica per cogliere il senso
più intimo delle cose, per scoprire il nuovo
(il nouveau di Baudelaire) e antico segreto
dell'Essere. Di fronte a una società rivolta a
valori materialistici, la poesia recupera
polemicamente e fa propria l'idea del
sacro.
- Nasce
qui anche l'esigenza di utilizzare la poesia come
luogo dove esprimere il proprio modo di intendere
l'essere poeta e il fare poesia: in una parola, per
dichiarare la propria poetica. È una diretta
conseguenza della perdita di identità: nel
momento in cui il poeta non trova più una
collocazione nell'ambito della società scatta
il bisogno di chiarire, a sé e agli altri, il
senso del proprio lavoro, che come abbiamo appena
visto diventa per Baudelaire una sorta di
missione.
- Le
dichiarazioni di poetica segnano le tappe più
significative della storia della lirica moderna a
cominciare proprio dal grande francese. Il quale,
lucidamente, si domandava: come dire l'inesprimibile?
Attraverso quali strumenti poetici?
- Corrispondenze
è la risposta. In questo celebre sonetto,
fittamente intessuto di simbolismi, in cui vengono
mostrate le "corrispondenze" verticali (tra
realtà sensibile e spirito) e orizzontali (tra
sensazioni, tra arti), il poeta ricorre con inusitata
- fino allora - frequenza all'analogia, cioè
all'accostamento di immagini al fine di creare non un
rapporto di similitudine ma di identità; o, in
altre parole, far scattare la scintilla
dell'intuizione per effetto non di deduzioni logiche
ma di lampi di conoscenza prelogica. Anceschi, grande
critico che parla dell'analogia come di
un'"istituzione" della poesia moderna, la spiega
così: "La parola appare come trascinata, scorre
su stessa, veloce, verso qualche cosa di più
che non dice, quasi a evocare sensibilmente ciò
che non è possibile, sensibilmente,
immediatamente attingere".
- La
Natura è un tempio: questo il solenne inizio di
Corrispondenze. Non "la Natura è come un
tempio", nel qual caso si parlerebbe di similitudine.
L'identità tra Natura e tempio è
proclamata da quell'indicativo presente del verbo
essere che non lascia adito a dubbi: non è
questione di opinioni, ci dice Baudelaire, la Natura
è un tempio; e l'accostamento di queste due
immagini addensa in sé una sommatoria di
significati che svettano velocissimi verso altezze
incommensurabili: natura come vita, come produttrice
di sensazioni; tempio come luogo del sacro, di riti
antichissimi, di preghiere elevate alla
divinità... la mente gira vorticosamente su se
stessa, richiamando a sé altre immagini e
annullando distanze spazio-temporali: riti misterici
celebrati anticamente nei boschi, canti liturgici che
si innalzano tra guglie dorate, vetrate splendenti di
sole, uomini e donne in processione... e sopra tutto,
la sacralità dell'Essere: ciò, per
riprendere Anceschi, che non si può raggiungere
coi sensi ma che attraverso sensazioni (suoni, colori,
profumi) viene evocato. Non ci sono limiti
all'analogia nelle mani del poeta
veggente.
