-
- Il ritratto
antico
-
- Oggi di anni
ne compio trentasei.
- Non son
già vecchio, giovin non mi
vedo.
- Mi guardo
quando gli anni erano sei.
- Ben mi
riguardo. Dico: "Non ci credo".
-
- E voi? ... ci
credereste? Ecco il ritratto:
- Al tra le
braccia della mamma giovane.
- Riccioli,
gote fresche. Dentro al piatto
- cade da man
di mamma il bianco pane.
-
- Gaio ha
l'occhio. Vedete? Il labbro ride!
- Non... no!
non mi guardate in carne. Cosa?
- Non ero io?!
Guardate la mia iride!
-
- Oh no!
Certo... ragione avete a iosa.
- Egli ha la
mamma giovane. Ha sul viso
- del fior che
sboccia il giovanil sorriso.
-
-
- L'amicizia
Delicata,
squisita
casa.
La
sola,
dopo l'Amore,
che sa dare
grande gioia
agli Umani.
Trasparente,
e fragile,
come fine
cristallo,
essa è
conscia forse
della
volontà prevaricatrice
delle genti,
restia a nascere,
e
perché si presenti,
disponibile,
occorre che
prima l'Uomo
la inventi,
quasi la corteggi
con
lusinghe;
che
cioè la semini - per dire -,
e in terra
buona, altrimenti non germoglierebbe
e se pure
avvenisse,
sana non
sarebbe
ma
inutile.
Alcuno dice
non esistere
già io
altrove spiego
l'inesistenza
e convinco:
ed ecco il
Paradosso,
vivo
arriccante,
ma ciò
non è vero.
Essa è
viva nell'aria
e
nell'acqua,
attraversa le
agonie
e le speranze
non solo
di ognuno ma
anche
di tutte le
cose;
come un Dio
buono
per chi
l'ama,
e
onnipresente:
tra cellula e
cellula,
tra pelle e
penna,
tra pelle e
pelo.
Certo
è rara: "Chi trova
un Amico
trova un Tesoro".
Ed è
perciò che l'Amicizia
può
solo essere LIMPIDA
CALOROSA
SPONTANEA,
dolcissima
amicizia
capace di
meritarsi
dal Poeta la
Poesia
ora
letta.
P.S. Spiego,
nella mia commedia, come l'amicizia non esiste e
convincendo il lettore, viene a provarsi
così come l'Assoluto nelle cose non
esiste, ma sì il Paradosso grazie al
quale nasce l'arricchimento di tutto quanto esso
tocca.
-
- Valentina di
Gianna
Una
cosina
tu sei,
morbida che vai,
vai
sempre,
instancabile,
tra gatti e
gattini,
tra Zie e
Nonna di Mamma,
tra ginocchia
e gambe
di
Mamma,
di Nonna a
nome Ada,
tra quella di
chi arriva
a
salutarti,
per
vederti,
toccarti,
a
baciarti,
palleggiarti...
(No,
palleggiarti
no: tu
pesi!)
Nella
cornice
dorata dei
tuoi riccioli,
entro il
tuo
roseo viso di
petalo,
brillano
se
guardo
i tuoi
occhi
intriganti.
Occhi
che
indagano
vogliosi
di
scoprire
ogni
cosa.
E mentre
impari
a
leggere
di tutti nei
gesti,
nel
gustare
di ciascuno
le carezze,
scopri,
che
ciò che più
t'interessa,
della Gente
è l'animo,
il contenuto
amoroso
che Tutti
mortali
vantiamo ai
venti,
alle
stelle,
insensibili.
Così
da te
anche viene
Alfonso
che sul
caldo
o freddo del
tempo
con
Mamma
o Nonna
cianciando,
si sofferma
alla tua grazia:
perché
hai, tu, l'epidermide
fresca del
fiore
quando
è bello,
ove l'occhio
corre
(s'abbevera),
mentre
avide
inspirano le nari,
freman le
labbra,
bisticcia
con
altri
ogni dito di
mano,
per poter,
primo,
su te aver
contatto.
Vai,
fila;
fila,
vai.
