02-1998 12:38 by Claris Home Page version 2.0-->
Edizione Virtuale della rivista
Club degli Autori
È uscito il n° 99 - 100 Novembre - Dicembre 2000
è stata spedita ai soci del Club degli autori il 3 novembre 2000

Editoriale

Sommario

Per leggere alcune opere dei grandi poeti citati nell'articolo

Poetica e Poesia nella lirica moderna
 
La lirica moderna:
Dentro le cose,
oltre il mondo,
verso l'uomo
a cura di Olivia Trioschi
 
 
Stavolta partiamo da lontano. Ce lo impone, in qualche modo, il titolo scelto, solo apparentemente facile. Se diciamo "lirica moderna", infatti, tutti pensiamo a poeti come Baudelaire, Pascoli, Montale... Che sono poeti non solo cronologicamente distanti ma anche diversi per scelte contenutistiche e formali. Che cosa allora, a intuito, ce li fa raccogliere sotto un'unica definizione di genere - lirica - e un'unica indicazione cronologica - moderna? Avvertiamo che c'è qualcosa che li rende simili, e questo qualcosa ora cercheremo di individuare. Iniziando da una riflessione generale che ci porta, per l'appunto, molto indietro nel tempo.
Che cos'è il genere? Se ci pensiamo un po', probabilmente ci vengono in mente esempi come il thriller oppure il romanzo rosa, riferiti cioè alla produzione cinematografica e a quella letteraria, diciamo così, bassa. Eppure la riflessione sulla letteratura ha prodotto, nei secoli passati, innumerevoli pagine sul concetto di genere: che era una categoria ben precisa entro la quale potevano, o meglio dovevano, essere raccolte tutte le opere che rispondevano a una codificazione normativa rigida; il genere, pertanto, presupponeva l'esistenza di un modello cui uniformarsi, secondo il principio classico che gli scrittori antichi avevano raggiunto la perfezione nelle forme di espressione artistica.
Fermiamoci un attimo. Abbiamo messo insieme due parole importanti della storia letteraria: genere e classico. Abbiamo intuito che c'è un legame profondo tra le due, legame che nasce nel momento in cui il genere diventa un insieme di norme, un dettato scrupoloso - una sorta di legislazione insomma: è ovvio, a questo punto, che ci deve essere qualcuno che detta le regole. E questo qualcuno, soprattutto da noi, in Italia, non può essere altro che un autore della classicità. Sentiamo a questo proposito cosa diceva Aulo Gellio, erudito del II secolo che, a quanto risulta finora, è l'"inventore" della parola "classico". Ebbene, classicus secondo Aulo è l'autore non proletarius (il latino, qui, è talmente simile al nostro italiano da tradursi da sé). Cosa c'entra, direte voi. Stiamo parlando di letteratura, non di classi sociali. E invece c'entra eccome. Non dimentichiamo che a volte i nomi sono davvero conseguenza delle cose: un po' di sana etimologia, senza cadere ovviamente nei bizantinismi medievali, non fa mai male. Classicus, infatti, è aggettivo derivato da classis, cioè la prima delle sei classi in cui erano divisi i cittadini romani: quella dei più ricchi; va da sé che la classe dei proletari (cioè di coloro che avevano solo la prole e nient'altro) era la sesta: l'ultima, la più numerosa, la più povera. Allora dire classicus, per Aulo, equivale a dire autore "di prima classe". A questo giudizio di eccellenza si accompagna quello di esemplarità: un autore di prima classe non potrà non essere un modello per gli altri, quelli che vengono dopo di lui. Resta poi da intendersi su cosa faccia sì che un autore sia considerato di "prima classe". E qui ci viene in soccorso un altro e ben più famoso romano. Orazio, nella sua Arte poetica, elencava una serie di requisiti indispensabili alla vera opera d'arte letteraria, riassumibili in una nota formula: equilibrio armonico e razionale. Ecco quel che fa la differenza tra uno scrittore qualsiasi e uno scrittore di prima classe, tra un classico e uno che classico non è. Alla base del concetto di genere, dunque, come di quello di classico, c'è il principio dell'imitazione di un modello. Ed è a questo principio che si ispireranno per secoli intellettuali e artisti sforzandosi di individuare modelli - che, semplificando sommariamente, resteranno sempre quelli della classicità cui si aggiungerà successivamente la "triplice" del nostro Medioevo: Dante e ancor più Petrarca per la lirica e Boccaccio per la prosa - di "prima classe" che dessero corpo a quegli ideali di equilibrio, armonia, misura individuati come costitutivi dell'arte degna di essere imitata.
