- Parte
I
- Hostaria
-
- Erano in tre i
vecchi che, seduti al tavolino dell'Hostaria da Campi,
nel cuore della valle dell'Idice, bevevano un
bicchiere come erano abituati a fare ogni giorno dopo
l'una, e scambiavano due parole, poiché si
conoscevano da una vita, erano stati bambini insieme,
avevano combattuto la guerra alla loro maniera, dalla
stessa parte e condividevano gli stessi ricordi,
montagne e alberi e fame e miseria e poi lavorar la
terra fino a spezzarsi la schiena per mettere in
tavola di che sfamare i figli. Adesso erano arrivati
al porto delle nebbie, dove i colori si sfumano e non
importa più tanto quanto é accaduto
ieri, ma quello che é accaduto vent'anni prima,
la memoria dei vecchi fa di questi scherzi, si sa.
- Uno aveva perso una gamba nella trebbiatrice e
beveva più di quanto avrebbe dovuto, parlava
molto, a voce alta che sempre più alta si
faceva più beveva, e il viso tondo si arrossava
e bastava un niente per farlo irritare. Gli altri due
lo sapevano quanto poco ci volesse perché li
mandasse, loro o chiunque altro, al diavolo, ma
all'una del giorno seguente sarebbe stato lì,
di nuovo. Un altro era alto, secco e parlava poco, ma
ascoltava molto, beveva il suo bicchiere con calma,
come per farlo durare a lungo, ché tanto un
altro non se lo poteva permettere, l'ultimo infine era
un ometto basso, ingobbito, con occhiali dalla
montatura di metallo, gli occhi azzurri chiari e
luminosi trasparivano dalle lenti spesse, dicevano che
s'era rovinato la vista per via di un colpo in testa,
preso quando era giovane, tanto forte da ammazzarlo.
- Bevevano all'aperto quel giorno che era ormai
primavera e la collina alle loro spalle ansimava per
la voglia che aveva di lasciar esplodere i colori
delle gemme pulsanti di vita e diventar verde d'erba
nuova e bianca dei fiori di mandorlo e rosa dei fiori
di pesco.
- I tre vecchi tacevano e ascoltavano tranquilli
tutto quel trambusto e bevevano, un po'assonnati, un
po'tristi, i rimpianti son duri a morire, e loro di
rimpianti ne avevano messi insieme un bel po', e
adesso eccoci qui a crepare lenti lenti, era la solita
storia.
- Un cane passò davanti al cancelletto che
segnava l'ingresso al cortile dell'osteria, quello con
gli occhiali lo guardò, scosse il capo e poi
distolse gli occhi, puntandoli verso un punto
imprecisato, forse il ramo alto del pioppo,
chissà.
- " Avevo un cane, da ragazzo, - disse e si
capiva che parlava a se stesso, alla sua memoria
d'uomo, come se non gli importasse d'essere ascoltato
-
- "Avevo un cane e si chiamava Max, era un
pastore tedesco, un gran bel cane davvero, é
stato il cane della mia giovinezza, é morto che
avevo diciassette anni ed ero un uomo, ci penso ancora
a quel mio cane e a come gli volevo bene, c'é
stato un momento che ho creduto che non avrei potuto
volere a un cristiano il bene che avevo voluto a lui,
poi ne sono capitate tante che..., ma adesso so che
era vero o quasi...Comunque non ho amato nessuno alla
stessa maniera in cui ho amato Max. O la giovinezza.
- Voglio berci su: a Max. E così sia.
"
- Una coppietta giovane giovane uscì dal
bar, tenevano due coni di gelato in mano: jeans e
giubbotti e scarpe da ginnastica. Udirono il brindisi
e si soffermarono, educatamente in disparte, ma
attenti, spalla a spalla, si vedeva che erano
innamorati. Il vecchio si tolse gli occhiali, trasse
un fazzoletto dalla tasca della giacchetta grigia e
pulì le lenti, con cura.
Continuò:
- " Mi vien in mente Giada di quest'ultimi tempi,
spesso, la sogno quasi tutte le notti, é con
Max e stanno bene insieme: lei é sempre bella.
