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               Agnese La
               Guardia Parte 1 Il prato era in pieno rigoglio, verde e morbido
               come un mare quieto luccicante al sole.
               All'estremità più settentrionale c'era
               il cascinale, deserto in quell'ora di calma
               pomeridiana e tutt'intorno il silenzio che il brusio
               degli insetti della campagna sembrava sottolineare ed
               accrescere, fatto com'era della mancanza delle voci e
               dell'operosità dell'uomo.L'uomo ascoltava la pace dei suoi campi e
               godeva della vista dell'erba prospera e sana. Era un
               grande uomo bruno, dagli occhi attenti e profondi; se
               ne stava appoggiato al tronco della quercia che con la
               cima dominava il suo mondo.Quella terra che era sua, quegli alberi che suo
               padre aveva piantato e che erano cresciuti con lui,
               quei filari che egli curava, quelle zolle che gli
               davano di che vivere, quelle erano per lui le cose
               più importanti di tutto il mondo. A volte gli
               pareva di vivere su un'isola, tanto si teneva fuori da
               ogni contatto diretto con altri modi di vivere o di
               pensare, eppure la solitudine non gli pesava, anche se
               le sole persone con cui aveva quotidiano contatto
               erano la vecchia madre ed il Toni, anzi si sentiva
               grato e felice, consapevole che tanti altri uomini,
               diversi nei pensieri da lui, vivevano in luoghi vicini
               e lontani e spartivano con lui quell'esperienza che
               era il vivere.La madre, Agnese La Guardia, era ormai anziana
               e il suo carattere forte e provato da una vita non
               facile, s'era, per così dire, irrigidito,
               rendendola prevenuta, perennemente insoddisfatta,
               ristretta d'idee: magra, alta, grigia di capelli, nel
               volto rugoso aveva occhi azzurri che, soli, sembravano
               avere ancora la capacità di respirare e godere
               l'aria pura dei monti intorno. Parlava poco e spesso
               solo per lamentarsi; pareva che, da quando le era
               morto il marito, la sua mente si fosse chiusa,
               sbattendo la porta in faccia al mondo.Toni, il garzone, grande, grosso e un po' tonto
               che aiutava nei lavori dei campi e viveva alla
               cascina, roteava ancora gli occhi, dopo tanti anni, se
               mai qualcuno, così per caso, gli ricordava il
               giorno in cui Luigi La Guardia era morto, colpito dal
               fulmine, mentre, sorpreso dal temporale nei campi,
               raccoglieva gli attrezzi per tornarsene a casa.
                Ciò che forse aveva terrorizzato il
               Toni, allora poco più di un bambino, non era
               stata tanto la morte improvvisa del padrone, quanto
               ciò che aveva visto sul volto della dura,
               angolosa Agnese, quando aveva ritrovato il corpo del
               suo uomo. Toni si era spaventato, ma i figli
               già grandi di Agnese La Guardia avevano capito,
               e l'avevano capito per la prima volta, che quell'uomo,
               invecchiato precocemente, quell'uomo che li faceva
               sgobbare come muli, era stato per la loro madre la
               luce di tutto il suo mondo: ora che s'era spenta, la
               donna era rimasta come cieca.Tre figli aveva avuto Agnese La Guardia: una
               femmina e due maschi. La prima a lasciare la cascina
               era stata Marta, la maggiore che s'era sposata con un
               giovane che lavorava alla macelleria giù al
               paese. S'erano conosciuti, l'estate dopo la morte di
               Luigi La Guardia e l'inverno s'erano sposati. Agnese
               non era stata contenta del matrimonio: non voleva
               perdere la figlia e l'aiuto che la figlia le dava in
               casa. Era solita dire che lei, Agnese, mai avrebbe
               lasciato sua madre sola, con tre uomini cui accudire,
               una madre vecchia e stanca, poi: lei mai l'avrebbe
               fatto. Marta non l'era stata ad ascoltare. Aveva preso
               l'abitudine di canticchiare, poi un giorno aveva
               detto: «Guarda che mi sposo la prossima
               festa». Così era stato e alla cascina
               Marta non era più tornata.Del resto dei due figli maschi, anche Stefano
               se ne era andato presto, prima al borgo a mezzacosta
               del monte, dove aveva trovato lavoro in una piccola
               officina, poi in città, in pianura, dove si era
               sistemato in un'officina ben più grande:
               ché Stefano era ambizioso e voleva farsi la sua
               strada, lontano dai campi e dallo sterco di
               vacca.Ottavio era il maggiore dei due fratelli la
               Guardia: lui era rimasto sui campi, alla cascina,
               insieme alla madre ed al Toni. Sentiva che quello era
               il suo posto; c'era in lui un sentimento, una
               sensazione che lo turbava e che non capiva, ma che lo
               faceva rimanere lì, a lavorare la terra, a
               mungere le vacche calde e grasse, a raccogliere le
               uova, ad allevare i conigli, ad arare, a seminare,
               zappare, potare, a veder passare il tempo, misurandolo
               sull'epoca dei raccolti, con le figliate delle
               bestie.Dalla finestra della cucina a volte, Agnese si
               fermava a guardare quel figlio e l'occhio velato le
               splendeva, le labbra severe sorridevano. Mai avrebbe
               confessato, neanche al prete, neanche in punto di
               morte, d'amare quel figlio più di tutti gli
               altri. Quel figlio non era bello, come Stefano, non
               sapeva parlare - Stefano incantava con la sua
               parlantina -, no, Ottavio era un mulo e basta, ma era
               quello che lei sentiva più suo, poiché
               era quello che, solo, era riuscita a partorire,
               diverso d'aspetto, ma identico nello spirito al suo
               uomo. E lei sola sapeva quanto avesse amato il suo
               uomo: l'aveva sgridata, l'aveva anche battuta, ma
               l'aveva raccolta fra le braccia nel sonno tante volte,
               l'aveva sollevata per la vita, ridendo e scherzando e
               lei sapeva tutto del suo cuore. Bene, Ottavio era suo
               figlio: duro, inselvatichito forse, ma buono e
               umano.Ottavio si mosse. Con cura controllò lo
               steccato ad est del pascolo, poi lentamente si diresse
               verso casa. Trovò la madre seduta in cucina,
               vicino al tavolo; quando egli entrò,
               alzò gli occhi dalla vecchia Bibbia che teneva
               aperta in grembo, ché in quegli ultimi anni
               aveva preso l'abitudine di leggere ogni giorno qualche
               pagina della Bibbia.Disse: «Toni è tornato dal paese.
               Ha portato la farina e lo zucchero... All'ufficio
               postale c'era una lettera... di Stefano, viene a
               casa». Ottavio rimase immobile un istante poi
               prese a far scorrere l'acqua nel grande recipiente di
               rame. «Va bene». Avrebbe voluto chiederle se
               era contenta, sapeva quanto aveva sofferto per il
               figlio che se ne era andato via, lasciando la terra,
               voleva dirle di stare tranquilla. Ma non poteva. Il
               volto della madre pareva ancora più rigido del
               solito.«Dice che resta?»
               domandò.No, rispose con il capo la vecchia. «Dice
               che viene a trovarci, ma non si ferma. Porta una
               donna».Ecco dunque cos'era: tornava, ma non per
               restare, tornava con una donna. Dopo tanti anni di
               silenzio. Agnese non glielo avrebbe perdonato, lei che
               l'aveva già perso una volta e ancora non ci si
               era rassegnata. Una donna? Chi? La fidanzata? Un
               insulto in più per la vecchia La Guardia.
               Agnese sedeva immobile, guardava lontano, ché
               la sua mente stanca sapeva ancora vedere... e le cime
               dei monti non erano troppo lontane per lei: tante
               volte le aveva raggiunte e i piedi calzati negli
               scarponi pesanti parevano danzare e il suo cuore
               volava sulle orme stampate innanzi a lei sulla neve
               fresca. E quando tornava alla casa e andava nella
               stalla, animata dal calore delle bestie, sentiva il
               sangue battere forte nei polsi e, mentre alzava il
               fieno con il forcone, il gesto di nutrire le vacche
               floride la riempiva di forza e di felicità; il
               marito alle sue spalle rideva della sua energia e del
               rosso delle guance, fra il fieno che odorava di
               fragranze sempre nuove e la vita che muggiva,
               respirava, ruminava intorno a lei, su di lei, dentro
               di lei.  Parte 2 «C'è Stefano! È
               arrivato!» gridò Toni all'estremità
               del campo nord. Con calma Ottavio si volse verso la
               casa, vi si diresse attraverso il prato, la falce
               sulla spalla, lentamente.Non era cambiato Stefano, era quello di sempre:
               allegro, agile, bello, forse un po' troppo vivace,
               forse qualche ruga sul volto, ma niente di più.