Imitazione è un'altra parola chiave: Orazio, e prima di lui Platone e Aristotele, avevano indicato non solo come l'autore doveva esprimersi, ma anche cosa doveva dire, e anche questo cosa dire si può riassumere - non in una formula ma in una parola: l'uomo. Dire l'uomo significa esprimere nell'opera d'arte la complessità della dimensione umana e della sua storia. Marziale, nel I secolo, affermava orgogliosamente che la sua pagina "sapeva" di uomo. L'arte classica, dunque, non vuole essere solo perfezione formale (con il non necessario ma storicamente decisivo corollario di norme e prescrizioni) ma anche riflesso e trascrizione della vicenda umana con le sue molteplici implicazioni di tipo esistenziale, passionale, filosofico, mistico, religioso...
Facciamo un brusco salto in avanti. Sentire il titolo Arte poetica avrà forse fatto drizzare le orecchie a qualcuno. Non c'è un'altra Arte poetica, molto più recente, in versi, di un signore che si chiamava Verlaine? Come no. E sentite quel che dice: "nulla è meglio della canzone grigia / dove l'indeciso al preciso si sposa; e ancora: preferisci il ritmo impari / più vago e più solubile nell'aria / senza nulla che pesi o che posi". Siamo un po' lontani dall'equilibrio e dalla misura delle forme prescritti dalla classicità, non è vero? Come mai questo poeta osava dichiarare cose tanto irregolari, quando ancora nel secolo precedente (cioè il 1700) gli studiosi si accapigliavano per verificare la conformità ai modelli e scrivevano trattati su trattati per indicare con il massimo rigore quanto era richiesto a ciascuna opera per poter essere inquadrata in un genere preciso? Era successa una cosa straordinaria: il romanticismo. Che aveva buttato all'aria secoli di tradizione letteraria al suono di parole d'ordine come originalità, intuito, invenzione. Una regola, però, quella meno rigida perché legata al cosa e non al come, non era cambiata: l'uomo. L'arte letteraria conservava questa sua peculiarità: essere il momento e il luogo privilegiati dove l'uomo può esprimere se stesso, il proprio mondo interiore, la propria storia. Tutto questo, ora, all'insegna dell'originalità che di fatto resta paradossalmente l'unica regola comunemente accettata. Un così radicale mutamento nella sensibilità artistica portò con sé, inevitabilmente, l'archiviazione definitiva della questione dei generi: al diavolo le regole, gridavano i romantici, quel che conta è l'ispirazione autentica. Così la letteratura si aprì alle sperimentazioni più varie, e dell'antica minuziosa catalogazione dei generi non restava altro che una classificazione amplissima: prosa, poesia, teatro. Con, all'interno di ciascuna di queste categorie, le contaminazione più varie, dalla prosa poetica alla poesia-racconto (di cui, ad esempio, abbiamo parlato a proposito di Pavese).
Ed eccoci a noi. O meglio, al nostro tempo e alla nostra poesia, che è l'argomento che ci interessa qui. Com'è, dopo la rivoluzione romantica, la poesia? È una forma di scrittura che manifesta al suo interno, pur nella già accennata multiforme varietà di sperimentazioni, una vocazione profondamente lirica, intendendo per lirica ciò che intendeva già Leopardi quando annotava nello Zibaldone: "vera e pura poesia in tutta la sua estensione", e ancora: "espressione libera e schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito dell'uomo". Pensieri dai quali emerge da un lato l'identificazione, di fatto, tra lirica e poesia, e dall'altro lato la centralità assegnata all'espressione originale degli affetti (cioè i sentimenti, le passioni, tutto ciò che si connota emotivamente) umani: ancora una volta viene ribadito che la pagina letteraria deve "sapere" di uomo, recare l'impronta di chi l'ha scritta e, vien da dire, sofferta.
