LA PIÚ GRANDE
ANTOLOGIA VIRTUALE
DELLA POESIA ITALIANA
Poeti contemporanei affermati, emergenti ed esordienti
Altre Poesie di
Alfonso Orsilli
ultimi versi e basta
- Al mio paese
- Sempre, sull'onde
- nostalgiche dei
- cari ricordi spiri
- tu l'aria dei carmi
- all'immenso mio
- cuor di fanciullo,
- di capre paese
- e di zappe,
- ove di fischi
- i treni non empiono
- gli uditi, né odori
- salmastri
- giungon dal mare:
- via del Vento,
- passeggier girovago.
- Dal campanil della
- tua chiesa
- al sommo quasi
- (ove a picchiar felice
- i bronzi sacri
- fanciulletto andavo)
- vidi i verdi colli
- primi e valle:
- e da questi luoghi
- (del morto me del vento
- amico) del campanòn
- vedea nei dì festivi
- nell'immensa bocca
- la ferrea lingua
- per rintocchi sonori
- al ciel parlare.
- E pur tu nei vecchi
- muri allegri passeri
- avevi (e vocieri sciami
- per l'aria volavano)
- cui Primavera in bocca
- grilli metteva
- a trar musica vivace,
- onde deliziar
- del figlio tuo
- ultimi tardi i risvegli
- e i sogni nel cuor.
- XX secolo
Atomiche armi, civiltà superbe, lunari sonde e venusiane e missili, spaziali navi e santo papa: religion cadente e fame, fame, fame, fame! Ecco un bel secolo incosciente ch'io d'anni già carico e di lutti andare incontro al metafisico sepolcro delle ore vedo; ove tutte remote sono ère d'immanenti cose madri, e delle meno antiche epoche, cui i prediletti furon figli gli atavi miei e ignoti all'uomo d'oggi tutti, il morto tempo indisturbato giace; e dei miei cari amici i vecchi padri vedo su la funerea via andar con esso, e non il mio, già da più lustri estinto. Ahi! pur io già m'appresso a questa via onde passa il pensier mio incessante; e sempre più, il cuor mio ostinato, prole al Sole nega, perché io vinca, unico modo, e sol d'altri la morte e della vita i guai. Purtroppo sol chi non nasce fugge l'avide mani dell'antica Morte, che tutto e ognuno, con frequenti viaggi, nel segretissimo suo ostello porta! E serberà la Morte d'ogni cosa e uomo morto il nome, allor che stanca la Terra a generar peccati e lai all'uman genere, nell'universo probabilmente vagherà dissolta. Ma forse un giorno questa madre Terra lungi per suo divago andrà dal Sole sposo, e in gelida fascia e in grande buio, di sua letargica vita vivente, sarà di per sé memore fors'unica generatrice di vite, per cui già d'insondabil tempo i mortali si tramandano gli spirti donde le guerre e danzano sui sogni candidi di bella Pace, e l'Uomo e la sua mano e il grande senno intessono incompiuta ognora al postero la bella Storia. Tu non udrai di pargoletti miei i vagiti primi, o paterno mio Secolo! né sentirai di lor vita il pianto cui d'antichi tempi il dio Dolor si nutre. Invano la mia vecchia madre morendo attenderà nipoti: né guerrier forzato, né tiranno ardito o servo nascerà dal mio volere. I raggi pii del Sole cercheranno invano i non nati figli a illuminar di vivida luce i lor vergini occhi, perché vedali colei che felice li fecondava nel suo grembo materno e, i mesi e i giorni annoverando, li cresceva. Forte la Natura (invincibile matrigna di miserevoli esseri e infiniti) nel misterioso suo intento offesa, porgendo ad asìaco macaco o d'Africa antropomorfo i dolcissimi suoi frutti, raccomanderà ad esso la fiaccola mia di questa passeggiera vita. E morrà per sempre questo sangue, e così questo mio ribelle cuore. Ma fino a quando la rotante intorno al Sole Palla viaggerà sull'aerea via (i mari e i monti tutti e gli animali e l'uomo capitano e le sue dame seco a spasso nel ciel portando) i del buio naviganti Posteri vedran dell'ombre del sole i gioghi quali mute danze, ove encomiabil Zeffiro è maestro; marciranno l'enfiate carogne di caligine prede ove non corvo, non marabù, non famelica jena, né avvoltoio o sciacallo avrà l'invito a l'aperta mensa d'orribil pasto che, con di lezzo pregna aria chiamando, offre ai suoi selvaggi figli Natura; i miti pastori canteranno appo gli armenti e più forte palpiteranno lor nei petti i cuori quando, latrando intorno a' ricci i lor fidi festosi scodinzoleranno; l'avide genti ancora impazziranno a conclusion dei fallimenti, e Tirannia e Odio sempre vivranno a provocar le lotte agli uomini affinché essi non s'abbian tempo a meditar su