               C'era la donna con lui: era esile, di pelle chiara,
               con grandi occhi scuri: era la fidanzata. Agnese era
               rigida, ma non scortese, con il figlio poi parlava
               tranquillamente. Ottavio si
               tranquillizzò.«Eccoti qui! Grande e grosso e sempre
               attaccato alla terra!» gridò
               Stefano.Il saluto fece ricordare ad Ottavio quanto egli
               avesse insistito affinché anche lui lasciasse
               la casa: avrebbero convinto la madre a vendere,
               avrebbero aperto un'officina loro due insieme:
               Officina La Guardia, anche il nome aveva trovato. Ma
               Ottavio aveva detto di no, ché lui restava e
               così era stato.Stefano parlava: lui e la Luisa si sarebbero
               sposati di lì a qualche mese, l'aveva portata
               alla cascina perché la madre la conoscesse;
               Agnese assentiva. La giovane era silenziosa, sorrideva
               leggermente, quasi con sforzo.«Non è la donna per Stefano».
               Furono le parole di Agnese, quando insieme ad Ottavio
               andò alla stalla a chiudere le bestie. Ottavio
               non rispose: gli era venuto da pensare che forse era
               Stefano a non essere l'uomo per lei. Più tardi,
               dopo che la madre se ne fu andata, mentre riponeva gli
               attrezzi sulla scansia vicino alla porta, sentì
               la voce del fratello venire dal sentiero dietro la
               stalla, quello verso i campi.«Ma non sei buona di parlare? La lingua ce
               l'hai, dunque parla! Vuoi che mia madre pensi che
               sposo un'oca? Non che mi interessi poi molto quello
               che pensa, la vecchia è matta, ma voglio che
               parli, che tu le piaccia, lo sai, parla, oca!».
               Ottavio si sentì irritato dal tono querulo,
               infantile del fratello: gli sembrava di vederlo:
               spalle rigide, viso corrucciato, mani in
               tasca.La voce della donna era piana e gentile:
               «Tu non capisci: non è la mia casa, quella
               donna non è mia madre, non mi vuole qui e forse
               non vuole neanche te. Vuoi che le piaccia, vuoi che ti
               aiuti a convincerla a vendere questa terra, non ci hai
               ancora rinunciato: è il tuo sogno».
               «Ne avevamo pur parlato, lo sapevi, è
               l'ultima possibilità che ho, che abbiamo, posso
               ancora diventare qualcuno e se la vecchia si crede
               d'impedirmelo...».«C'è tuo
               fratello...».«Ottavio? storie... non vede più
               d'un palmo davanti al suo naso».«Guarda là, cos'è? Una
               stella? La luce di un aereo? Dio, che pace, sembra che
               non esista niente di brutto qui, è tutto
               così...».«Così come? Ma dico ti sei
               rincretinita? Qui tutto è vecchio, sporco e sa
               di vacca...». I passi risuonarono sulla terra
               battuta, le voci si allontanarono.Ottavio s'accorse d'aver tenuto il fiato, si
               vergognò d'aver ascoltato, si vergognò
               per quello che aveva udito, guardò le sue
               bestie con amore: «Odor di vacca!»
               borbottò. Chiuse la porta della stalla e,
               mentre si dirigeva verso la casa, guardò due o
               tre volte in su il cielo stellato e si domandò
               quale luce mai fra tante aveva colpito così con
               il suo splendore la Luisa.La mattina successiva Stefano scese al paese
               portando il Toni con sé: la donna no. Fu
               così che Ottavio se la vide venire incontro
               attraverso il campo, mentre conduceva i buoi verso la
               valletta verde: toccava a lui se il Toni non c'era.