- O
del fanciullino. Pascoli, mezzo secolo dopo, importa
in Italia alcune idee di Baudelaire e l'analogia. Il
fanciullino ha, come il veggente, il dono della vista
più chiara: a lui "tutto pare nuovo e bello",
"è l'Adamo che mette il nome a tutto ciò
che vede e sente": è, dunque, una creatura
innocente, che ci fa vedere non solo le cose a cui non
badiamo, ma anche quelle che non pensiamo o che
comunque non saremmo in grado di ridire. Da queste
premesse discendono alcune conseguenze: la cosiddetta
poetica delle umili cose, ovvero l'apertura della
poesia a dati minuti della realtà sensibile che
si accostano l'uno all'altro nella visione stupita e
ingenua del poeta; l'idea di una conoscenza alogica,
perché il poeta non dà alle cose che
vede un senso razionale ma le accoglie tutte nella sua
poesia come frammenti di un quadro che sprigiona il
suo senso proprio dalla fuggevole intuizione
dell'insieme; la concezione della poesia pura,
attività che non ha fini estrinseci a se
stessa, che non si propone obiettivi propagandistici,
civili, pedagogici ma assolve la sua funzione in
sé, inizia e finisce col suo canto. Ma, a
differenza di Baudelaire - il quale viveva come
abbiamo visto un rapporto conflittuale col lettore,
avvertendo tutto il peso della distanza tra sé
e il pubblico - il mite Pascoli recupera attraverso il
fanciullino una visione ottimistica della
realtà sociale, orientata nella direzione, per
dirla alla spicciolata, di un buonismo ante-litteram,
un "volemese ben": il fanciullino è in tutti,
dice Pascoli, dal signore al poveraccio, e rappresenta
quindi il terreno d'incontro, il pacificatore sociale
delle parti in conflitto. Il poeta, colui che per
primo riesce a portare alla luce il fanciullino, non
dà messaggi, non insegna nulla; ma con la sua
poesia incarna la possibilità di una svolta
dell'umanità in direzione di un'autentica
fratellanza. I limiti di questo socialismo utopico, e
anche piuttosto generico, sono evidenti; ciò
non toglie che la presa di coscienza delle differenze
di classe (legate allo sviluppo anche nell'Italia
post-unitaria di una borghesia degli affari,
soprattutto al nord) e l'abbozzo di una risposta
muovono dagli stessi postulati dai quali era partito
Baudelaire: che rapporto istituire col pubblico, che
senso dare alla poesia. E le risposte vanno, in buona
parte, nella stessa direzione: la poesia serve
perché indica la strada per recuperare i valori
dello spirito; perché è, soprattutto, lo
strumento di una conoscenza più autentica e
profonda.
- Profonda
come gli abissi del Porto sepolto di Ungaretti. Il
quale porta alle estreme conseguenze il procedimento
dell'analogia - ciò che faceva nel medesimo
periodo anche Marinetti, come vedremo, ma sulla base
di tutt'altra sensibilità - e scrive: "se il
carattere dell'800 era quello di stabilire legami a
furia di rotaie e di ponti e di pali e di carbone e di
fumo - il poeta di oggi cercherà di mettere a
contatto immagini lontane, senza fili. Dalla memoria
all'innocenza, quale lontananza da varcare; ma in un
baleno". Vengono così delineati i due poli
dell'esistenza: ciò che l'uomo è - la
memoria, ossia il suo carico di esperienze biografiche
e contingenti - e ciò a cui deve tendere -
l'innocenza, vale a dire la riconquista di una
dimensione edenica in cui l'uomo entra in contatto con
la dimensione originaria dell'essere. Come si vede,
ritorna l'idea di un peccato originale da cui occorre
redimersi grazie alla lirica (Pascoli non paragonava
il fanciullino all'Adamo che mette il nome alle
cose?); idea che è strettamente connessa a
quella del sacro e resa esplicita da Ungaretti: "Oggi
il poeta sa e risolutamente afferma che la poesia
è testimonianza d'Iddio anche quando è
una bestemmia. Oggi il poeta è tornato a
sapere, ad avere gli occhi per vedere, e,
deliberatamente, vede e vuole vedere l'invisibile nel
visibile". Siamo di fronte a un vero cantico in onore
del poeta, alla celebrazione di una missione che
certamente non ha fini pratici ma proprio per questo
è la più alta e pura che l'uomo possa
conoscere. Attraverso l'analogia Ungaretti compone una
poesia che rompe con la metrica tradizionale, mentre
Baudelaire aveva fatto della perfezione formale un
imperativo categorico, una sorta di disciplina
interiore grazie alla quale dare forma al magma
interiore, in ciò ricollegandosi più da
vicino al Mallarmé del Colpo di dadi e alle
sperimentazioni futuriste: è l'esaltazione
della parola pura, la parola che illumina con i suoi
lampi di luce una pagina bianca, scabra, essenziale;
l'analogia è arditissima, rimanda costantemente
da un questo (Di questa poesia), a un quello (mi resta
/ quel nulla / d'inesauribile segreto) con una
concentrazione semantica che trova il suo climax
nell'ossimoro nulla / inesauribile, che è
condizione stessa della poesia.