Cresci.
Cresci
tra baci e
carezze,
e,
pacche.
D'insegnamenti
ti
nutrirai.
E,
t'innamorerai.
-
- Il
rovo
Nella siepaia
calda,
armoniosa di
canti,
immobile
troneggia,
labirinteo
pruno,
spinoso
groviglio
dal tempo
intricato,
il
Rovo
dai fiori a
grappoli,
ove il
nettare l'ape
sugge, e la
farfalla
maculata
nell'ali
poiché
vi giunge
dall'aria,
saltando,
ancor prima
che,
nascendo
sì bianca,
la
mora
passa pel
verde colore
e pel
rosso
che precede
poi l'ultimo,
il
nero
che dà
essa il nome.
Spoglio in
autunno
sei o
Rovo
del
pettirosso
abitacolo
del
passero
campestre
asilo
e d'ogni
ciarlier
volatile
ròcca:
inespugnabil
ròcca
allor che,
saettante
a fior di
zolla,
famelico
astuto,
dissemina il
falco
terror di
morte
in tutta la
mia valle.
Io
fanciulletto,
nel bel calar
del sole
udii
rapito
alle nascenti
stelle
un usignol
cantare
o Rovo, e
lesto
menai la
vista
al fosco tuo
groviglio:
volò
del canto il re,
menando in
brevi
oscillazioni
un esile tuo
braccio
pendulo.
-
- Abbandonato
paese
Pietre
lontane
tra voi
combaciate
a fare
attigue case,
vie tavte,
e due
chiese
(bel
paese,
piccolo,
pugliese):
sentite voi
forse
di me la
mancanza
nell'unica
stanza
ov'i gemiti
spandei
e i risi miei
primi
e le
preghiere?
Io la vostra
sento
nostalgia e
del vento
che negli
anni belli
svolazzar mi
fece
la chioma
sconcia
folta e quasi
bionda
allorché
giocondo
qual satiro
andavo
i giorni
vivendo.
O mio
Paese,
ricordi tu
forse
quando
bambino
giocavo
soletto
e la dolce
mia mamma
al suo
bambino
chiamava
Pupetto?
Allor mi
portava
(qual
fierezza di donna
e qual gioia)
nel letto,
ed io privo
d'intelletto,
bevendo del
suo petto
gustavo il
suo bacetto.
Allor tu
m'abbracciavi
e pur tu mi
parlavi
vedendomi
crescere,
piangere,
ridere.
Poi, un
dì memore,
quando
fumai,
misi le
ali
e da te
volai;
o caro
d'implumi
a lunga vita
nido.
Promisi alla
mamma
di tornare a
Natale;
ma quanti
Natali
passaron
d'allora?
Io sono
smemorato,
in questo mio
vivere errato.
Son forse il
figlio tuo più sfortunato.
Ma di essere
sol chiedo perdonato.
Dillo a mamma
mia
che
tant'è buona e pia
se vuol
venirmi incontro:
io bramo il
suo riscontro.
A casa
tornerei,
Lucia
sposerei:
farei
così felice me,
mamma...
e certo pure
te.
Le rondini in
settembre,
gli uomini in
primavera,
tutti di te
parlano...
ma lontano
vanno.
Chi prima,
chi dopo,
tutti a te
ritornano
e si
sposano.
Sei
magico.
Hai la
calamita.
Ma se
Lucia...
da te se ne
già ita...
o mio Paese
amico,
lontano...
povero
abbandonato!
-
- Lettera al
morto
Oda, o
Papà, il sepolto
tuo
timpano
questo mio
canto;
e il
pianto
mio
discerna
ed il
tormento,
mentr'ergo a
te,
fra umani il
meglio
all'infantil
mio occhio
ed al
presente,
questo piccol
monumento.
Tu, che
cruento
un dì
partisti
dalla tua
prole
imberba
tutta,
e del fatal
coltello
ancor serbi
il ricordo;
tu che in
stranio
loco solingo
giaci
e prece niun
ne odi
mai: quando
solitario
per le vie a
te ignare
piangendo
vado
mi vedi? Odi
tu forse
il parlar del
mio cervello?
