- Giovanni
Pascoli
- da
Il fanciullino, in Prose.
-
- È
dentro noi un fanciullino...
-
- È
dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi,
come credeva Cebes Tebano che primo in sé lo
scoperse, ma lagrime ancora e tripudi suoi. Quando
la nostra età è tuttavia tenera, egli
confonde la sua voce con la nostra, e dei due
fanciulli che ruzzano e contendono tra loro,
insieme sempre, temono sperano godono piangono, si
sente un palpito solo, uno strillare e un guaire
solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta
piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo
desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica
serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo
la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il
suo tinnulo squillo come di campanello. Il quale
tintinnio segreto noi non udiamo distinto
nell'età giovanile forse così come
nella più matura, perché in quella,
occupati a litigare e perorare la causa della
nostra vita, meno badiamo a quell'angolo d'anima
donde esso risuona. E anche, egli, l'invisibile
fanciullo, si pèrita vicino al giovane
più che accanto all'uomo fatto e al vecchio,
ché più dissimile a sé vede
quello che questi. Il giovane in vero di rado e
fuggevolmente si trattiene col fanciullo;
ché ne sdegna la conversazione, come chi si
vergogni d'un passato ancor troppo recente. Ma
l'uomo riposato ama parlare con lui e udirne il
chiacchiericcio e rispondergli a tono e grave; e
l'armonia di quelle voci è assai dolci ad
ascoltare, come d'un usignuolo che gorgheggi presso
un ruscello che mormora.
- O
presso il vecchio grigio mare. Il mare è
affaticato dall'ansia della vita, e si copre di
bianche spume, e rantola sulla spiaggia. Ma tra
un'ondata e l'altra suonano le note dell'usignuolo
ora singultite come un lamento ora spicciolate come
un giubilo, ora punteggiate come una domanda.
L'usignuolo è piccolo, e il mare è
grande; e l'uno è giovane, e l'altro
è vecchio. Vecchio è l'aedo, e
giovane la sua ode. Väinämöinen
è antico, e nuovo il suo canto. Chi
può immaginare, se non vecchio, l'aedo e il
bardo? Vyàsa è invecchiato nella
penitenza e sa tutte le cose sacre e profane.
Vecchio è Ossian, vecchi molti degli skaldi.
L'aedo è l'uomo che ha veduto (oîde) e
perciò sa, e anzi talvolta non vede
più; è il non veggente
(aoidòs) che fa apparire il suo
canto.
- Non
l'età grave impedisce di udire la vocina del
bimbo interiore, anzi invita forse e aiuta,
mancando l'altro chiasso intorno, ad ascoltarla
nella penombra dell'anima. E se gli occhi con cui
si mira fuor di noi, non vedono più, ebbene
il vecchio vede allora soltanto con quelli occhioni
che son dentro lui, e non ha avanti sé altro
che la visione che ebbe da fanciullo e che hanno
per solito tutti i fanciulli. E se uno avesse a
dipingere Omero, lo dovrebbe figurare vecchio e
cieco, condotto per mano da un fanciullino, che
parlasse sempre guardando torno torno. Da un
fanciullino o da una fanciulla: dal dio o
dall'iddia: dal dio che sementò nei precordi
di Femio quelle tante canzoni, o dall'iddia cui si
rivolge il cieco aedo di Achille e di
Odisseo...
-
- ...Tornava
da paesi non forse più lontani che il
villaggio che è più vicino ai pastori
della montagna; ma esso ne parlava ad altri
fanciulli che non c'erano stati mai. Ne parlava a
lungo, con foga, dicendo i particolari l'un dopo
l'altro e non tralasciandone uno, nemmeno, per
esempio, che le schiappe da bruciare erano senza
foglie. Ché tutto a lui pareva nuovo e
bello, ciò che vi aveva visto, e nuovo e
bello credeva avesse a parere agli uditori. La
parola "bello" e "grande" ricorreva a ogni momento
nel suo novellare, e sempre egli incastrava nel
discorso una nota a cui riconoscere la
cosa...