- Lo so, faceva la puttana quando l'ho incontrata
e m'hanno riso dietro tutti quando l'ho sposata, ma
é stata una brava moglie. Lo faceva per
necessità, non per vizio e io lo sapevo. Che
nome, Giada, dicevano che era proprio un nome da
puttana. Sono stato felice con lei, tanto da farci dei
figli.
- A Giada. E così sia." Alzò il
bicchiere e lo vuotò.
- Uscirono dall'osteria due uomini, erano vestiti
da operai e lavoravano al cantiere nuovo, quello delle
villette a schiera che stavano costruendo dall'altra
parte della strada, appena un passo prima del paese
vero e proprio. Andavano di moda le villette a
schiera, adesso che il traffico e il cemento
strangolavano la città: pareva che la gente
volesse cercare di ricreare il rapporto perduto con lo
spazio, il verde, la natura ed allora, ecco che anche
un fazzoletto di terra poteva servire allo scopo. I
muratori udirono il nome di donna e si fermarono, uno
tirò fuori una sigaretta e l'accese, forse
s'eran fatti l'idea che i vecchi discorressero dei
loro amori di gioventù, e che cosa mai
c'é di più buffo, intrigante, carino
persino che sentire un vecchio parlare di
donne?
- " Come ieri. La incontrai per strada, e dove
dovrebbe stare una puttana? Per strada, anche se a
quel tempo c'erano ancora le case chiuse, ma lei era
indipendente, già e senza difesa anche. Diceva
che non ci aveva mai voluto stare nelle case.
- Diceva un sacco di cretinate, ma era giovane.
- Ero un bastardo anch'io in ultima analisi e
sentivo le grida dei morti alzarsi la notte e urlarmi
contro: io ero stato uno di quelli che l'aveva
permesso. Ma fra le braccia di Giada le voci tacevano,
così la sposai e venne la ricostruzione, gran
parola, e noi ricostruimmo e lavorammo e facemmo i
figli e avemmo miseria e raccolti scarsi e poi Giada
morì e quando morì, quasi più
nessuno si ricordava del mestiere che aveva fatto. I
figli si dispersero come foglie d'autunno, uno qui,
uno là, cercando la loro strada, come é
giusto, la ragazza anche lei se n'é andata
ormai fanno sei anni e ogni tanto mi arriva una
cartolina da uno di loro: sembra che le cose vadano
bene. Ho nostalgia dei figli. E di Mara, spero solo
stia bene...
- A Mara. E così sia."
- Ma il brindisi non riuscì, il bicchiere
era vuoto. Il vecchio lo fissò, scosse il capo
con tristezza, come se qualchecosa di importante gli
fosse stato negato. Posò il bicchiere sul piano
del tavolo, chiuse gli occhi e continuò a
parlare con voce quieta e sussurrante nel tepore della
primavera incalzante, e le parole fluirono come vele
aperte sul mare che lente s'avvicinano alla riva, dopo
una mattina trascorsa a buttar reti nel profondo. E a
far da ascoltatori c'erano anche i passeri che
scorrazzavano su per i rami dei pioppi e becchettavano
le briciole di pane cadute a terra dai panini dei due
muratori.
-
- I ricordi scorrono fuor dalla mente e si
dispongono l'uno accanto all'altro, ricreano il
passato d'emozione in emozione, di anno in anno, fili
tracciati nell'aria che si è respirata tutta la
vita, spiegano, a volte giustificano e consolano e si
accartocciano dentro ripiegati su se stessi, oppure si
dispiegano come fazzoletti stesi ad asciugar nel vento
e così si ricorda...ci si ritrova nelle memorie
lontane e vicine a percorrer le strade dell'esser
stati così o così, buoni cattivi
indifferenti partecipi egoisti sensibili, già,
gran scherzo sono i ricordi che s'annidano nella
mente, scivolano fuori chiamati da un niente,
dall'ombra che vela di garza la luce del sole.
- Gran scherzo, già. Proprio
così.
-
-
-
- Capitolo
1
Ombra
-
- Le potevo vedere,
nella luce del lampione che formava una chiazza di
luce sul marciapiede di cemento proprio lì dove
le due donne stavano in piedi, e le potevo sentire
anche, nascosto dentro l'androne della vecchia casa
che una volta doveva essere stata una casa signorile
ed ora, divisa in appartamenti , sembrava divorata
dalle locuste: vedevo e sentivo, senza esser visto,
era una gran sensazione, quasi che in me scorresse un
potere magico che mi faceva trasparente, invisibile
eppur presente, ma chi ero io, d'altro canto? Nessuno,
non ero niente e il niente che ero si rallegrava di
questo nulla: bisogna esser qualcuno per esser
consapevoli di non esser nessuno, infine.
