LA PIÚ GRANDE
ANTOLOGIA VIRTUALE
DELLA POESIA ITALIANA
Poeti contemporanei affermati, emergenti ed esordienti
Poesie di
Alfonso Orsilli
- Il ritratto antico
- Oggi di anni ne compio trentasei.
- Non son già vecchio, giovin non mi vedo.
- Mi guardo quando gli anni erano sei.
- Ben mi riguardo. Dico: "Non ci credo".
- E voi? ... ci credereste? Ecco il ritratto:
- Al tra le braccia della mamma giovane.
- Riccioli, gote fresche. Dentro al piatto
- cade da man di mamma il bianco pane.
- Gaio ha l'occhio. Vedete? Il labbro ride!
- Non... no! non mi guardate in carne. Cosa?
- Non ero io?! Guardate la mia iride!
- Oh no! Certo... ragione avete a iosa.
- Egli ha la mamma giovane. Ha sul viso
- del fior che sboccia il giovanil sorriso.
- L'amicizia
Delicata, squisita casa. La sola, dopo l'Amore, che sa dare grande gioia agli Umani. Trasparente, e fragile, come fine cristallo, essa è conscia forse della volontà prevaricatrice delle genti, restia a nascere, e perché si presenti, disponibile, occorre che prima l'Uomo la inventi, quasi la corteggi con lusinghe; che cioè la semini - per dire -, e in terra buona, altrimenti non germoglierebbe e se pure avvenisse, sana non sarebbe ma inutile. Alcuno dice non esistere già io altrove spiego l'inesistenza e convinco: ed ecco il Paradosso, vivo arriccante, ma ciò non è vero. Essa è viva nell'aria e nell'acqua, attraversa le agonie e le speranze non solo di ognuno ma anche di tutte le cose; come un Dio buono per chi l'ama, e onnipresente: tra cellula e cellula, tra pelle e penna, tra pelle e pelo. Certo è rara: "Chi trova un Amico trova un Tesoro". Ed è perciò che l'Amicizia può solo essere LIMPIDA CALOROSA SPONTANEA, dolcissima amicizia capace di meritarsi dal Poeta la Poesia ora letta. P.S. Spiego, nella mia commedia, come l'amicizia non esiste e convincendo il lettore, viene a provarsi così come l'Assoluto nelle cose non esiste, ma sì il Paradosso grazie al quale nasce l'arricchimento di tutto quanto esso tocca.
- Valentina di Gianna
Una cosina tu sei, morbida che vai, vai sempre, instancabile, tra gatti e gattini, tra Zie e Nonna di Mamma, tra ginocchia e gambe di Mamma, di Nonna a nome Ada, tra quella di chi arriva a salutarti, per vederti, toccarti, a baciarti, palleggiarti... (No, palleggiarti no: tu pesi!) Nella cornice dorata dei tuoi riccioli, entro il tuo roseo viso di petalo, brillano se guardo i tuoi occhi intriganti. Occhi che indagano vogliosi di scoprire ogni cosa. E mentre impari a leggere di tutti nei gesti, nel gustare di ciascuno le carezze, scopri, che ciò che più t'interessa, della Gente è l'animo, il contenuto amoroso che Tutti mortali vantiamo ai venti, alle stelle, insensibili. Così da te anche viene Alfonso che sul caldo o freddo del tempo con Mamma o Nonna cianciando, si sofferma alla tua grazia: perché hai, tu, l'epidermide fresca del fiore quando è bello, ove l'occhio corre (s'abbevera), mentre avide inspirano le nari, freman le labbra, bisticcia con altri ogni dito di mano, per poter, primo, su te aver contatto. Vai, fila; fila, vai. Cresci. Cresci tra baci e carezze, e, pacche. D'insegnamenti ti nutrirai. E, t'innamorerai.