-
- ...Saltava
qualche circostanza, per giungere a ciò che
importava più e che era più
sensibile...
-
- ...Ora
ricordava un fatto piccolo per farne intendere uno
grande, ora uno maggiore per farne vedere uno
minore. Così rappresentava un mare agitato
che con le grosse ondate spumeggianti si getta
contro la spiaggia, e strepita e tuona, per dar
l'idea d'una moltitudine d'uomini che accorre in un
luogo; e descriveva uno sciame di mosche intorno ai
secchielli pieni colmi di latte, per esprimere il
confuso e vasto agglomerarsi d'un esercito di
guerrieri.
- Questo
era il suo artifizio, se pure si può
chiamare artifizio ciò ch'egli faceva
così ingenuamente che spesso la cosa,
mediante il suo paragone, riusciva più
piccola, sebbene sempre paresse più chiara;
come quando confrontava il fluido parlare di alcuni
vecchi savi all'incessante frinire delle cicale, o
la resistenza d'un grande eroe all'indifferenza
d'un asino che séguita a empirsi d'erba nel
prato donde i bimbi vogliono cacciarlo a suon di
bastonate. No no: il fanciullino del cieco non
tanto voleva farsi onore, quanto farsi capire: non
esagerava; perché i fatti che raccontava,
gli parevano già assai mirabili così
come erano.
- Ed
egli sapeva, né per altro argomento se non
perché parevano anche a lui, che mirabili
dovevano parere anche agli altri bambini come lui,
che erano nell'anima di tutti i suoi uditori. I
quali ora come allora lo ascoltano con maraviglia.
E non sarebbe ragionevole, di cose che dopo trenta
secoli non si credono più verosimili. Ma
dopo pur trenta secoli gli uomini non nascono di
trent'anni, e anche dopo i trent'anni restano per
qualche parte fanciulli...
-
- ...Egli
è quello, dunque, che ha paura al buio,
perché al buio vede o crede di vedere;
quello che alla luce sogna o sembra sognare,
ricordando cose non vedute mai; quello che parla
alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole,
alle stelle: che popola l'ombra di fantasmi e il
cielo di dei. Egli è quello che piange e
ride senza perché, di cose che sfuggono ai
nostri sensi e alla nostra ragione. Egli è
quello che nella morte degli esseri amati esce a
dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere
in lacrime, e ci salva. Egli è quello che
nella gioia pazza pronunzia, senza pensarci, la
parola grave che ci frena. Egli rende tollerabile
la felicità e la sventura, temperandole
d'amaro e di dolce, e facendone due cose ugualmente
soavi al ricordo. Egli fa umano l'amore,
perché accarezza esso come sorella (oh! il
bisbiglio dei due fanciulli tra un bramire di
belve), accarezza e consola la bambina che è
nella donna. Egli nell'interno dell'uomo serio sta
ad ascoltare, ammirando, le fiabe e le leggende, e
in quello dell'uomo pacifico fa echeggiare stridule
fanfare di trombette e di pive, e in un cantuccio
dell'anima di chi più non crede, vapora
d'incenso l'altarino che il bimbo ha ancora
conservato da allora. Egli ci fa perdere il tempo,
quando noi andiamo per i fatti nostri, ché
ora vuol vedere la cinciallegra che canta, ora vuol
cogliere il fiore che odora, ora vuol toccare la
selce che riluce. E ciarla intanto, senza chetarsi
mai; e, senza lui, non solo non vedremmo tante cose
a cui non badiamo per solito, ma non potremmo
nemmeno pensarle e ridirle, perché egli
è l'Adamo che mette il nome a tutto
ciò che vede e sente. Egli scopre nelle cose
le somiglianze e relazioni più ingegnose.
Egli adatta il nome della cosa più grande
alla più piccola, e al contrario. E a
ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza,
e curiosità meglio che loquacità:
impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per
poter ammirare.
- Né
il suo linguaggio è imperfetto come di chi
non dica la cosa se non a mezzo, ma prodigo anzi,
come di chi due pensieri dia per una parola. E a
ogni modo dà un segno, un suono, un colore,
a cui riconoscere sempre ciò che vide una
volta...