               Era bella la donna. Ma parlava poco davvero. Era
               timida forse: forse non aveva niente da dire o non
               trovava il modo di esprimersi, chissà, forse
               era solo a disagio.Si fermò di fianco all'uomo e chiese:
               «Mi giudicate sciocca?».Ottavio non rispose: da quel gran parlatore che
               era anche lui, non sapeva che dire e poi l'imbarazzava
               il solo rendersi conto che a lei importava sapere come
               lui la giudicasse.Mosse la testa e accarezzò la testa
               della vacca bianca. Sapeva che la madre li poteva
               vedere e questo lo imbarazzava di più. Ma la
               donna scendeva verso la valletta, svelta, con passo
               elastico. Si voltò ad un tratto, agitò
               la mano, poi si mise a correre. Quando Ottavio e le
               vacche la raggiunsero, la donna era seduta
               sull'erba.«Siete felice voi qui, vero?». Questa
               volta Ottavio fece segno di sì. Forse non
               avrebbe potuto dire se lo era davvero o no dal momento
               che il significato pieno della parola felicità
               gli sfuggiva. Ma se felicità era ciò che
               lui intendeva o anche meno, lui era felice. La donna
               disse; «Ci credo». Si alzò e si mosse
               per tornare e mentre andava aggiunse: «Partiamo
               domani».La sera a casa vennero con Stefano anche Marta
               e il marito macellaio. Si assomigliavano Marta e
               Stefano. Risero e scherzarono molto; si fermarono
               tutti a dormire.Quella sera nessuno passò vicino alla
               stalla, ma Ottavio, andando a riprendere il badile che
               aveva lasciato accanto al pozzo, vide il fratello
               baciare la donna.L'indomani Marta e il marito se ne andarono con
               grandi promesse di tornare e auguri di felicità
               per i due prossimi sposi. «Non saranno
               felici». Pensava Agnese fra sé e
               sé, asciugandosi le mani nel grembiule di tela;
               si girò un poco verso l'interno della stanza e
               disse rivolta a Stefano che stava seduto al tavolo di
               cucina: «Non venderò la terra
               Stefano».«Tu vuoi rovinarmi... Ti aspetti che
               diventi come quel bue di Ottavio, tu mi odi
               perché me ne sono andato, tu...».«Non venderò la terra. Puoi tornare
               qui se sei rovinato».«No, mai e lo sai! lo
               sai bene!» gridò l'uomo e sbatté
               con forza la tazza bianca piena del forte caffè
               nero sul tavolo. La tazza si ruppe, il liquido si
               riversò sulla cerata azzurra. Stefano
               guardò la macchia scura allargarsi e
               bestemmiò forte. Agnese La Guardia lo
               fissò e non c'erano né rimprovero
               né delusione nei suoi occhi, solo indifferenza,
               apatica accettazione di una reazione aspettata. Questo
               lo spaventò: capì che niente avrebbe
               smosso la madre, una madre che non l'amava abbastanza
               da fare ciò che lui le chiedeva. Che cosa poi,
               in ultima analisi? Togliersi da quella vita selvatica,
               permettere ad Ottavio di lavorare decentemente con lui
               in un'officina loro, comprata con i soldi ricavati
               dalla vendita della terra, trascorrere i suoi ultimi
               anni in un appartamento, con una camera tutta sua, con
               lui e la Luisa.Diavolo d'una vecchia rimbambita. Uscì
               sbattendo la porta e andò diritto verso i campi
               deciso a parlare con Ottavio. Potevano farla interdire
               infine la vecchia. Ottavio lo ascoltò, gli fece
               anche qualche domanda e quando fu sicuro di aver ben
               compreso ciò che il fratello andava dicendo,
               sentì le gambe irrigidirsi e una vampata
               attraversargli il ventre fino alla gola. Agnese non
               era pazza, era sua madre, la terra era sua, era nel
               suo diritto. La collera lo prese alla gola forte e
               irrefrenabile, non seppe, non tentò neppure di
               trattenerla. Picchiò una volta sola con forza,
               mirando alla bocca del fratello e lo lasciò che
               sputava sangue sul margine del campo. «Brutto
               idiota... soldi e soldi e soldi e quella maledetta
               città!» Si sentì triste per il
               cretino e si sentì triste per la Luisa: gli era
               simpatica e adesso gli faceva un po' pena.Sul tavolo c'era solo il suo piatto quella
               sera. Agnese gli disse che Stefano e la donna erano
               partiti, Stefano non aveva detto che sarebbero tornati