"In questo libro atroce ho messo tutto il mio cuore, tutta la mia tenerezza, tutta la mia religione (travestita), tutto il mio odio". È il 1866: Baudelaire scrive in una lettera che cos'è la sua opera, quei Fleurs du mal che erano usciti in una prima edizione nel 1855 segnando, per ormai concorde parere critico, la data di nascita della lirica moderna. Eccoci arrivati al punto, allo snodo fondamentale: in questo libro "atroce" confluisce tutto intero, per ammissione dell'autore, il suo io poetico, che è però cosa ben diversa dall'io empirico; Baudelaire non riversa le sue esperienze autobiografiche nei versi, bensì parla con la "coscienza di essere il sofferente della modernità". Una pagina che sa di uomo, per riprendere una formula che ci è ormai familiare (ed è per questo che per il poeta francese possiamo utilizzare senz'altro l'aggettivo "classico"), ma in senso profondamente esistenziale: siamo di fronte a un essere umano che si propone di parlare a nome di tutti, ma soprattutto di dar voce a qualcosa che ben pochi riescono a cogliere ed esprimere: un disagio, uno spleen, una sofferenza acuta, a tratti lancinante, che non abbandona mai. Il male di vivere, quel tormento senza nome, il cui mistero affonda nelle zone più oscure e profonde dell'essere, preme per essere portato alla luce: inizia un lavoro di scavo, di ricerca nel profondo, che porterà la lirica molto lontano.
La scoperta dell'io è uno dei momenti più importanti del romanticismo e apre alle generazioni future possibilità (e dolori) prima insospettabili; l'artista post-romantico (figlio di molteplici delusioni storiche, da quella della Rivoluzione Francese a quella seguita ai fallimentari moti del 1848, cui non a caso partecipò sia pure per pochissimo tempo lo stesso Baudelaire) si guarda intorno e trova un mondo che non gli è familiare, un mondo che, sotto molti aspetti, lo rifiuta. È il mondo della borghesia in ascesa, questa classe che con una cavalcata imponente e inarrestabile acquista in meno di un secolo le leve del potere e dell'economia trasformandole profondamente e modellando secondo le sue esigenze tutto ciò che sa di affari, commerci e finanza; inclusa l'editoria, che diventa un buono o un cattivo investimento a seconda dei profitti e delle perdite che fa registrare. Il che, in teoria, è un bene, dal momento che così si amplia il numero dei lettori e si allarga la sua base sociale, prima ristretta essenzialmente all'aristocrazia; ma l'altra faccia della medaglia è che il nuovo lettore borghese cerca nei libri la celebrazione della sua buona coscienza, dei suoi miti di progresso e libertà (che avrebbero tragicamente rivelato i propri limiti proprio con le repressione sanguinose dei moti del 1848), del modello del self-made man; cerca, anche, qualcosa che non sia troppo complicato, che sia godibile da chi non ha gusti particolarmente raffinati ed esigenti. È il trionfo del romanzo, questo genere "proteiforme", secondo la nota definizione di Bachtin, il cui unico canone sembra proprio il non averne alcuno - e proprio in ciò, forse, risiede il segreto del suo straordinario e a quanto sembra inossidabile successo. Ma questa è un'altra storia, che magari racconteremo più avanti. Per la poesia, o meglio la lirica, iniziano tempi tristi: complici i mutati gusti del pubblico e le mutate regole dell'editoria essa viene progressivamente rimossa dalla posizione di centralità nel sistema dei generi che tutto sommato era stata sua di diritto per secoli.
Il "che fare" diventa per il poeta un interrogativo drammatico. Che ruolo dare a se stesso e all'arte, se non si vuole suonare il piffero della borghesia? A chi rivolgersi, se l'unico pubblico possibile è fatto di persone così irrimediabilmente "altre" da sé? A quelle stesse persone, irridendole, scuotendole, provocandole fino allo spasimo: "È la noia! - scriveva Baudelaire nell'apostrofe Al lettore - L'occhio gravato da una lagrima involontaria, sogna patiboli fumando la sua pipa. Tu lo conosci, lettore, questo mostro delicato - tu, ipocrita lettore - mio simile e fratello!"; a se stesso, per trovare una giustificazione alla propria arte e alla propria esistenza.