-
-
-
- Gabriele
d'Annunzio
- da
Alcyone
-
- Lungo
l'Affrico nella sera di giugno dopo la
pioggia.
-
- Grazia
del ciel, come soavemente
- ti
miri ne la terra abbeverata,
- anima
fatta bella dal suo pianto!
- O
in mille e mille specchi sorridente
- grazia,
che da la nuvola sei nata
- come
la voluttà nasce dal pianto,
- musical
nel mio canto
- ora
t'effondi, che non è fugace,
- per
me trasfigurata in alta pace
- a
chi l'ascolti.
-
- Nascente
Luna, in cielo esigua come
- il
sopracciglio de la giovinetta
- e
la midolla de la nova canna,
- sì
che il più lieve ramo ti
nasconde
- e
l'occhio mio, se ti smarrisce, a
pena
- ti
ritrova, pel sogno che l'appanna,
- Luna,
il rio che s'avvalla
- senza
parola erboso anche ti vide;
- e
per ogni fil d'erba ti sorride,
- solo
a te sola.
-
- O
nere e bianche rondini, tra notte
- e
alba, tra vespro e notte, o bianche e
nere
- ospiti
lungo l'Affrico notturno!
- Volan
elle sì basso che la molle
- erba
sfioran coi petti, e dal piacere
- il
loro volo sembra fatto azzurro.
- Sopra
non ha susurro
- l'arbore
grande, se ben trema sempre.
- Non
tesse il volo intorno a le mie
tempie
- fresche
ghirlande.
-
- E
non promette ogni lor breve grido
- un
ben che forse il cuore ignora e
forse
- indovina
se udendo ne trasale?
- S'attardan
quasi immemori del nido,
- e
sul margine dove son trascorse
- par
si prolunghi il fremito dell'ale.
- Tutta
la terra pare
- argilla
offerta all'opera d'amore,
- un
nunzio il grido, e il vespero che
muore
- un'alba
certa.
-
-
-
- Filippo
Tommaso Marinetti
-
- Manifesto
tecnico della letteratura
futuristica
-
- Il
manifesto reca la data dell'11 maggio
1912.
-
- 1.
Bisogna distruggere la sintassi disponendo i
sostantivi a caso, come nascono.
- 2.
Si deve usare il verbo all'infinito, perché
si adatti elasticamente al sostantivo e non lo
sottoponga all'io dello scrittore che osserva o
immagina. Il verbo all'infinito può, solo,
dare il senso della continuità della vita e
l'elasticità dell'intuizione che la
percepisce.
- 3.
Si deve abolire l'aggettivo, perché il
sostantivo nudo conservi il suo colore essenziale.
L'aggettivo, avendo in sé un carattere di
sfumatura, è inconcepibile con la nostra
visione dinamica, poiché suppone una sosta,
una meditazione.
- 4.
Si deve abolire l'avverbio, vecchia fibbia che
tiene unite l'una all'altra le parole. L'avverbio
conserva alla frase una fastidiosa unità di
tono.
- 5.
Ogni sostantivo deve avere il suo doppio,
cioè il sostantivo deve essere seguito,
senza congiunzione, dal sostantivo a cui è
legato per analogia. Esempio: uomo-torpediniera,
donna-golfo, folla-risacca, piazza-imbuto,
porta-rubinetto.
- Siccome
la velocità aerea ha moltiplicato la nostra
conoscenza del mondo, la percezione per analogia
diventa sempre più naturale per l'uomo.
Bisogna dunque sopprimere il come, il quale, il
così, il simile a. Meglio ancora, bisogna
fondere direttamente l'oggetto coll'immagine che
esso evoca, dando l'immagine in iscorcio mediante
una sola parola essenziale.
- 6.
Abolire anche la punteggiatura. Essendo soppressi
gli aggettivi, gli avverbi e le congiunzioni, la
punteggiatura è naturalmente annullata,
nella continuità varia di uno stile vivo che
si crea da sé, senza le soste assurde delle
virgole e dei punti. Per accentuare certi movimenti
e indicare le loro direzioni, s'impiegheranno segni
della matematica: + - x : = > <, e i segni
musicali.