- Le vedevo quiete all'apparenza, ma in
realtà agitate, lo capivo dai movimenti rapidi,
dallo sbatter delle ciglia, dalle mani mai ferme.
- Una era giovane giovane, l'altra più
anziana, sopra i trenta e ne dimostrava di più.
Mi incuriosiva quel loro star ferme nell'alone del
lampione, come sanno far così bene le
passeggiatrici, senza però far cenni
invoglianti ai rari passanti, anzi allontanando secche
quelli che tentavano d'abbordarle, attratti dalla
giovane, disposti anche a pagare quella più
vecchia, magari tutte e due in un colpo, che altro ci
potevano fare due, a quell'ora, per strada, per quella
strada poi, se non il mestiere più vecchio del
mondo? Anche se non erano vestite o svestite come
prostitute, anche se non si atteggiavano a prostitute?
- Io sapevo, perché l'avevo visto, che
sotto i cappotti lunghi da poco prezzo, portavano
gonne con spacchi provocanti dai quali guizzavano
calze nere fermate dall'ombra delle giarrettiere, e
sapevo, perché l'avevo sentito, che stavano
aspettando qualcuno.
- Io, che da sempre aspettavo qualcuno o
qualcosa, potevo stare nel mio angolo e aspettare con
loro.
- " Pensi che verrà?" chiese la
giovane
- L'altra annuì.
- " Stasera?"
- " Sì."
- " Bene."
- Quella più anziana si frugò nella
tasca del cappotto, ne trasse un pacchetto di
sigarette stazzonato, prese una sigaretta, l'accese
con un fiammifero di legno, da cucina, in uno
sfrigolio. Aspirò la prima boccata in
profondità, lasciando vagare i pensieri fuori
dalla tensione che li teneva stritolati, ed io ad uno
ad uno li afferrai a mezz'aria, li decifrai e li
ascoltai per riporli poi nel cerchio della
mente.
-
- Lanciò uno sguardo in tralice alla
compagna, era per lei in ultima analisi che era
lì, non certo per sé.
- Per lei, perché per lei ne valeva ancora
la pena, di lottare, di affrontare le ombre delle
scelte fatte.
- Sono così piene d'angoli bui, le scelte
fatte, irrevocabili, sono una catena che ci si porta
appresso per il tempo a venire, per sempre,
condizionano, a volte strangolano e ci si adagia,
sulle scelte fatte, é più comodo
continuare che cercare una svolta, che poi i
cambiamenti sono traumatici, lo sapeva, perlomeno lo
aveva sempre pensato, ma lei era una rinunciataria,
una della vecchia scuola, vecchia maniera, del tipo,
non si può aver tutto dalla vita, accontentati:
boia d'una miseria ladra. Si sentiva vecchia e stanca
comunque, e le vecchie querce non vanno mai
trapiantate, se no muoiono. Che poi di morire non
gliene importava più di tanto...o di vivere.
- Ma per Giada, così fresca e giovane, ne
valeva la pena di provare a cambiare, di rischiare.
Sapeva che aveva paura, una paura frenetica: si
mordeva le labbra e gli occhi erano lucidi, le pupille
dilatate, era terrorizzata, povera crista e ne aveva
motivo.
- Mosse i piedi, strusciandoli sull'asfalto, un
freddo cane, anche. Gli inverni le parevano sempre
più lunghi e insopportabili. Paura. Freddo. Il
freddo della paura. Il gelo delle cose non fatte,
lasciate a metà, abbandonate per la strada. Su
per il corpo, dentro le ossa.
-
- " Fa sempre più freddo, Mara." si
lamentò Giada.
- Mara annuì.
- Giada, come si poteva dare un nome così
ad una creatura, non lo sapevo. Una creatura si chiama
Caterina, Emma, Lucia, Anna, ma che voglia d'esotismo
dovevano avere i suoi per chiamarla Giada! O era il
nome di battaglia? No, era il suo nome, lo sapevo.