               e lei pensava di no. Ottavio mangiò in silenzio
               mentre Agnese leggeva una pagina della Bibbia: non
               c'era serenità in loro, ma l'istinto diceva che
               presto, molto presto ogni cosa sarebbe tornata a
               posto, che il loro mondo aveva subito una scossa, ma
               aveva resistito.Così fu infatti. Il ritmo delle ore e
               dei giorni tornò a scandire la vita dei due La
               Guardia nei campi ai piedi dei monti. C'era molto
               lavoro: s'era in autunno inoltrato, presto sarebbe
               stato inverno; le scorte per il bestiame andavano
               fatte e riposte, i campi, dopo il raccolto, erano
               pronti per il sonno invernale. Ottavio pregustava
               l'odore della legna che bruciava nel grande camino, le
               lunghe serate passate a leggere la rivista
               dell'agricoltore e a scolpire le figure in legno, cosa
               che faceva con passione, aveva fatto le statuine per
               il presepio della pieve alcuni anni prima. Ma
               l'intaglio era solo uno svago per lui, un passatempo
               cui si dedicava in inverno, quando il lavoro nei campi
               era sospeso.Quando cadde la prima neve sui monti Ottavio
               fece un lungo giro per la terra dei La Guardia e
               controllò bene ogni cosa, ispezionò
               accuratamente gli steccati, le due stalle e il grande
               fienile, fece una lista di ciò che mancava per
               le riserve della dispensa e sottopose tutto ad
               Agnese.«Va bene, bene» disse la vecchia
               guardandolo «Va bene, Ottavio. Se pensi che ci
               voglia più foraggio per le bestie, ordinalo e
               anche per il resto, ... va bene, fa' tu». Da
               qualche tempo Agnese sembrava stanca, svogliata,
               svuotata e Ottavio era preoccupato per lei. Aveva
               pensato di parlare alla madre per capire che cosa
               avesse, poi pensò di no, che era meglio
               chiedere al dottore, il Bianchi, che passava dal paese
               proprio quel giorno, di fare un salto su alla cascina,
               con la scusa di una chiaccherata e darle così
               un'occhiata.Nel pomeriggio sul presto Ottavio scese in
               paese e andò dal Bianchi, proprio mentre
               questi, dopo aver mangiato in sacrestia, ché
               infatti per quanto ateo convinto, intratteneva
               cordiali rapporti col curato con cui condivideva il
               gusto per la discussione e per lo scambio spesso
               caustico e irriverente d'idee, se ne andava lentamente
               ad aprire la porta dell'ambulatorio. C'erano
               già due donne che l'aspettavano. Ottavio attese
               il suo turno e poi entrò. Non era ben sicuro di
               come incominciare il discorso e, a dire la
               verità, il Bianchi, buono, ma burbero, non gli
               facilitò le cose. «Bene, allora, La
               Guardia che c'è? Siediti, dai, che devo andare
               da una che partorisce. In 'sto posto c'è sempre
               qualcuno che partorisce. Allora? Che hai? L'aspetto
               è buono».«È mia madre, dottore...»
               Aveva deciso di chiamarlo solo dottore e non, come
               aveva sentito far gli altri, signor dottore, non
               sapeva neanche lui perché.«La vecchia La Guardia! Toh! E che ha?
               Perché non me l'hai portata?» Ottavio
               cercò di spiegare il perché: era un'idea
               sua che sua madre non stesse bene, una paura
               sua.«Mah, ha già una bella età
               ormai, l'Agnese. Senti, adesso ho quel parto, poi vedo
               se ce la faccio a venire stasera a darle un'occhiata.
               Ti sta bene così? E guarda che un bicchiere di
               quello buono lo voglio però, anzi, meglio,
               facciamo due. Siamo intesi?» Ottavio fece di
               sì, certo, lo ringraziò e fece per
               uscire, quando il Bianchi disse a voce alta, ma quasi
               a se stesso: «Però c'hai un bel fratello
               fetente, figlio mio. Non che siano affari miei, ma al
               paese giù ne parlano tutti di
               Stefano».«Perché, che è successo a
               Stefano?»«Dico, non lo sai? a lui proprio niente,
               ma quella ragazza, la Luisa è gravida e lui
               l'ha piantata e dicono che andrà in Germania e
               la Luisa che vada al diavolo, lei e il
               bambino.«Di' su, non te la prendere a questo modo;
               guarda che faccia hai... Dai son cose che capitano ,
               solo che nei paesi se ne parla di più. Va' a
               casa. A stasera e non ci pensare».Ma Ottavio non poteva non pensare alla Luisa.