- 7.
Gli scrittori si sono abbandonati finora
all'analogia immediata. Hanno paragonato per
esempio l'animale all'uomo o ad un altro animale,
il che equivale ancora, press'a poco, a una specie
di fotografia. (Hanno paragonato per esempio un
fox-terrier a un piccolissimo puro-sangue. Altri,
più avanzati, potrebbero paragonare quello
stesso fox-terrier trepidante, a una piccola
macchina Morse. Il lo paragono invece, a un'acqua
ribollente. V'è in ciò una gradazione
di analogie sempre più vaste, vi sono dei
rapporti sempre più profondi e solidi,
quantunque lontanissimi).
- L'analogia
non è altro che l'amore profondo che collega
le cose distanti, apparentemente diverse ed ostili.
Solo per mezzo di analogie vastissime uno stile
orchestrale, ad un tempo policromo, polifonico, e
polimorfo, può abbracciare la vita della
materia. [...]
- 8.
Non vi sono categorie d'immagini, nobili o
grossolane o volgari, eccentriche o naturali.
L'intuizione che le percepisce non ha né
preferenze né partiti-presi. Lo stile
analogico è dunque padrone assolto di tutta
la materia e della sua intensa
vita.
- 9.
Per dare i movimenti successivi d'un oggetto
bisogna dare la catena delle analogie che esso
evoca, ognuna condensata, raccolta in una parola
essenziale. [...]
- 10.
Siccome ogni specie di ordine è fatalmente
un prodotto dell'intelligenza cauta e guardinga
bisogna orchestrare le immagini disponendole
secondo un maximum di disordine.
-
11. Distruggere nella letteratura l'"io",
cioè tutta la psicologia. L'uomo
completamente avariato dalla biblioteca e dal
museo, sottoposto a una logica e ad una saggezza
spaventose, non offre assolutamente più
interesse alcuno. Dunque, dobbiamo abolirlo nella
letteratura, e sostituirlo finalmente colla
materia, di cui si deve afferrare l'essenza a colpi
d'intuizione, la qual cosa non potranno mai fare i
fisici né i chimici.
- Sorprendere
attraverso gli oggetti in libertà e i motori
capricciosi, la respirazione, la sensibilità
e gli istinti dei metalli, delle pietre, del
legno, ecc. Sostituire la psicologia dell'uomo,
ormai esaurita, con l'ossessione lirica della
materia.
- Guardatevi
dal prestare alla materia i sentimenti umani, ma
indovinate piuttosto i suoi differenti impulsi
direttivi, le sue forze di comprensione, di
dilatazione, di coesione, o di disgregazione, le
sue torme di molecole in massa o i suoi turbini di
elettroni. Non si tratta di rendere i drammi della
materia umanizzata. È la solidità di
una lastra d'acciaio, che c'interessa per sé
stessa, cioè l'alleanza incomprensibile e
inumana delle sue molecole o dei suoi elettroni,
che si oppongono, per esempio, alla penetrazione di
un obice. Il calore di un pezzo di ferro di legno
è ormai più appassionante, per noi,
del sorriso o delle lagrime di una
donna.
- Noi
vogliamo dare, in letteratura, la vita del motore,
nuovo animale istintivo del quale conosceremo
l'istinto generale allorché avremo
conosciuto gl'istinti delle diverse forze che lo
compongono.
- Nulla
è più interessante, per un poeta
futurista, che l'agitarsi della tastiera di un
pianoforte meccanico. Il cinematografo ci offre la
danza di un oggetto che si divide e si ricompone
senza intervento umano. Ci offre anche lo slancio a
ritroso di un nuotatore i cui piedi escono dal mare
e rimbalzano violentemente sul trampolino. Ci offre
infine la corsa d'un uomo a 200 chilometri all'ora.
Sono altrettanti movimenti della materia, fuor
dalle leggi dell'intelligenza e quindi di una
essenza più significativa.