- Il rovo
Nella siepaia calda, armoniosa di canti, immobile troneggia, labirinteo pruno, spinoso groviglio dal tempo intricato, il Rovo dai fiori a grappoli, ove il nettare l'ape sugge, e la farfalla maculata nell'ali poiché vi giunge dall'aria, saltando, ancor prima che, nascendo sì bianca, la mora passa pel verde colore e pel rosso che precede poi l'ultimo, il nero che dà essa il nome. Spoglio in autunno sei o Rovo del pettirosso abitacolo del passero campestre asilo e d'ogni ciarlier volatile ròcca: inespugnabil ròcca allor che, saettante a fior di zolla, famelico astuto, dissemina il falco terror di morte in tutta la mia valle. Io fanciulletto, nel bel calar del sole udii rapito alle nascenti stelle un usignol cantare o Rovo, e lesto menai la vista al fosco tuo groviglio: volò del canto il re, menando in brevi oscillazioni un esile tuo braccio pendulo.
- Abbandonato paese
Pietre lontane tra voi combaciate a fare attigue case, vie tavte, e due chiese (bel paese, piccolo, pugliese): sentite voi forse di me la mancanza nell'unica stanza ov'i gemiti spandei e i risi miei primi e le preghiere? Io la vostra sento nostalgia e del vento che negli anni belli svolazzar mi fece la chioma sconcia folta e quasi bionda allorché giocondo qual satiro andavo i giorni vivendo. O mio Paese, ricordi tu forse quando bambino giocavo soletto e la dolce mia mamma al suo bambino chiamava Pupetto? Allor mi portava (qual fierezza di donna e qual gioia) nel letto, ed io privo d'intelletto, bevendo del suo petto gustavo il suo bacetto. Allor tu m'abbracciavi e pur tu mi parlavi vedendomi crescere, piangere, ridere. Poi, un dì memore, quando fumai, misi le ali e da te volai; o caro d'implumi a lunga vita nido. Promisi alla mamma di tornare a Natale; ma quanti Natali passaron d'allora? Io sono smemorato, in questo mio vivere errato. Son forse il figlio tuo più sfortunato. Ma di essere sol chiedo perdonato. Dillo a mamma mia che tant'è buona e pia se vuol venirmi incontro: io bramo il suo riscontro. A casa tornerei, Lucia sposerei: farei così felice me, mamma... e certo pure te. Le rondini in settembre, gli uomini in primavera, tutti di te parlano... ma lontano vanno. Chi prima, chi dopo, tutti a te ritornano e si sposano. Sei magico. Hai la calamita. Ma se Lucia... da te se ne già ita... o mio Paese amico, lontano... povero abbandonato!
- Lettera al morto
Oda, o Papà, il sepolto tuo timpano questo mio canto; e il pianto mio discerna ed il tormento, mentr'ergo a te, fra umani il meglio all'infantil mio occhio ed al presente, questo piccol monumento. Tu, che cruento un dì partisti dalla tua prole imberba tutta, e del fatal coltello ancor serbi il ricordo; tu che in stranio loco solingo giaci e prece niun ne odi mai: quando solitario per le vie a te ignare piangendo vado mi vedi? Odi tu forse il parlar del mio cervello? Sai del mio soffrir? Povero nascesti; vivesti faticando d'anno in anno, giorno per giorno; e il nido tuo caro lasciasti un dì d'implumi pieno... e partisti... Ove mai per cibo andasti! In Africa, al lavar ti recasti. Lagrimando la mamma allor di te parlava intorno al focolare; e nell'ascolto, quattro tuoi fior al Dio per te pregammo. Deluso dell'Africa il ritorno tuo empì la casa; ma spietata la cieca Morte in due lustri ti spedì nel regno putrido dei più. E vano fu di mamma e d'altri il pianto! Io non piansi; non seppi piangere. Or nella pace dei santi riposa e dei vicini, cui certo i cari loro