l'inutilità d'ogni vita. Ma a l'armonioso coro di vita mancheranno le dome cavalle di bradi puledri madri, che già il moderno uomo, dell'antico aurato cocchio omai privo e dell'aratro, solo a fornir beccai nudre il cavallo. Né più nell'aria soffiando il gentil Zeffiro scambia agli equini uditi i tremuli nitriti che gioconda fean e cara al rude uomo la campagna. L'usignol sarà, sagace; e, tornato alla natale valle, nel dolce sambuco in bianchi ombrelli fior fischiando, ridesterà il ramarro dal letargo, perché esso un giorno, movendo il passo rumoroso nella fratta arsiccia, disvierà la mira dai pennuti al giovin tirator di fionda, scalzo monello del villaggio abitator. Oggi, al suonar mio del trentennio morto, a ben scrutar dei figli tuoi nei pregi, ovunque l'occhio lacrimoso io meni poeta non scorgo in sì vaste terre, o Secol, che dei giorni tuoi ultimo corso l'umane mosse a poetar s'accinga. Odo però di spensierato riso un clamor di gioie che nei nuovi palazzi canta un passeggiero inno. Ivi dimora ha il dotto e la mondana; ivi il fanciullo beato ignaro cresce al ministero grato, ove del padre scaltrezza e la fortuna posseggono già ora il tramandabil seggio: ivi la balia allatta un pargolo al gioco assente con il sen materno. In queste umiliatrici stanze v'entrai in veste di barbiere, e vidi il maggiordomo fare inchini a mille al suo commendatore; e i servi vidi, quali zelanti, mostravan dell'uomo la nullità. Ma spariti al mio guardo i servi, miravo lucenti cose e artistiche e ordinati libri e belli in un scaffal pregiato: e il cuor mi gioìa nel petto pel vano all'angol nello scaffale. Di nullità ti cibi, e tenerello, pensai; battimi pur festoso in petto che certo avrai, o misero, il dono che sogni. E il grazie astieni al pingue uom che te non loda s'anche i versi aduna in biblioteca: a ornare il tutto ei gode; né a' librai porgilo o ad editori che a gloria ambir non sanno: i derisori di Mecenate il grande che in Roma antica di signorilità gettava nell'arte un seme eterno, premi largendo a puri estri a gloria eletti. Son del Calcio essi i mecenati! Ma se del Postero la città si crea già nuova e nuovo il vitto, e di velocità infinita il cocchio ch'ei recherà da Terra a Marte e a Giove e sulla Luna in cielo, perché poeta non nasce a pinger co' versi una tela bella a vergin nome Novecento? Così, par d'uomo, stancatasi Natura, affidato a terzi l'arduo compito, più non cura l'arte? Pietà mi desti, o Postero lettore. Ad antiche fonti un dì il tuo spirito recherai a dissetar col suon del verso, ov'io passai coi labbri avidi su secche bave che ivi lasciarono i fatati da Nausea e Schifo. E ne nascea la gloria a onta delle ricchezze ad essi avverse. Così si immortalavano i nomi. Unico premio che Poesia rende ai poveri vati, sacri morti. Ma questi nobili membri d'eletta famiglia, che sì quetati dormon gli spiriti un tempo alteri, quando nell'iperuranio regno, l'angelo lor spedito, largendo scelta offriva dalla destra palma dell'or terren la via e un cuore tranquillo e duro, mentre dalla mancina il sentier petroso che a Gloria conduce e un cuore ramingo e solo e di pietà imbevuto ciascuno a suo turno, ghermendo i miseri doni che la sinistra cari stringea, al mesto nunzio dignitoso rispondea: "D'ACHILLE, MORTAL PRIMIERO CHE GLORIA RAGGIUNSE CON VITALI DI' PAGANDO, DELL'UCCISOR D'ETTOR DI TROIA E DI PATROCLO AMICO SCELGO LA VIA CHE' NE' LONGEVA VITA, NE' SACCHI COLMI D'ORO FELICE L'UOMO FANNO. MA CARA M'E' SI' FAMA AL NOME CH'IL MONDO SUONERA' CON VARIO FAVELLAR, E, vedendo il nunzio tacito udente, aggiungea radioso: AL TUO SIGNOR DIRAI CH'INFRA BRAVI IN TERRA MEDIO ESSER NON PAGA IL MIO SPIRITO; MA TAL CH'OGNUNO L'ESTRO ADDITI QUANDO SPICCATO IL VOLO L'OPRA AVRA': E NE RINTRONI SI' LUNGO L'ECO DEL SUON DEL NOME, CHE' AL DOLCE MIO RITORNO GODER NE POSSA ETERNO. Il capo movendo in dissensoso gesto, queto il servo s'allontanava. "O Signor mio possente", al sire giunto dicea, "questi poeti son pazzi, pazzi, pazzi". E a lui commiserando l'iddio: "Beato tu sei ché poeti non intendi". E già non spero o Posteri, che ancora ignoto un grembo, vi porterà alla luce un triste, ameno, pien di senno; che verso oggi non nasce forte a dire: A ME FA PUZZA IN TASCA IL SOLDO! Pur anelerà