- Bisogna
introdurre nella letteratura tre elementi che
furono finora trascurati:
- 1.
Il rumore (manifestazione del dinamismo degli
oggetti);
- 2.
Il peso (facoltà di volo degli
oggetti);
- 3.
L'odore (facoltà di sparpagliamento degli
oggetti). [...]
-
- Le
intuizioni profonde della vita congiunte l'una
all'altra, parola per parola, secondo il loro
nascere illogico, ci daranno le linee generali di
una psicologia intuitiva della materia. Essa si
rivelò al mio spirito dall'alto di un
aeroplano. Guardando gli oggetti, da un nuovo punto
di vista, non più di faccia o per di dietro,
ma a picco, cioè di scorcio, io ho potuto
spezzare le vecchie pastoie logiche e i fili a
piombo della comprensione antica.
- Voi
tutti che mi avete amato e seguìto fin qui,
poeti futuristi, foste come me frenetici
costruttori d'immagini e coraggiosi esploratori di
analogie. Ma le vostre strette reti di metafore
sono disgraziatamente troppo appesantite dal piombo
della logica. Io vi consiglio di alleggerirle,
perché il vostro gesto immensificato possa
lanciarle lontano, spiegate sopra un oceano
più vasto.
- Noi
inventeremo insieme ciò che io chiamo
l'immaginazione senza fili. Giungeremo un giorno ad
un'arte ancor più essenziale, quando oseremo
sopprimere tutti i primi termini delle nostre
analogie per non dare più altro che il
seguito ininterrotto dei secondi termini.
Bisognerà, per questo, rinunciare ad essere
compresi. Esser compresi, non è necessario.
[...]
- Ci
gridano: "La vostra letteratura non sarà
bella! Non avremo più la sinfonia verbale,
dagli armoniosi dondolii, e dalle cadenze
tranquillizzanti!" Ciò è bene inteso!
E che fortuna! Noi utilizziamo, invece, tutti i
suoni brutali, tutti i gridi espressivi della vita
violenta che ci circonda. Facciamo coraggiosamente
il "brutto" in letteratura, e uccidiamo dovunque la
solennità. Via! non prendete di quest'arie
da grandi sacerdoti, nell'ascoltarmi! Bisogna
sputare ogni giorno sull'Altare dell'Arte! Noi
entriamo nei dominii sconfinati della libera
intuizione. Dopo il verso libero, ecco finalmente
le parole in libertà! (...)
- Poeti
futuristi! Io vi ho insegnato a odiare le
biblioteche e i musei, per prepararvi a odiare
l'intelligenza, ridestando in voi la divina
intuizione, dono caratteristico delle razze latine.
Mediante l'intuizione, vinceremo l'ostilità
apparentemente irriducibile che separa la nostra
carne umana dal metallo dei motori.
- Dopo
il regno animale, ecco iniziarsi il regno
meccanico. Con la conoscenza e l'amicizia della
materia, della quale gli scienziati non possono
conoscere che le reazioni fisico-chimiche, noi
prepariamo la creazione dell'uomo meccanico dalle
parti cambiabili. Noi lo libereremo dall'idea della
morte, e quindi dalla morte stessa, suprema
definizione dell'intelligenza
logica.
-
-
-
- Giuseppe
Ungaretti
- Il
porto sepolto
-
- Datata
"Mariano il 29 giugno 1916"
-
- Vi
arriva il poeta
- e
poi torna alla luce con i suoi
canti
- e
li disperde
-
- Di
questa poesia
- mi
resta
- quel
nulla
- d'inesauribile
segreto
-
-
-
- Commiato
-
- Datata
"Locvizza il 2 ottobre 1916" e, con il titolo di
Poesia, chiudeva la prima edizione del Porto
sepolto.