fiori portano, invidia non ti nasca; se vorace un averno ti tiene, lontano un dì ci rivedremo. Venir vorrei a trovarti un dì con freschi fiori. Ancor nel ricordo vedo la tua muta tomba; del tuo silente paese ancor serbo il ricordo amico e odo sulle nude croci il vento e nei cipressi folti. Sulla fresca spalla perenne la tua bara mi lasciò una dolente impronta; e le labbra tue esangue ancor rispecchiarsi amano nell'iridi mie verdi. L'occhio tuo spento più il mio non vedrà; ma verrò un dì con freschi fiori a trovarti. E s'altri tuoi cari a me s'accoppieranno, e innanzi al tuo sepolcro pianger vorranno, io riderò; sì! riderò, perché essi smetteranno. Io so che tu ora risoffrir non sai, so della tua pace. Ma dell'infante tuo fedel compagno l'alma, torbido l'occhio a scrutar nessuno s'avvia; e cereo il viso, caro ti fu! Pazzo ciascun gonzo tuo parente mi chiama e dei savi nella cerchia entrar m'è vietato. Giro di qua, passo di là, ma sempre solo vado pensando, meco ragionando di cose che tu non certo più intendi, per questa buia via in cui sì giovin mi lasciasti. Talora in sogno ridente m'appari, o loquente il labbro tuo ne mesce sonoro un bel parlare, come un tempo in famiglia solevi e fuor dei tuoi (dolce notturno gioire!): felicissimo il mio cuore al figlio tuo offeso parla lusinghiero e caro: "Non dunque crudele è la Morte con l'uomo se lo squarta l'uccide l'interra ma vivo lo rimanda tra vivi". Ride così, da letizia preso, il mio cuore credulo e gabbato, mentre il tuo viso, dal mio guardo preso, lontan si parte e trasmutasi in vana sembianza e scompare. Destano il figlio tuo, indarno l'iridi sue smaniose te cercano affannate. Tornato tu sei dei morti al villaggio, e ivi festeggi e piangi i giorni e le pene. Nel lucerino campo di croci, sovra quali il germogliare è muto, l'ossa tue care giaciono; e hanno il Vento solo amico, il vagabondo che porta ai morti il suon delle campane. Porti in volo, o Spensierato! il mio saluto al padre mio lontano.
- Gratitudine al letto
Amico fedele fratello mio letto, quando stanco a te mi presento grato ti sono anche se grazie non dico. Tu solo sempre m'accogli comunque io sono! Sei morbido molleggiante e muto, e non t'offendi se in te mi distendo. Sei segreto! non dici a nessuno ciò ch'io a te solo racconto... ignaro di tutto. Lontano da te bisticcio con tutti: Belle, Cattivi ed Amici, tutti mi amano... e mi odiano. Tu solo veramente sei caro. In te solo io piango, sogno, e penso alla mamma, che tant'ho lontano. L'amor con te io divido se in notte alta in te leggo pagine famose d'autori grandiosi, in cui nomi gloriosi a me son cari più d'ogni vanità! In te, un dì, mio nonno morì; ed io ti smontai per punirti: al tuo posto vi misi una tavola, e sopra la bara; ov'erano i tuoi piedi, vi misi dei ceri. Eccomi in te con nervi tesi, capelli in mano, denti stretti e pensier lontano: all'Ombre mie care io guardo... remote! Poi spengo la luce e la nuca sprofondo nel tuo morbido cuscino. Assorto, al domani io penso. Al buio, guardo il soffitto. Gli orecchi mi fischiano. Penso: "Voglio dormir!"; ma senza riuscir. Al passato io penso con candida mente. Poi passo pensando di nuovo al domani... e alla morte mi fermo! Anch'io in te morirò, e prole non ho, che te punirà. Chi mai ti smonterà?
- Al pane
O pane che nasci dall'umile fatica dei docili, almo d'ognun che al creato pensa, suda la mia fronte nella ricerca tua ardua; e pur disdegno, ma amor talvolta al mite chiedo.