Nasce qui l'idea del poeta veggente, dell'alchimista che con l'ausilio della propria arte poetica, la sola grazie alla quale ciò sia possibile, si eleva oltre la realtà del mondo sensibile, cogliendo rapporti segreti tra le cose, ricreando sulla pagina l'armonia ineffabile e mistica del tutto. Ecco, allora, che viene trovata la risposta al "che fare". Mostrare all'uomo, avviato a diventare uomo-massa, che la sua lacerazione interiore, ora drammaticamente denunciata, può essere ricomposta elevandosi più in alto, abbandonando tra le scorie inutili la sua realtà fenomenica per cogliere il senso più intimo delle cose, per scoprire il nuovo (il nouveau di Baudelaire) e antico segreto dell'Essere. Di fronte a una società rivolta a valori materialistici, la poesia recupera polemicamente e fa propria l'idea del sacro.
Nasce qui anche l'esigenza di utilizzare la poesia come luogo dove esprimere il proprio modo di intendere l'essere poeta e il fare poesia: in una parola, per dichiarare la propria poetica. È una diretta conseguenza della perdita di identità: nel momento in cui il poeta non trova più una collocazione nell'ambito della società scatta il bisogno di chiarire, a sé e agli altri, il senso del proprio lavoro, che come abbiamo appena visto diventa per Baudelaire una sorta di missione.
Le dichiarazioni di poetica segnano le tappe più significative della storia della lirica moderna a cominciare proprio dal grande francese. Il quale, lucidamente, si domandava: come dire l'inesprimibile? Attraverso quali strumenti poetici?
Corrispondenze è la risposta. In questo celebre sonetto, fittamente intessuto di simbolismi, in cui vengono mostrate le "corrispondenze" verticali (tra realtà sensibile e spirito) e orizzontali (tra sensazioni, tra arti), il poeta ricorre con inusitata - fino allora - frequenza all'analogia, cioè all'accostamento di immagini al fine di creare non un rapporto di similitudine ma di identità; o, in altre parole, far scattare la scintilla dell'intuizione per effetto non di deduzioni logiche ma di lampi di conoscenza prelogica. Anceschi, grande critico che parla dell'analogia come di un'"istituzione" della poesia moderna, la spiega così: "La parola appare come trascinata, scorre su stessa, veloce, verso qualche cosa di più che non dice, quasi a evocare sensibilmente ciò che non è possibile, sensibilmente, immediatamente attingere".
La Natura è un tempio: questo il solenne inizio di Corrispondenze. Non "la Natura è come un tempio", nel qual caso si parlerebbe di similitudine. L'identità tra Natura e tempio è proclamata da quell'indicativo presente del verbo essere che non lascia adito a dubbi: non è questione di opinioni, ci dice Baudelaire, la Natura è un tempio; e l'accostamento di queste due immagini addensa in sé una sommatoria di significati che svettano velocissimi verso altezze incommensurabili: natura come vita, come produttrice di sensazioni; tempio come luogo del sacro, di riti antichissimi, di preghiere elevate alla divinità... la mente gira vorticosamente su se stessa, richiamando a sé altre immagini e annullando distanze spazio-temporali: riti misterici celebrati anticamente nei boschi, canti liturgici che si innalzano tra guglie dorate, vetrate splendenti di sole, uomini e donne in processione... e sopra tutto, la sacralità dell'Essere: ciò, per riprendere Anceschi, che non si può raggiungere coi sensi ma che attraverso sensazioni (suoni, colori, profumi) viene evocato. Non ci sono limiti all'analogia nelle mani del poeta veggente.