               Ci aveva pensato tanto in tutti quei mesi. Gli veniva
               in mente quando meno se lo aspettava, ma sempre
               allontanava il pensiero: era la donna di Stefano. Oh,
               se lo era stata la donna di Stefano! aveva suo figlio
               in pancia. Avrebbe voluto che la Luisa avesse il suo
               di figlio. Dio, l'aveva pensato, aveva avuto il
               coraggio di pensarlo alla fine e non se ne
               rimproverava. Ma la Luisa era andata a letto con
               Stefano e lui l'aveva mollata. Incominciò a
               cadere acqua mista a neve dal cielo che s'inscuriva
               rapidamente. Doveva pensare e capire perché si
               sentiva confuso e agitato e infelice: per la Luisa?
               Per il suo bastardo che era poi un La Guardia?
               Incominciò a camminare lungo il viottolo in
               salita e salì e salì su per il sentiero
               fin che il fiato non gli mancò e s'accorse solo
               allora d'aver quasi corso per gli ultimi metri e di
               sentirsi in fondo all'animo ferito , sconvolto,
               deluso. Si fermò allora, ansimando. Ormai era
               buio e nevicava, fiocchi piccoli e fitti che gli
               ferivano il viso. Aveva voglia di piangere, lui che di
               donne ne aveva avute ben poche, che nessuna aveva
               amato, che nessuna aveva conosciuto come la Luisa:
               chiara di pelle, scura d'occhi, fine di lineamenti,
               snella, quasi troppo, con i suoi lunghi silenzi e
               quelle sue poche parole. Non riusciva ad immaginarsela
               gonfia per il figlio che portava, sola e derisa da
               quelli del paese a mezzacosta dove Stefano l'aveva
               conosciuta, figlia di un mezzadro vedovo e povero, per
               illuderla d'un amore e forse d'un benessere che non
               sarebbe mai arrivato. L'avrebbe voluta lui una donna
               così, dalla voce dolce e bassa, lui l'avrebbe
               voluta. Non ci aveva mai neanche lontanamente pensato,
               solo, a volte, aveva immaginato per un attimo,
               qualcosa di simile «Sì, proprio io, il
               mulo!» Piangeva e rideva, schernendo se stesso.
               La terra era la sua donna, era il suo amore.
               S'inginocchiò piano e rimase là con le
               spalle rivolte al monte e il viso in giù verso
               le luci baluginanti delle fattorie. *** «È vecchia, Ottavio, solo vecchia,
               stanca di vivere anche. Ne ha passate tante, ha
               lavorato troppo... Se ne andrà piano piano,
               figlio mio, e credo senza paura e rimpianti. È
               forte d'animo, ma anche la candela più
               splendente finisce per spegnersi. Dai, è la
               vita». Il Bianchi gli disse e gli batté la
               mano sulla spalla.«Ho capito. Le starò
               vicino».«Sì, bravo. L'hai sempre fatto.
               Senti, quella faccenda di Stefano, non dirgliela,
               tanto...»«Non lo so, non ci ho ancora pensato....Ma
               la Luisa adesso dov'è?».«Dove vuoi che sia? È tornata dal
               padre, al paese a mezzomonte e gli tiene la casa, gli
               fa da serva. Il bambino nascerà a primavera. Se
               ce la fa».«Se ce la fa?».«Non è mica una La Guardia, lei!
               È come era sua madre: delicata. Mah, speriamo
               bene». Il Bianchi s'incamminò verso la
               vecchia jeep con cui si spostava nella valle, di
               fattoria in fattoria. «Dottore!»«Che vuoi?»«Vedrà la Luisa?»«No. Perché?»«Ma passa dal paese?»«Sì, dopodomani».«Se la vede, le dica che mi dispiace,
               sì mi dispiace, l'ho vista una volta sola, ma
               m'è piaciuta e mi dispiace, vorrei aiutarla
               e...».«E che cosa ? Va be', glielo dico. Addio
               Ottavio».«Le dica che se ha bisogno io son qua. No,
               le dica che giovedì prossimo vado giù,
               c'è mercato, vado io al posto del Toni. Vorrei
               vederla». Il Bianchi guardò l'uomo un
               attimo, poi distolse lo sguardo e scosse il capo.