- L'analogia,
dunque, regna sovrana nelle espressioni poetiche del
primo Novecento: la cifra comune, al di là
delle soluzioni individuali, è il costante
tentativo di rimandare dal materiale all'immateriale,
dal sensibile al sovrasensibile; ciò come
conseguenza della perdita di un'identità
sicura, cosa che spinge il poeta a cercare oltre la
realtà il senso ultimo del proprio lavoro.
Abbiamo visto che Baudelaire, Pascoli, Ungaretti, in
vario modo recuperano l'idea di una missione
spirituale, di un messaggio da lasciare agli uomini
affinché intravedano, anch'essi, la
verità segreta e ultima che è in ogni
cosa, seguendo l'intuizione che ogni aspetto della
vita non si esaurisce in sé ma rimanda a un
significato "altro".
- Anche
d'Annunzio si ricollega a questa linea soprattutto
nella fase lirica dell'Alcyone, dove viene proposta
l'equazione musica e poesia (siamo nel campo delle
"corrispondenze" orizzontali tra arti, tra sensi);
l'analogia istituisce rimandi segreti, in Lungo
l'Affrico, tra i due poli del pianto e dello specchio,
collegati dal motivo della limpidezza e della purezza,
e tra il volo delle rondini e l'io del poeta,
slanciati entrambi in un azzurro volo ebbro di
piacere.
- C'è
qui tutto il vitalismo di d'Annunzio, il quale negli
ultimi versi torna in primo piano con il peso
consistente della sua ideologia superomistica. Il "che
fare" ha per d'Annunzio una risposta radicalmente
diversa da quella dei poeti che abbiamo sin qui
incontrato. Il poeta vuole per sé un ruolo
nella storia e nel mondo che sia consono alla sua
superiore sensibilità, della quale trova segni
nell'universo che lo circonda (osservate ad esempio la
domanda, retoricamente enfatica, che chiude la terza
strofa: "Non tesse il volo intorno a le mie tempie /
fresche ghirlande?"); l'io empirico, bandito dalla
poesia di Baudelaire e Ungaretti, ricompare qui sotto
le spoglie di un uomo che attende solo di imprimere
sulla terra il segno del proprio passaggio, forte
addirittura della predestinazione contenuta nel suo
nome stesso (si noti infatti la scelta del termine
nunzio - per messaggio - segretamente allusivo di
d'Annunzio).
- Lo
slancio vitalistico che caratterizza il pensiero
dannunziano compare anche, ma con implicazioni
diverse, nella poetica del futurismo. È stato
detto che senza il futurismo non ci sarebbe stato
Ungaretti; perché sono i futuristi a osare, per
primi, attaccare alla radice la secolare tradizione
poetica in Italia, a respingere metri rime e ritmi, a
dissacrare la lirica. Ed è curioso che questo
attacco al cuore della poesia venga condotto con il
medesimo strumento attraverso il quale altri poeti
giungevano ad attribuirle addirittura una funzione
sacra: parliamo sempre dell'analogia. Marinetti
è molto esplicito in proposito: "Solo per mezzo
di analogie vastissime uno stile orchestrale, a un
tempo policromo, polifonico e polimorfo, può
abbracciare la vita della materia".
- L'analogia,
dunque, è l'autostrada sulla quale far correre
velocissima la macchina della modernità, quella
modernità che i futuristi amavano immaginare
fatta di dinamismo, forme in continuo movimento,
materia in continua trasformazione. Nulla di
più lontano dal veggente e dal fanciullino,
incantati ascoltatori e scopritori dell'evanescente
poesia delle cose; qui le cose, se portano messaggi
"altri", rimandano comunque ad altre cose, ad altri
oggetti, ad altra materia: non per nulla Marinetti
bandisce gli aggettivi e gli avverbi dalla sua idea di
poesia per lasciare posto ai verbi - che esprimono
l'azione - e ai sostantivi - che racchiudono la
materia.