Sai del mio
soffrir?
Povero
nascesti;
vivesti
faticando d'anno
in anno,
giorno per giorno;
e il nido tuo
caro lasciasti
un dì
d'implumi pieno...
e
partisti...
Ove mai per
cibo andasti!
In
Africa,
al lavar ti
recasti.
Lagrimando
la mamma
allor
di te
parlava
intorno al
focolare;
e
nell'ascolto,
quattro tuoi
fior
al Dio per te
pregammo.
Deluso
dell'Africa
il ritorno
tuo
empì
la casa;
ma spietata
la cieca
Morte in due
lustri
ti
spedì nel regno
putrido dei
più.
E vano fu di
mamma
e d'altri il
pianto!
Io non
piansi;
non seppi
piangere.
Or nella
pace
dei santi
riposa
e dei vicini,
cui
certo i cari
loro
fiori
portano,
invidia non
ti nasca;
se vorace un
averno
ti tiene,
lontano
un dì
ci rivedremo.
Venir vorrei
a trovarti un
dì
con freschi
fiori.
Ancor nel
ricordo
vedo la tua
muta
tomba; del
tuo silente
paese ancor
serbo
il ricordo
amico
e odo sulle
nude croci
il vento e
nei cipressi
folti. Sulla
fresca
spalla
perenne la tua
bara mi
lasciò una
dolente
impronta;
e le labbra
tue esangue
ancor
rispecchiarsi
amano
nell'iridi mie
verdi.
L'occhio tuo
spento
più il mio non vedrà;
ma
verrò un dì
con freschi
fiori a trovarti.
E s'altri
tuoi cari
a me
s'accoppieranno,
e innanzi al
tuo sepolcro
pianger
vorranno,
io
riderò; sì!
riderò,
perché
essi smetteranno.
Io so che tu
ora
risoffrir non
sai,
so della tua
pace.
Ma
dell'infante tuo
fedel
compagno l'alma,
torbido
l'occhio a scrutar
nessuno
s'avvia; e cereo
il viso, caro
ti fu!
Pazzo ciascun
gonzo
tuo parente
mi chiama
e dei savi
nella cerchia
entrar
m'è vietato.
Giro di qua,
passo
di là,
ma sempre solo
vado
pensando, meco
ragionando di
cose
che tu non
certo
più
intendi, per questa
buia via in
cui
sì
giovin mi lasciasti.
Talora in
sogno
ridente
m'appari,
o loquente il
labbro tuo
ne mesce
sonoro
un bel
parlare, come
un tempo in
famiglia
solevi e fuor
dei tuoi
(dolce
notturno gioire!):
felicissimo
il mio cuore
al figlio tuo
offeso
parla
lusinghiero e caro:
"Non dunque
crudele
è la
Morte con l'uomo
se lo squarta
l'uccide
l'interra ma
vivo
lo rimanda
tra vivi".
Ride
così, da letizia
preso, il mio
cuore
credulo e
gabbato,
mentre il tuo
viso,
dal mio
guardo preso,
lontan si
parte
e trasmutasi
in vana
sembianza e
scompare.
Destano il
figlio tuo,
indarno
l'iridi sue
smaniose te
cercano
affannate.
Tornato
tu sei dei
morti
al villaggio,
e ivi
festeggi e
piangi
i giorni e le
pene.
Nel lucerino
campo
di croci,
sovra quali
il
germogliare è muto,
l'ossa tue
care giaciono;
e hanno il
Vento solo amico,
il vagabondo
che porta
ai morti il
suon delle campane.
Porti in
volo,
o
Spensierato! il mio
saluto al
padre mio lontano.
-
- Gratitudine al
letto
Amico
fedele
fratello mio
letto,
quando
stanco
a te mi
presento
grato ti sono
anche
se grazie non
dico.
Tu solo
sempre
m'accogli
comunque io
sono!
Sei morbido
molleggiante
e muto,
e non
t'offendi
se in te mi
distendo.
Sei
segreto!
non dici a
nessuno
ciò
ch'io a te solo
racconto...
ignaro di
tutto.