               «Non devi sentirti responsabile per
               Stefano».«Non è per Stefano, è per la
               Luisa. Voglio vederla».Testardo come la madre,
               pensò il Bianchi, avviando il motore. L'avrebbe
               vista, come no. Era perplesso, perché conosceva
               Ottavio da molto e gli voleva bene a quel campione di
               razza montanara ormai in estinzione. Ne avrebbe
               parlato con l'amico, il nemico parroco. Bella
               discussione sarebbe stata quella! Ghignò,
               soddisfatto.  Parte 3 La corriera fermò nella piazzetta del
               paese, il giovedì, proprio davanti al sagrato
               della chiesa. Il mercato era nel piazzale dietro il
               municipio, stipato di paesani che coglievano
               l'occasione per incontrarsi, far affari, scambiar
               chiacchiere e farsi un bel bicchiere.Ottavio scese dalla corriera e
               s'incamminò verso il mercato, a passi lenti,
               guardandosi attorno. Non aveva detto al Bianchi dove
               avrebbe incontrato la Luisa e non sapeva di preciso
               dove stava la casa del padre, non che fosse un
               problema, qualcuno gliela avrebbe indicata, ma avrebbe
               preferito non chiedere. La mattina era fredda e l'aria
               gli gelava le mani grosse arrossandogliele. Aveva
               ormai superato la chiesa, quando vide la Luisa, con
               quello scialle scuro che dal capo le scendeva
               giù sotto la vita, era quasi irriconoscibile.
               «Oddio, non è la donna di Stefano,
               è un'altra» pensò. La donna non
               mosse un passo, non fece un gesto. Ottavio si
               fermò un attimo prima di andare verso di lei.
               Le si fermò davanti. Gli sembrò stupido
               chiederle; «Come va? Come stai?» Idiozie per
               gente senza problemi. «Eccomi qui». Le disse
               e voleva dire:«Sono venuto apposta per te, perché
               voglio aiutarti, e lo voglio fare per te e per il
               bambino, se vuoi». E c'era anche: «Mi sei
               piaciuta sempre e t'ho sognata... sognata...
               sognata...».Lei non mosse un muscolo. Ottavio la prese per
               un braccio e la scosse leggermente: «Adesso
               andiamo al mercato insieme e parliamo».«No».«E invece sì». La forzò
               a muoversi per il mercato e la gente vide l'uomo
               grande e grosso con i pantaloni di velluto marrone a
               coste e la giaccona di fustagno che camminava con
               quella povera Luisa: «Avete visto la figlia del
               Filippi, quella incinta? Ma avete visto con chi
               è? Lui è il fratello di Stefano».
               «L'Ottavio, dai!» «Ma è proprio
               l'Ottavio». «È un giovane a posto
               l'Ottavio. sarà venuto per vedere come stanno
               le cose, un po' di soldi magari...» Così
               le voci del mercato ciarlavano. Nessuno sapeva che
               Ottavio, mentre salutava i conoscenti, sempre tenendo
               stretta la Luisa come per paura che gli scappasse,
               pensava e pensava. Alla fine si fermò vicino al
               bancone delle granaglie e disse alla Luisa: «Tu
               vieni alla cascina».«No». «Tu vieni a casa da mia madre, è
               suo nipote che deve nascere. Vieni a casa
               nostra».«No»«Luisa, io ti sposo». La donna
               tremò così forte che per poco non cadde.
               Lui la tenne su.«Perché?»«Perché t'ho sognata». Era il
               massimo per Ottavio.«Perché?»«Perché sì. Da quando ci
               siamo parlati alla malga, t'ho sognata e quanto a
               Stefano...»«No, non voglio...»«D'accordo, vai a prendere le tue cose,
               torniamo a casa, ci sposiamo, se vuoi: non sono come
               mio fratello e lo sai e questo è il discorso
               più lungo che ho mai fatto e non lascerò
               mai la valle: questo lo devi sapere».La guardò e la vide sorridere appena.
               Aveva il ventre già gonfio per il figlio che
               sarebbe nato a primavera. Ottavio allentò la
               stretta quasi per vedere se sarebbe fuggita o no.
               «La corriera è alle tre. Ti aspetto
               davanti alla chiesa. Ci verrai?».La Luisa non disse nulla, né sì,
               né no. Solo si strinse lo scialle più
               stretto attorno alle spalle. Rimase un attimo
               immobile, poi si voltò e si allontanò.