- Al tempo
Spettatore di umani dolori e voluttà, trascorri e corri e a spiar torni il soffrire e la gioia di nostra città. L'uomo aborri: nei tuoi forni lo cuoci; l'impasti di pietà e di gloria l'imbevi; lo carchi d'amo e al mar lo spedisci del Mal che età non ha! Pel genio sei balsamo. Drago senza capo e senza coda, ingordo di primavere e d'autunni, divorator di secoli e di fauna immonda, non fai che invecchiar di Dio gli alunni: al ventenne in schiena forte lo sproni (amor cantando alla sposa in cor lo mandi) e al babbo la man gli leghi e 'l trascini teco nell'orbe immonda ove tu sol comandi. Dio che idolo non sei; castigator di spiriti, servo di Morte, girator della Luna; sempre giovane, antico nonno del Mondo, vorrei dirti: A che vegli sul cumulo dei secoli, spine portando a ciascuno che spesso t'ignora? Tu, forse, tutto rammenti del Mondo, tutto tu sai. Dimmi, ti prego: quando, in verità, e perché venne a te l'Uomo? O crudel spettatore di gioie e di dolori, seppellitor di glorie e di putride nefandezze, che non conosci colori né odori, e le dolci carezze di vere bellezze; o disgusto dell'intelligenza cui mai pace non rechi, di mille umani sogni costruttore e di misteri, pongo d'ingegno mie speranze a tua mercè, e il nome, se di grazia ai posteri dirai. Ma s'io fermarti potessi al par d'un passero sul prato - bersaglio della mia fionda da monello -, all'uman mondo dando eterno pensiero e immanente la vita, altri novelli morituri non, la Morte, al varco attenderebbe; ma di nero vestita e tutta in lacrime, bocconi sull'ultimo tuo tumulo poserebbe in eterno pregando un inesistente nume. E, allorché, per sempre fermati gli anni al Mondo, più tu non volando sull'ali del dì, della notte, l'adulto Monello cantando ed in giocondo stato cantando andrebbe: "Finito è del Tempo il tempo, ché piant'esso è dalla Morte".
- Il genio
Dall'eletto grembo alla luce un pargolo è portato; un grand'uomo, un genio è nato! E già soffre e si ribella per la luce che non voleva. Ma poppa; il latte al seno poppa; al sen di Eva. E il tutto or gusta qual mai credeva dianzi che la mammella non vedeva. Cereo il viso, pallida la carne tutta, il pargolo ignaro cresce e strilla in casa sua. E vola il tempo; tacito passa e c'è; sempre sta! Ruzzola di domani il Genio; piange; zitto sta. E le cose vede già! ma parlare ancor non sa. Ode, comprende, bisbiglia. Presto paura avrà! Lento è il crescere dell'astruso fanciullo. Il padre nol capisce già. Neppur la madre sa che figlio ha: mai lo capirà! Flosce le gambe presto in giro lo porteranno e pur le stelle un giorno lo guarderanno.
- II
In giro or solo il Monello va par d'un citrullo: vermi, lucciole, uccelli e grilli gli dàn gran trastullo. E l'Insegnante in aula domani lo chiama Ribelle tra bimbi tanti e vive bambole belle. Ma all'ingrossar degli anni suoi il numero, corrucciato l'incontreremo e nero; par cada il Mondo su la sua testa. Allor privo è d'amici; schiva ogni baldoria o festa. Lavora; d'un faticar mentale sempre lavora: l'Opra compone e il suo fato adora.
- III
Un sogno per lui è la vita. Si dipinge al suo guardo la Gloria. Si presenta al cospetto suo la fredda Morte, già orrida, ostinata. Al dipartir suo ultimo accingendosi pur certo in Cristo meditando va: né altri saper fa sempre la sua via. Memore spoglia che sotterra giace; ove il bel nome all'ossa custode resta: e il postero gentile onora con visita il bel sito e ne rallegra con pio murmure la pace.
- Gioia di madre
Vieni, o mio ninnolo di carne! Io ti porto al seno stretto sul terrazzo al sole a cogliere le viole. Ecco, l'aereo giardino ci accoglie! E la tua gota saporosa è fresca alle labbra come al palato albicocca matura che al ramo pende in alba d'agosto. Gli occhi tuoi grandi son come le nere ciliege di giugno; le mani e le braccia come ali d'uccello novello che il volo prova. Odi tu il rombo?! Sono i motori del cielo. E la cetonia ci vola d'intorno rilucendo nel sole, ci canta qualcosa che par litania, si posa tra i labili petali d'una rosa non colta e si cheta. E la gente passa nella via spigliata, mezza indaffarata. Guarda. Quello è il lattaio che pur fa il capraio; quello è il becchino che al cimiter non ti porta. Ecco il prete, confessor della nonna. Or guarda. Chi passa? Passa il Dottore, nemico falso (e oratore) d'ogni fumatore. Vedi? Sfila nella via la gente che più per noi vive che per essa. Quant'è fessa. (palleggiandolo verso il cielo). Eccomi a te or per domani: E d'aria tu vivi, o fanciullo; di carni ti nutri e di pane; di sogni ti pasci, e ancor cresci in ogni mattin che il sol rinasce.
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