- Eppure era un bel nome: faceva pensare a una
cosa preziosa, lontana e lucente, qualcosa di raro.
Vedevo scorrere mari ed oceani sotto la luce diffusa a
cono del lampione, vedevo onde frastagliate
infrangersi schiumanti contro scogli di un paese
lontano e odori, sentivo odori di spezie e di foglie
di palma, anche se le foglie di palma non hanno odore,
credo, ma io non sono nessuno e perciò posso
dire quello che voglio, ché tanto non conta
niente.
- Arrivava un'auto, sportiva e costosa, del tutto
fuori posto in quel luogo e con la miseria che c'era,
poi! Sentivo che in un tempo del mio incerto ieri mi
sarebbe piaciuto avere un'auto così, forse
chissà, l'avevo avuta e poi l'avevo persa, si
perdono tante cose lungo la strada, si sa. L'auto
rallentò, all'altezza del lampione, poi
accelerò e sparì in fondo alla strada.
- Adesso Giada camminava in su e in giù,
lo sguardo fisso a terra, come se il selciato fosse
tutto il suo mondo. Mara aveva freddo, la vedevo
stringersi nell'ampio cappotto senza forma e sentivo i
suoi brividi: il gelo della notte e l'umido annidato
nell'aria, le penetravano le ossa, aveva il viso
bianco bianco e le occhiaie scure risaltavano sotto
gli occhi che dovevano essere stati i due più
begli occhi del mondo. E io di occhi me ne intendevo,
non di donne, forse, ma di occhi, sì:
c'é tutto un mondo negli occhi delle persone.
Un mondo nascosto, un mondo che le palpebre velano
frangiandolo dello scuro delle ciglia.
- " Fermati" Mara disse rivolta all'altra. Giada
si fermò.
- " Sono stanca"
- " E hai paura"
- " Si vede tanto?" Mara annuì. Si
avvicinò alla compagna. Stettero spalla a
spalla, sfiorandosi appena.
- Sentivo la sua paura: aveva un odore
inconfondibile la paura, lo conoscevo bene, lo sapevo
riconoscere.
- E'un odore inconfondibile, sa di adrenalina, di
cibo andato a male, di fallimento, di gabbia. Era il
mio profumo ormai da tempo immemorabile. Aspettavo con
loro, almeno non erano sole, anche se non lo sapevano.
- Alla fine arrivò, alto, elegante, sui
trenta, una sagoma scura delineata nel buio, fuori
dall'alone della luce, l'ombra lunga distesa sul
marciapiede: un vincente, di certo. Li chiamavano
così un tempo, credo, quando ancora mi andava
di sentirne parlare. Questo vincente si fermò e
le due donne gli si rivolsero. Sentivo le
voci.
- " Bene, ragazze, che c'é di
nuovo?"
- " Dobbiamo parlarti"
- " Tutte e due? "
- " Ascolta, Raul..." Giada intervenne " Io ti
devo parlare di...di una cosa importante"
- " Allora parla e poi lavora"
- " Ecco, é proprio questo..."
- " No, non lo dire! Vuoi mollare! Me lo dovevo
aspettare da una come te, dovevi farti monaca, ci sei
dentro, io ti mantengo, tu mi devi molto, dovresti
dirmi grazie"
- " Per che cosa, dico per che cosa dovrebbe
ringraziarti? Per che cosa dovrei ringraziarti io? -
Mara parlava con voce piatta- Per avermi detto che ero
bella, che mi amavi, per avermi messo sulla strada?
"
- " Dovresti ringraziarmi per continuare a
tenerti sulla strada e a proteggere i tuoi interessi,
conciata come sei. Ma ti guardi mai allo specchio? sei
ridotta da schifo, ma io non ti mollo, no. "
- " Sei buono, davvero, ti sono grata. Ma Giada
vuole uscirne, lasciala andare."
- " Tu vieni a dire a me quello che devo fare con
una delle mie puttane! Tu! Fai pena. Dunque, piccola
Giada, vuoi lasciare papà, perché
mai?"
- " Io..."