O del fanciullino. Pascoli, mezzo secolo dopo, importa in Italia alcune idee di Baudelaire e l'analogia. Il fanciullino ha, come il veggente, il dono della vista più chiara: a lui "tutto pare nuovo e bello", "è l'Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente": è, dunque, una creatura innocente, che ci fa vedere non solo le cose a cui non badiamo, ma anche quelle che non pensiamo o che comunque non saremmo in grado di ridire. Da queste premesse discendono alcune conseguenze: la cosiddetta poetica delle umili cose, ovvero l'apertura della poesia a dati minuti della realtà sensibile che si accostano l'uno all'altro nella visione stupita e ingenua del poeta; l'idea di una conoscenza alogica, perché il poeta non dà alle cose che vede un senso razionale ma le accoglie tutte nella sua poesia come frammenti di un quadro che sprigiona il suo senso proprio dalla fuggevole intuizione dell'insieme; la concezione della poesia pura, attività che non ha fini estrinseci a se stessa, che non si propone obiettivi propagandistici, civili, pedagogici ma assolve la sua funzione in sé, inizia e finisce col suo canto. Ma, a differenza di Baudelaire - il quale viveva come abbiamo visto un rapporto conflittuale col lettore, avvertendo tutto il peso della distanza tra sé e il pubblico - il mite Pascoli recupera attraverso il fanciullino una visione ottimistica della realtà sociale, orientata nella direzione, per dirla alla spicciolata, di un buonismo ante-litteram, un "volemese ben": il fanciullino è in tutti, dice Pascoli, dal signore al poveraccio, e rappresenta quindi il terreno d'incontro, il pacificatore sociale delle parti in conflitto. Il poeta, colui che per primo riesce a portare alla luce il fanciullino, non dà messaggi, non insegna nulla; ma con la sua poesia incarna la possibilità di una svolta dell'umanità in direzione di un'autentica fratellanza. I limiti di questo socialismo utopico, e anche piuttosto generico, sono evidenti; ciò non toglie che la presa di coscienza delle differenze di classe (legate allo sviluppo anche nell'Italia post-unitaria di una borghesia degli affari, soprattutto al nord) e l'abbozzo di una risposta muovono dagli stessi postulati dai quali era partito Baudelaire: che rapporto istituire col pubblico, che senso dare alla poesia. E le risposte vanno, in buona parte, nella stessa direzione: la poesia serve perché indica la strada per recuperare i valori dello spirito; perché è, soprattutto, lo strumento di una conoscenza più autentica e profonda.
Profonda come gli abissi del Porto sepolto di Ungaretti. Il quale porta alle estreme conseguenze il procedimento dell'analogia - ciò che faceva nel medesimo periodo anche Marinetti, come vedremo, ma sulla base di tutt'altra sensibilità - e scrive: "se il carattere dell'800 era quello di stabilire legami a furia di rotaie e di ponti e di pali e di carbone e di fumo - il poeta di oggi cercherà di mettere a contatto immagini lontane, senza fili. Dalla memoria all'innocenza, quale lontananza da varcare; ma in un baleno". Vengono così delineati i due poli dell'esistenza: ciò che l'uomo è - la memoria, ossia il suo carico di esperienze biografiche e contingenti - e ciò a cui deve tendere - l'innocenza, vale a dire la riconquista di una dimensione edenica in cui l'uomo entra in contatto con la dimensione originaria dell'essere. Come si vede, ritorna l'idea di un peccato originale da cui occorre redimersi grazie alla lirica (Pascoli non paragonava il fanciullino all'Adamo che mette il nome alle cose?); idea che è strettamente connessa a quella del sacro e resa esplicita da Ungaretti: "Oggi il poeta sa e risolutamente afferma che la poesia è testimonianza d'Iddio anche quando è una bestemmia. Oggi il poeta è tornato a sapere, ad avere gli occhi per vedere, e, deliberatamente, vede e vuole vedere l'invisibile nel visibile". Siamo di fronte a un vero cantico in onore del poeta, alla celebrazione di una missione che certamente non ha fini pratici ma proprio per questo è la più alta e pura che l'uomo possa conoscere. Attraverso l'analogia Ungaretti compone una poesia che rompe con la metrica tradizionale, mentre Baudelaire aveva fatto della perfezione formale un imperativo categorico, una sorta di disciplina interiore grazie alla quale dare forma al magma interiore, in ciò ricollegandosi più da vicino al Mallarmé del Colpo di dadi e alle sperimentazioni futuriste: è l'esaltazione della parola pura, la parola che illumina con i suoi lampi di luce una pagina bianca, scabra, essenziale; l'analogia è arditissima, rimanda costantemente da un questo (Di questa poesia), a un quello (mi resta / quel nulla / d'inesauribile segreto) con una concentrazione semantica che trova il suo climax nell'ossimoro nulla / inesauribile, che è condizione stessa della poesia.