               Ottavio rimase piantato in mezzo alla strada. Non
               sapeva che cosa pensare. Non poteva impedirsi di
               paragonare la Luisa di oggi a quella di Stefano. Aveva
               perso di lucentezza, di gioventù, non solo per
               gli abiti tanto diversi che l'avevano fatta sembrare
               una di città, ma per il modo di guardare ora
               così fisso, per il modo di camminare, ma forse
               era per il bambino... realizzò di colpo che
               l'aveva chiesta in moglie, quella donna estranea che
               pure aveva sentito e sentiva tanto vicina,
               pensò alla madre, a quello che avrebbe detto
               quando l'avesse visto arrivare con lei, se pure lei
               fosse venuta.Aveva due ore da far passare prima della
               corriera e doveva togliersi dalla strada, ormai la
               gente lo guardava incuriosita: sembrava un albero
               piantato in un prato con tante galline chioccianti
               attorno. Girò dietro le case, dove un muro
               limitava la borgata; sotto si stendevano i campi
               coltivati.Si appoggiò al muro e guardò
               giù e lui che quasi mai aveva pensato all'amore
               per una donna, si trovò a pensarci. Amore,
               passione, volersi bene, vivere insieme, invecchiare
               insieme. Si sentiva confuso. Di certo sapeva che la
               Luisa l'aveva colpito la prima volta, l'aveva sentita
               capace di capire le cose che per lui erano importanti,
               forse di goderle come lui le godeva. L'amava? Oddio.
               «Non lo so». Sentiva di certo di volerle
               bene, di voler provare a darle quel suo bene, ma non
               sapeva se questo era amore. Non si domandò se e
               che cosa la Luisa potesse mai provare per
               lui.Alle tre la corriera arrivò e della
               Luisa nessuna traccia.«Non viene» si disse deluso. Quando
               la gente incominciò a salire, Ottavio rimase
               indietro, ad aspettare fino all'ultimo e all'ultimo la
               vide. Era vicino alla chiesa, anzi ne era appena
               uscita. Aveva una valigia con sé. La
               chiamò, gridò all'autista: «Un
               momento!» Le andò incontro, le prese la
               valigia, la fece salire sulla corriera. Si sedettero e
               Ottavio fece i biglietti. «Arriveremo a casa tardi» disse. La
               Luisa stava piangendo. Ottavio si sentì
               inutile. *** Agnese La Guardia aveva acceso un gran fuoco
               nel camino e la cucina era calda ed accogliente. Aveva
               anche preparato una zuppa calda per quando Ottavio
               fosse tornato. Il Toni aveva già cenato e se
               n'era andato a dormire. Agnese guardava il fuoco, gran
               lingue lucenti levate contro il nero del camino e
               scintille, scintille senza fine, mentre smuoveva le
               braci ardenti del fondo con la punta dell'attizzatoio
               scurito dal tempo. Il tempo. Gran scherzo giocava il
               tempo, gran giostra era la vita. Da giovane donna era
               solita vedere figure nell'agitarsi delle fiamme,
               figure dai morbidi contorni sfumanti: ora non vi
               vedeva più niente, non c'era più niente
               da vedere: agitò forte l'attizzatoio, una
               nuvola di rosse scintille si alzò,
               brillò e scomparve. «C'era una
               volta...» Le tornavano alla mente le fiabe che le
               avevano raccontato da bambina, le favole delle
               montagne, di alberi parlanti, di gnomi benevoli, di
               stelle cadenti, di regine di neve e di ghiaccio, le
               stesse che lei aveva raccontato ai figli bambini e
               filastrocche lunghe e senza senso che aveva
               cantilenato per loro al tramonto. Ogni filastrocca le
               tornava alla mente e i volti dei figli piccini e
               sentì Luigi chiamare: «Agnese»,
               forte. L'attizzatoio le sfuggì di mano e rimase
               un attimo come sospesa, dolente, ma non spaventata
               né sorpresa. Non ci fu più nulla a cui
               pensare per Agnese La Guardia: il suo tempo s'era
               concluso e fuori dalla sua casa, sui suoi campi, sui
               suoi monti la neve cadeva a ricoprire la
               valle. S'infittiva mentre Ottavio e la Luisa salivano
               verso la casa. Lui portava la valigia della donna. La
               tenne per il braccio, quando s'accorse che scivolava.
               Non c'erano lacrime negli occhi della Luisa. Mentre
               Ottavio apriva la porta della cascina, ella si
               fermò prima d'entrare, un momento solo, e
               guardò nell'oscurità i fiocchi bianchi
               contro il lucore del cielo di neve, si mise la mano
               sul ventre, ché suo figlio, un La Guardia, si
               muoveva dentro di lei.  "Dedicato a un uomo che nella vecchiezza, nella
               malattia e con la morte seppe esprimere tutto l'amore
               che provava per la vita: dedicato a mio
               padre." |