- Con
questo discorso sugli oggetti possiamo avvicinarci
all'ultimo poeta del nostro percorso. Un poeta che ha
iniziato a scrivere quando Ungaretti pubblicava il
Porto sepolto, tornando a scelte formali più
tradizionali ma dando una svolta decisiva alla
riflessione sul "che fare" poetico; un poeta che, come
Pascoli, partiva dalle cose minute, dalla
realtà più povera e dimessa; ma non per
osservarla con gli occhi ingenui del fanciullino,
né per coglierne le simbologie segrete. Anzi.
Per Montale - è lui, ovviamente, il soggetto
del nostro discorso - gli oggetti sono emblemi (o
correlativi oggettivi, che è lo stesso) in cui
è trascritto il destino dell'uomo, il senso del
suo esistere, ma in modo tanto cifrato da renderne
impossibile la comprensione. Quella dimensione
trascendente tanto evocata e tanto cercata diventa tra
le mani di Montale un osso di seppia, un croco, un
polveroso prato: è con questi oggetti e luoghi
che l'uomo si deve misurare perché essi sono,
fuori di dubbio, la sua realtà; di più,
l'unica realtà che gli è dato conoscere,
fatta di concretezza insormontabile. Nessuna parola,
per quanto pura, potrà mai alludere o evocare
il mondo sovrasensibile; nessun procedimento
analogico, per quanto ardito, eleverà mai
l'uomo oltre se stesso: in mezzo ci sono gli oggetti,
e con loro bisogna fare i conti. Ecco perché
per Montale si è parlato di poetica delle cose
- come per Pascoli - e di correlativo oggettivo; di
questa seconda "istituzione" della poesia novecentesca
Anceschi dà una definizione assai
significativa: "un insieme di significati si raccoglie
intorno a un oggetto per farne il correlato di un
sentire metafisico nella proliferante attività
della coscienza del nulla". La consapevolezza del
nulla monta dentro il poeta, lo spinge a guardarsi
intorno, in un mondo affollato di cose, per vedere se
da qualche parte non ci sia una maglia che non tiene,
un filo da disbrogliare che possa finalmente mostrare
all'uomo la verità ultima; ma il "varco" tanto
cercato, se anche qualche volta, immersi nel silenzio,
sembra aprirsi, rivela presto il suo carattere
illusorio. Incatenato a una realtà
impenetrabile, che conserva il suo significato oscuro,
l'uomo non può che prendere coscienza della
divina Indifferenza, passiva e insensibile di fronte
alle umane vicende.
- Montale,
dunque, porta all'estrema conseguenza la riflessione
sul "che fare" poetico: quel che resta sul piano del
discorso poetico è la testimonianza del vicolo
cieco in cui l'uomo è ingabbiato (fatta con il
pianto nel cuore ma a viso asciutto, fermo, con grande
virilità), testimonianza che si manifesta anche
attraverso il rifiuto dell'analogia e della parola
pura ungarettiana nonché con il recupero di
forme metriche più vicine alle tradizione; sul
piano umano resta la ricerca di una solidarietà
tra umani, creature simili perseguitate dal medesimo
destino incomprensibile (che si traduce nel tono
colloquiale dei versi), e l'accorata preghiera, o
monito: "non chiederci la parola", dice Montale,
"codesto solo oggi possiamo dirti / ciò che non
siamo, ciò che non vogliamo". Poesia e poeta,
ora, non possono avere che una funzione conoscitiva in
negativo.
- L'impressione
è che dopo Montale sia difficile fare poesia.
Troppo veloce gira il mondo, troppe parole, troppo
disincanto, troppo cinismo, troppi affari, troppo
disperante il deserto di verità in cui
camminiamo.
- Eppure
molti, e soprattutto non solo i "poeti laureati" di
montaliana memoria, scrivono in versi: perché?
Forse perché la poesia resta, nell'immaginario
collettivo e nella coscienza di ognuno, uno strumento
di conoscenza privilegiato con cui evocare
l'inesprimibile, testimoniare l'incomprensibile, o
più frequentemente (ma non così
banalmente come si potrebbe credere) esprimere il
proprio mondo emotivo e attraverso questo la
realtà esterna; in ogni caso, per dare "sapore
di uomo" alla pagina, e di conseguenza alla
vita.
-
- Olivia
Trioschi
-
|