Lontano da
te
bisticcio con
tutti:
Belle,
Cattivi
ed Amici,
tutti
mi
amano...
e mi
odiano.
Tu
solo
veramente sei
caro.
In te
solo
io piango,
sogno,
e penso alla
mamma,
che tant'ho
lontano.
L'amor con
te
io
divido
se in notte
alta
in te
leggo
pagine
famose
d'autori
grandiosi,
in cui nomi
gloriosi
a me son
cari
più
d'ogni vanità!
In te, un
dì,
mio nonno
morì;
ed io ti
smontai
per
punirti:
al tuo posto
vi
misi una
tavola,
e sopra la
bara;
ov'erano i
tuoi piedi,
vi misi dei
ceri.
Eccomi in
te
con nervi
tesi,
capelli in
mano,
denti
stretti
e pensier
lontano:
all'Ombre mie
care
io
guardo...
remote! Poi
spengo
la luce e la
nuca
sprofondo nel
tuo
morbido
cuscino.
Assorto, al
domani
io penso. Al
buio,
guardo il
soffitto.
Gli
orecchi
mi fischiano.
Penso:
"Voglio
dormir!";
ma senza
riuscir.
Al
passato
io
penso
con candida
mente.
Poi passo
pensando
di nuovo al
domani...
e alla morte
mi fermo!
Anch'io in te
morirò,
e prole non
ho,
che te
punirà.
Chi mai ti
smonterà?
-
- Al
pane
O pane che
nasci
dall'umile
fatica
dei docili,
almo
d'ognun che
al creato
pensa, suda
la mia
fronte nella
ricerca
tua ardua; e
pur disdegno,
ma amor
talvolta
al mite
chiedo.
-
- Al
tempo
Spettatore di
umani
dolori e
voluttà,
trascorri e
corri
e a spiar
torni
il soffrire e
la gioia
di nostra
città.
L'uomo
aborri: nei
tuoi forni lo
cuoci;
l'impasti di
pietà
e di gloria
l'imbevi;
lo carchi
d'amo
e al mar lo
spedisci
del Mal che
età non ha!
Pel genio sei
balsamo.
Drago senza
capo e senza
coda,
ingordo
di
primavere
e
d'autunni,
divorator di
secoli
e di fauna
immonda,
non fai che
invecchiar
di Dio gli
alunni:
al ventenne
in schiena
forte lo
sproni
(amor
cantando alla
sposa in cor
lo mandi)
e al babbo la
man
gli leghi e
'l trascini
teco
nell'orbe immonda
ove tu sol
comandi.
Dio che idolo
non sei;
castigator di
spiriti,
servo di
Morte, girator
della Luna;
sempre
giovane,
antico nonno
del Mondo,
vorrei dirti:
A che
vegli
sul cumulo
dei secoli,
spine
portando
a ciascuno
che spesso
t'ignora? Tu,
forse,
tutto
rammenti del Mondo,
tutto tu sai.
Dimmi,
ti prego:
quando,
in
verità, e perché
venne a te
l'Uomo?
O crudel
spettatore
di gioie e di
dolori,
seppellitor
di glorie
e di putride
nefandezze,
che non
conosci colori
né
odori, e le dolci
carezze di
vere bellezze;
o disgusto
dell'intelligenza
cui mai pace
non rechi,
di mille
umani sogni
costruttore e
di misteri,
pongo
d'ingegno mie
speranze a
tua mercè,
e il nome, se
di grazia
ai posteri
dirai. Ma s'io
fermarti
potessi
al par d'un
passero
sul prato -
bersaglio della
mia fionda da
monello -,
all'uman
mondo
dando eterno
pensiero
e immanente
la vita,
altri novelli
morituri
non, la
Morte, al varco
attenderebbe;
ma di nero
vestita e
tutta
in lacrime,
bocconi
sull'ultimo
tuo tumulo
poserebbe in
eterno
pregando un
inesistente
nume. E,
allorché,
per sempre
fermati
gli anni al
Mondo,
più tu
non volando
sull'ali del
dì,
della notte,
l'adulto
Monello
cantando
ed in
giocondo stato cantando
andrebbe:
"Finito
è del
Tempo il tempo,
ché
piant'esso è dalla Morte".