l'uom di poi portar l'orecchio ai freschi versi d'aurea collana ultimo anello. Ah sì, pur domani un giudice dirà a quest'era mia nefanda: RUBANDO L'UOMO VISSE E CON CAMBIALI. Mille armonie eterne vivono nelle leggi che Natura all'uomo adduceva ornando orizzonti e senni; e in fascino ancor risplendono ov'io prostrato nacqui ai piedi d'un Supremo. E pio mi fanno i remoti astri a illuminare del mar la volta nati ed i pianeti oscuri Mondi. Ma quando penso all'armonia dei senni che fan dell'uomo la famiglia, e a questo viver vario d'animali e vegetale regno, immobile qual sono e muto al meditare intendo, la fronte in gesto privo mi segno. E non fors'ateo son'io, se d'ogni vita il fin mi chieggo? Non so fors'io che Iddio padre non ebbe e nascita giammai? Arcano, e più, è questo in ciel nascosto Iddio, affascinante e nulla cui ogni uom di senno traccia brama. Arcana dell'uomo è la speranza che pur morta di lui la carne e incenerite l'ossa e la sua mente, riviva eterno egli o in aria o di remota terra in seno o in una stella: oppur nel flutto lezzo dell'inferno. Arcano è il fine per cui al Sole le vite eterne vengono e nelle tenebre mute tornano. Così tu al ragionar mi porti, o padre mio Secolo; ché taluni figli atei non facesti, e religiosi neppur si sanno. E di questi spiriti ribelli Ugo fece parte; ché cantando alle obliate sepolture e del sacrario italo glorioso il bello, volgea all'eterno il senno e a Iddio; ma poi che l'estro dentro gli dormia (ove della gloria il sogno tace e di pura material vita ardono i sensi) aborriva certo i Numi, l'ire, e i lor castighi. E serbi il Tempo all'uomo il mistico mistero e il pensier vario, ove del Cielo al beare risorga la speranza nei ribelli figli erranti al dogma di Cristo. E solo ai ribelli nati, o Foscolo, serba il Fato gloria imperitura, se lungo il terreno cammino un umanista in tempo un libro addita a chi ignorante e genio vive. Ma talora il Grande pascendo agnelli invecchia, e nella nuda gleba, di squallidi natali desolata madre, ignaro muore: e se pur pria che l'almo Sol saluti, un ciarliero labbro gli narri a caso un fatto eterno, ei confonderà certo, amato mio, la gloria alla ricchezza. Io ti scoprii per fato e il Dante prima ed altri. E forse perché fatale che l'egoista gloria, che imponeva il viver forzato al tuo stanco corpo, raccogliesse la mia lode, canto. Di mille maestri il superbo fosti a Gabriele che pure d'amori n'ebbe mille e prode fu nell'armi, in lettere, e tra i borghesi: e del tempo fu contento e degli amici. O egregia cosa, o Maestro miro! La bella Terra che in mar distende il corpo snello e il capo posa grosso sul guancial di vari popoli fatto, che vantò infiniti geni e pure del tuo bel nome imbandierata gode, s'anche le reliquie tue sacre conserva, agli amati figli non ha mutato il trattamento antico; madre Natura per essi un patto stipulò crudele onde pel poeta i litigi ovunque han calamita: e tenebroso è il campo ove d'armi privi ei sempre pugna. Ma te certo il cuor di gioia s'empia quel giorno quando Calliope cortese ti fece dell'Indovin la profezia. Io il so. Tu quel dì nel cielo volasti con la Musa alata in visita alle celesti cose; e un giovanil vigor dentro ti scuotea e t'incitava alle dolci speranze d'emulare dell'amore l'iddio e il vento libero. Ecco! Il tuo aver ti rendo. E semplici le parole ti siano conforto e vanto... Sovrasti la fama del nome tuo, non dei mortali ultimi i giorni, ma dei notturni astri la vita, ond'Esso e il Tempo (soli!), per man congiunti nell'amicizia estrema, e d'Eternità fratelli, lacrimeranno sull'estinzione del Mondo dell'Uom le doglie e sull'ottenebrata luce, donde ridenti o al tergimento pietoso intente, all'Ore d'esse liete vengon or le Vite. Di tanto sapere e di più lode degno, o non tacito Profeta, il tuo spirito nelle miserie tue campò grande e signore qual mai altro il Mondo non ebbe. E se del corpo tuo la sostanza fu fragile e ne perì anzitempo, reo altro non fu fuori dell'invidiabil tuo viver completo! Paterno mio Secolo, nel declino tuo lento abissale, un genio che vien dallo stivale con te non invecchia. Arido deserto e piatto, ove la vetta è duna, è or l'antica patria dell'uomo genio.
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