L'analogia, dunque, regna sovrana nelle espressioni poetiche del primo Novecento: la cifra comune, al di là delle soluzioni individuali, è il costante tentativo di rimandare dal materiale all'immateriale, dal sensibile al sovrasensibile; ciò come conseguenza della perdita di un'identità sicura, cosa che spinge il poeta a cercare oltre la realtà il senso ultimo del proprio lavoro. Abbiamo visto che Baudelaire, Pascoli, Ungaretti, in vario modo recuperano l'idea di una missione spirituale, di un messaggio da lasciare agli uomini affinché intravedano, anch'essi, la verità segreta e ultima che è in ogni cosa, seguendo l'intuizione che ogni aspetto della vita non si esaurisce in sé ma rimanda a un significato "altro".
Anche d'Annunzio si ricollega a questa linea soprattutto nella fase lirica dell'Alcyone, dove viene proposta l'equazione musica e poesia (siamo nel campo delle "corrispondenze" orizzontali tra arti, tra sensi); l'analogia istituisce rimandi segreti, in Lungo l'Affrico, tra i due poli del pianto e dello specchio, collegati dal motivo della limpidezza e della purezza, e tra il volo delle rondini e l'io del poeta, slanciati entrambi in un azzurro volo ebbro di piacere.
C'è qui tutto il vitalismo di d'Annunzio, il quale negli ultimi versi torna in primo piano con il peso consistente della sua ideologia superomistica. Il "che fare" ha per d'Annunzio una risposta radicalmente diversa da quella dei poeti che abbiamo sin qui incontrato. Il poeta vuole per sé un ruolo nella storia e nel mondo che sia consono alla sua superiore sensibilità, della quale trova segni nell'universo che lo circonda (osservate ad esempio la domanda, retoricamente enfatica, che chiude la terza strofa: "Non tesse il volo intorno a le mie tempie / fresche ghirlande?"); l'io empirico, bandito dalla poesia di Baudelaire e Ungaretti, ricompare qui sotto le spoglie di un uomo che attende solo di imprimere sulla terra il segno del proprio passaggio, forte addirittura della predestinazione contenuta nel suo nome stesso (si noti infatti la scelta del termine nunzio - per messaggio - segretamente allusivo di d'Annunzio).
Lo slancio vitalistico che caratterizza il pensiero dannunziano compare anche, ma con implicazioni diverse, nella poetica del futurismo. È stato detto che senza il futurismo non ci sarebbe stato Ungaretti; perché sono i futuristi a osare, per primi, attaccare alla radice la secolare tradizione poetica in Italia, a respingere metri rime e ritmi, a dissacrare la lirica. Ed è curioso che questo attacco al cuore della poesia venga condotto con il medesimo strumento attraverso il quale altri poeti giungevano ad attribuirle addirittura una funzione sacra: parliamo sempre dell'analogia. Marinetti è molto esplicito in proposito: "Solo per mezzo di analogie vastissime uno stile orchestrale, a un tempo policromo, polifonico e polimorfo, può abbracciare la vita della materia".
L'analogia, dunque, è l'autostrada sulla quale far correre velocissima la macchina della modernità, quella modernità che i futuristi amavano immaginare fatta di dinamismo, forme in continuo movimento, materia in continua trasformazione. Nulla di più lontano dal veggente e dal fanciullino, incantati ascoltatori e scopritori dell'evanescente poesia delle cose; qui le cose, se portano messaggi "altri", rimandano comunque ad altre cose, ad altri oggetti, ad altra materia: non per nulla Marinetti bandisce gli aggettivi e gli avverbi dalla sua idea di poesia per lasciare posto ai verbi - che esprimono l'azione - e ai sostantivi - che racchiudono la materia.