-
- Gentile
- Ettore
Serra
- poesia
- è
il mondo l'umanità
- la
propria vita
- fioriti
dalla parola
- la
limpida meraviglia
- di
un delirante fermento
-
- Quando
trovo
- in
questo mio silenzio
- una
parola
- scavata
è nella mia vita
- come
un abisso
-
-
-
- Charles
Baudelaire
- da
I Fiori del male
-
- Corrispondenze
-
- È
un tempio la Natura ove viventi
- pilastri
a volte confuse parole
- mandano
fuori; la attraversa l'uomo
- tra
foreste di simboli dagli occhi
- familiari.
I profumi e i colori
- e
i suoni si rispondono come echi
- lunghi
che di lontano si confondono
- in
unità profonda e tenebrosa,
- vasta
come la notte ed il chiarore.
- Esistono
profumi freschi come
- carni
di bimbo, dolci come gli
òboi,
- e
verdi come praterie; e degli altri
- corrotti,
ricchi e trionfanti, che hanno
- l'espansione
propria alle infinite
- cose,
come l'incenso, l'ambra, il
muschio,
- il
benzoino e cantano dei sensi
- e
dell'anima i lunghi rapimenti.
-
-
-
- Eugenio
Montale
- da
Ossi di seppia
-
- I
limoni
-
- Ascoltami,
i poeti laureati
- si
muovono soltanto fra le piante
- dai
nomi poco usati: bossi ligustri o
acanti.
- Io,
per me, amo le strade che riescono agli erbosi
- fossi
dove in pozzanghere
- mezzo
seccate agguantano i ragazzi
- qualche
sparuta anguilla:
- le
viuzze che seguono i ciglioni,
- discendono
tra i ciuffi delle canne
- e
mettono negli orti, tra gli alberi dei
limoni.
-
- Meglio
se le gazzarre degli uccelli
- si
spengono inghiottite dall'azzurro:
- più
chiaro si ascolta il susurro
- dei
rami amici nell'aria che quasi non si
muove,
- e
i sensi di quest'odore
- che
non sa staccarsi da terra
- e
piove in petto una dolcezza
inquieta.
- Qui
delle divertite passioni
- per
miracolo tace la guerra,
- qui
tocca anche a noi poveri la nostra parte di
ricchezza
- ed
è l'odore dei limoni.
-
- Vedi,
in questi silenzi in cui le cose
- s'abbandonano
e sembrano vicine
- a
tradire il loro ultimo segreto,
- talora
ci si aspetta
- di
scoprire uno sbaglio di Natura,
- il
punto morto del mondo, l'anello che non
tiene,
- il
filo da disbrogliare che finalmente ci
metta
- nel
mezzo di una verità.
-
- Lo
sguardo fruga d'intorno,
- la
mente indaga accorda disunisce
- nel
profumo che dilaga
- quando
il giorno più languisce.
- Sono
i silenzi in cui si vede
- in
ogni ombra umana che si allontana
- qualche
disturbata Divinità.
-
- Ma
l'illusione manca e ci riporta il
tempo
- nelle
città rumorose dove l'azzurro si
mostra
- soltanto
a pezzi, in alto, tra le cimase.
- La
pioggia stanca la terra, di poi;
s'affolta
- il
tedio dell'inverno sulle case,
- la
luce si fa avara-amara l'anima.
- Quando
un giorno da un malchiuso portone
- tra
gli alberi di una corte
- ci
si mostrano i gialli dei limoni;
- e
il gelo del cuore si sfa,
- e
in petto ci scrosciano
- le
loro canzoni
- le
trombe d'oro della solarità.
-
-
-
- Non
chiederci la parola
-
- Non
chiederci la parola che squadri da ogni
lato
- l'animo
nostro informe, e a lettere di
fuoco
- lo
dichiari e risplenda come un croco
- perduto
in mezzo a un polveroso prato.
-
- Ah
l'uomo che se ne va sicuro,
- agli
altri ed a se stesso amico,
- e
l'ombra sua non cura che la
canicola
- stampa
sopra uno scalcinato muro!
-
- Non
domandarci la formula che mondi possa
aprirti,
- sì
qualche storta sillaba e secca come un
ramo.
- Codesto
solo oggi possiamo dirti,
- ciò
che non siamo, ciò che non
vogliamo.
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