- " No, aspetta, lasciami indovinare: sei
innamorata, dico bene? e vuoi redimerti, dico bene? E
divenire la brava mogliettina di un qualunque
coglionazzo cornuto che un giorno saprà chi sei
e ti odierà per il resto della vita. Ma lo sai
quanti soldi puoi fare con me, lo sai quanti progetti
ho per te, bella come sei e brava anche, mi dicono,
tutti cercano Giada, oh, se é richiesta la mia
piccola Giada!"
- " Sono incinta, Raul."
- " Ah, é questo? E allora? Ci pensa
papà, come sempre."
- " A farla abortire, vero"
- " E che altro può fare? Certo: abortire.
"
- " No, lei no"
- " Già, lo vedo proprio il bel futuro del
figlio di questa puttana: nato senza padre o con
troppi padri, in miseria, perché papà
non da più quattrini a mammina, e come cazzo lo
tira su un figlio, 'sta cretina che non é stata
capace neanche di non farsi ingravidare, come la vacca
che é, e poi il problema non si pone: tu
abortisci e continui, chiaro? Ti é chiaro il
concetto? Adesso basta, mi avete fatto perdere
abbastanza tempo, tutte e due, con Raul non si lascia.
Mai. Finché Raul non lo dice.
- " Noi lasciamo, tutte e due. Che Raul lo dica o
no. "
- " Siete finite, allora tutte e due. Finite.
Kaputt. E'come se non foste mai esistite, di voi non
lascerò segno sulla strada, scomparirete e non
sapete ancora quanto sarà spiacevole. Voglio
essere buono: pensateci ancora un'ora, poi tornate da
papà e sarà come se non fosse successo
niente. Fate che fra un'ora papà vi veda.
Altrimenti vi starò dietro e
farete..."
- Sentii lo schiocco della sberla sul viso di
Mara, poi la sagoma scura l'afferrò per i
capelli e le sbatté la testa contro il palo del
fanale.
- Non udii un gemito uscire dalle labbra della
donna, e sì che doveva averle fatto male, il
vincente. Adesso vagamente mi veniva in mente
perché non ci avevo mai tenuto a essere un
vincente, qualunque cosa la parola significhi, nel
bene e nel male. Ci si può far male. E si fa
male.
- La piccola Giada piangeva piano piano a lacrime
grosse, senza singhiozzi. Io potevo solo piangere con
lei: non certo uscir fuori dal nido d'ombra che mi
custodiva e difenderla con dita scarnite dal passato,
con voce fievole come il pigolio d'un merlo appena
nato.
- Ci sarebbe voluto il rombo del tuono che fa
tremare i vetri delle finestre, i fulmini ci sarebbero
voluti, saette accecanti nel cielo scuro, gonfio di
pioggia.
- Ma guardavo e ascoltavo le lacrime di Giada:
era pur qualchecosa, questo condividere del cuore,
senza sussulti, senza furori, quieta, apatica presa di
coscienza che ancora accadeva ciò che da sempre
era accaduto, quello che é orrore nella
tenebra.
- " Non piangere, lo sai, bambolina, ti si
gonfiano gli occhi, e ai clienti non piace. Senti
facciamo così: vieni via con me, adesso,
subito, ti devo dire dei progetti che ho per te, cose
in grande, dai su , vieni! "
- L'afferrò per un braccio e la
tirò a sé, fuori dall'alone di luce,
verso il buio da cui era spuntato.
- " Mara, Mara!" gridò la piccola Giada,
per aiuto forse, per disperazione, di sicuro.
- " Lasciala perdere: una puttana ingrata si deve
lasciar perdere e ringrazia che sono di buon umore e
non la tocco...Ma tu, vecchia cretina, non farti
vedere mai più sulla strada, non farti vedere
mai più da me, non cercare Giada, mai
più, hai capito?"
- Le ombre lunghe dei due erano gà
scomparse e Mara era sola, appoggiata al fanale, una
gota in fiamme, gli occhi senza luce. Eravamo rimasti
così da soli, lei ed io e il fluido che ci
legava come un cordone ombelicale intorno al collo di
un neonato.