Con questo discorso sugli oggetti possiamo avvicinarci all'ultimo poeta del nostro percorso. Un poeta che ha iniziato a scrivere quando Ungaretti pubblicava il Porto sepolto, tornando a scelte formali più tradizionali ma dando una svolta decisiva alla riflessione sul "che fare" poetico; un poeta che, come Pascoli, partiva dalle cose minute, dalla realtà più povera e dimessa; ma non per osservarla con gli occhi ingenui del fanciullino, né per coglierne le simbologie segrete. Anzi. Per Montale - è lui, ovviamente, il soggetto del nostro discorso - gli oggetti sono emblemi (o correlativi oggettivi, che è lo stesso) in cui è trascritto il destino dell'uomo, il senso del suo esistere, ma in modo tanto cifrato da renderne impossibile la comprensione. Quella dimensione trascendente tanto evocata e tanto cercata diventa tra le mani di Montale un osso di seppia, un croco, un polveroso prato: è con questi oggetti e luoghi che l'uomo si deve misurare perché essi sono, fuori di dubbio, la sua realtà; di più, l'unica realtà che gli è dato conoscere, fatta di concretezza insormontabile. Nessuna parola, per quanto pura, potrà mai alludere o evocare il mondo sovrasensibile; nessun procedimento analogico, per quanto ardito, eleverà mai l'uomo oltre se stesso: in mezzo ci sono gli oggetti, e con loro bisogna fare i conti. Ecco perché per Montale si è parlato di poetica delle cose - come per Pascoli - e di correlativo oggettivo; di questa seconda "istituzione" della poesia novecentesca Anceschi dà una definizione assai significativa: "un insieme di significati si raccoglie intorno a un oggetto per farne il correlato di un sentire metafisico nella proliferante attività della coscienza del nulla". La consapevolezza del nulla monta dentro il poeta, lo spinge a guardarsi intorno, in un mondo affollato di cose, per vedere se da qualche parte non ci sia una maglia che non tiene, un filo da disbrogliare che possa finalmente mostrare all'uomo la verità ultima; ma il "varco" tanto cercato, se anche qualche volta, immersi nel silenzio, sembra aprirsi, rivela presto il suo carattere illusorio. Incatenato a una realtà impenetrabile, che conserva il suo significato oscuro, l'uomo non può che prendere coscienza della divina Indifferenza, passiva e insensibile di fronte alle umane vicende.
Montale, dunque, porta all'estrema conseguenza la riflessione sul "che fare" poetico: quel che resta sul piano del discorso poetico è la testimonianza del vicolo cieco in cui l'uomo è ingabbiato (fatta con il pianto nel cuore ma a viso asciutto, fermo, con grande virilità), testimonianza che si manifesta anche attraverso il rifiuto dell'analogia e della parola pura ungarettiana nonché con il recupero di forme metriche più vicine alle tradizione; sul piano umano resta la ricerca di una solidarietà tra umani, creature simili perseguitate dal medesimo destino incomprensibile (che si traduce nel tono colloquiale dei versi), e l'accorata preghiera, o monito: "non chiederci la parola", dice Montale, "codesto solo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo". Poesia e poeta, ora, non possono avere che una funzione conoscitiva in negativo.
L'impressione è che dopo Montale sia difficile fare poesia. Troppo veloce gira il mondo, troppe parole, troppo disincanto, troppo cinismo, troppi affari, troppo disperante il deserto di verità in cui camminiamo.
Eppure molti, e soprattutto non solo i "poeti laureati" di montaliana memoria, scrivono in versi: perché? Forse perché la poesia resta, nell'immaginario collettivo e nella coscienza di ognuno, uno strumento di conoscenza privilegiato con cui evocare l'inesprimibile, testimoniare l'incomprensibile, o più frequentemente (ma non così banalmente come si potrebbe credere) esprimere il proprio mondo emotivo e attraverso questo la realtà esterna; in ogni caso, per dare "sapore di uomo" alla pagina, e di conseguenza alla vita.
 
Olivia Trioschi
 
©2000 Il club degli autori
Per comunicare con il Club degli autori: info@club.it
Se hai un inedito da pubblicare rivolgiti con fiducia a Montedit
 
 

IL SERVER PIÚ UTILE PER POETI E SCRITTORI ESORDIENTI ED EMERGENTI
Home club | Bandi concorsi (elenco dei mesi) | I Concorsi del Club | Risultati di concorsi |Poeti e scrittori (elenco generale degli autori presenti sul web) | Consigli editoriali | Indice server | Antologia dei Poeti contemporanei | Scrittori | Racconti | Arts club | Photo Club | InternetBookShop |
 

Inserito il 7 novembre 2000