-
- Il
genio
Dall'eletto
grembo
alla
luce
un pargolo
è portato;
un
grand'uomo,
un genio
è nato!
E già
soffre
e si
ribella
per la
luce
che non
voleva.
Ma poppa; il
latte
al seno
poppa;
al sen di
Eva.
E il tutto or
gusta
qual mai
credeva
dianzi che la
mammella
non
vedeva.
Cereo il
viso,
pallida la
carne
tutta, il
pargolo
ignaro cresce
e strilla
in casa
sua.
E vola il
tempo;
tacito
passa
e c'è;
sempre sta!
Ruzzola di
domani
il
Genio;
piange; zitto
sta.
E le
cose
vede
già!
ma
parlare
ancor non
sa.
Ode,
comprende,
bisbiglia.
Presto
paura
avrà!
Lento
è il crescere
dell'astruso
fanciullo.
Il padre nol
capisce già.
Neppur la
madre sa
che figlio
ha:
mai lo
capirà!
Flosce le
gambe
presto in
giro
lo
porteranno
e pur le
stelle
un giorno lo
guarderanno.
-
- II
In giro or
solo
il Monello
va
par d'un
citrullo:
vermi,
lucciole,
uccelli e
grilli
gli
dàn gran trastullo.
E
l'Insegnante
in aula
domani
lo chiama
Ribelle
tra bimbi
tanti
e vive
bambole belle.
Ma
all'ingrossar
degli anni
suoi
il numero,
corrucciato
l'incontreremo
e nero;
par cada il
Mondo
su la sua
testa.
Allor
privo
è
d'amici; schiva
ogni baldoria
o festa.
Lavora; d'un
faticar
mentale
sempre lavora:
l'Opra
compone
e il suo fato
adora.
-
- III
Un
sogno
per lui
è la vita.
Si dipinge al
suo
guardo la
Gloria.
Si presenta
al cospetto
suo la fredda
Morte,
già
orrida, ostinata.
Al dipartir
suo ultimo
accingendosi
pur certo
in Cristo
meditando
va: né
altri saper
fa sempre la
sua via.
Memore
spoglia
che sotterra
giace;
ove il bel
nome
all'ossa
custode
resta: e il
postero
gentile
onora
con visita il
bel sito
e ne rallegra
con pio
murmure la
pace.
-
- Gioia di
madre
Vieni, o
mio
ninnolo di
carne!
Io ti
porto
al seno
stretto
sul terrazzo
al sole
a cogliere le
viole.
Ecco,
l'aereo
giardino ci
accoglie!
E la tua
gota
saporosa
è fresca
alle labbra
come
al palato
albicocca
matura che al
ramo
pende in
alba
d'agosto. Gli
occhi
tuoi
grandi
son come le
nere
ciliege di
giugno;
le mani e le
braccia
come ali
d'uccello
novello
che il volo
prova.
Odi tu il
rombo?!
Sono i motori
del cielo.
E la
cetonia
ci vola
d'intorno
rilucendo nel
sole,
ci canta
qualcosa
che par
litania,
si posa tra i
labili
petali d'una
rosa
non colta e
si cheta.
E la gente
passa
nella via
spigliata,
mezza
indaffarata.
Guarda.
Quello
è il
lattaio
che pur fa il
capraio;
quello
è il becchino
che al
cimiter non ti porta.
Ecco il
prete,
confessor
della nonna.
Or guarda.
Chi passa?
Passa il
Dottore,
nemico falso
(e oratore)
d'ogni
fumatore.
Vedi?
Sfila nella
via la gente
che
più per noi vive
che per
essa.
Quant'è
fessa.
(palleggiandolo
verso il cielo).
Eccomi a te
or per domani:
E d'aria tu
vivi,
o fanciullo;
di carni
ti nutri e di
pane;
di sogni ti
pasci,
e ancor
cresci
in ogni
mattin
che il sol
rinasce.
|