- Aspettavo che facesse qualcosa, che muovesse un
passo, che scrollasse la testa: niente. Lo sapevo
bene: l'inutilità dei gesti ti paralizza e ti
schianta insieme in mille minuscoli frammenti di ossa
e di sangue, lasciandoti svuotato, un attrezzo inutile
sul bordo della via. Hai inciampato troppe volte, lo
so, é capitato anche a me. Poi si mosse
allontanandosi dal palo del fanale, si passò
dolcemente una mano dietro la nuca, sotto la massa dei
capelli castani, là dove Raul l'aveva mandata a
sbattere, alzò gli occhi verso l'alto dove il
vuoto si riempiva della vita delle nuvole dalle forme
bizzarre e guizzanti, ma le stelle tacevano e non
davano risposte quella notte, come a volte capita.
- Si allontanò, prima a passi brevi e un
poco incerti, poi più veloci e sicuri,
tenendosi rasente ai muri degli edifici e alcuni
attimi dopo, ecco, era sparita. Allora mi mossi, non
so perché, mi venne da raccattare il mio
fagotto, una specie di sacca con dentro le cose
trovate, gli scarti inutili, i brandelli perduti e
abbandonati delle vite altrui, e la seguii, mosso da
una curiosità che era nuova in me, abbandonata
con il fardello delle inutilità lasciate una
vita prima o in un'altra vita: mi venne di andarle
dietro e penso che non fosse altro che umano
irriducibile senso di affinità.
- La mia ombra si confuse con l'ombra della
strada e solo un'ombra le fu dietro, lunga e
silenziosa e ne seguì i passi, ne sentì
il rumore sul selciato, infine la vide davanti a
sé, la schiena rigida, i capelli ondeggianti
intorno al volto, e allora rallentai e a distanza,
piano piano, come si addice ad un'ombra, mi fusi
all'ombra che la figura di lei si lasciava alle spalle
e così confuso in lei, parte di lei, feci la
sua stessa strada.
- Fu un lungo cammino per le vie della periferia,
fra case alte e sciupate, facciate scrostate, cancelli
rugginosi, infissi screpolati, il tutto in un mare di
sterpaglia, il marciapiede era finito da un pezzo e si
era trasformato in lungo tratto di terra battuta che
si snodava fra pozzanghere e buche verso la fine del
mondo. Del mondo che gli altri conoscono. Ci fermammo
davanti a una casa brutta e disperata, aprimmo un
cancelletto e scendemmo quattro gradini fino a una
porta verniciata di blu, una pervinca nel deserto,
prendemmo la chiave dalla borsa e aprimmo la porta e
lei entrò.
- Io rimasi fuori, nel vento della notte e vidi
accendersi una luce e vidi un finestrino raso terra
illuminarsi e poiché ero curioso, mi chinai
fino a toccare la terra umida con le ginocchia e
guardai dentro una stanza che pareva nata da una
cantina, e che era la casa dove lei viveva, dove
teneva le sue cose, il suo passato, il suo oggi e
forse, perché no? , il suo domani.
- Mara era in piedi , si era tolta il cappotto, e
rivelava l'abbigliamento adatto al suo lavoro, ma
anche così nulla nell'aspetto aveva da spartire
con le altre. Pensai, guarda che spreco di vita,
guarda il volto dell'infelicità, dello scempio
del tempo, dei tentativi annegati nel mare senza fondo
senza pesci senza vita, eppure anche per lei un giorno
lontano una conchiglia avva ripetuto il canto del mare
e l'aveva incantata portandola lontano nel sogno di
giorni felici. Rabbrividii e fu per quella parola che
mi era sfrecciata nellla mente, quel felici che faceva
suonare la campana a morto per quello che forse ero
stato e non sarei stato mai più, é dolce
fallire, é dolce lasciarsi inghiottire dal
dolce fallire mentre la conchiglia si schiude, la
perla riluce e tu senti la risacca all'orecchio
cantare solo per te.
- Da lontano mi giunse il pensiero che era
ricordo, la felicità non é di questa
terra. Poco ma sicuro. Io lo sapevo.
- Eppure ERO STATO FELICE. Quando non ricordavo,
dove, perchè non sapevo. Sentivo il frullo
dell'esser stato felice agitarsi dentro di me come un
uccello che vuol lasciare la gabbia per volare
incontro al cielo e sbatte solo contro le sbarre
sottili del mondo in cui vive.
- La FELICITA'NON E'di questa terra.
- A qual mondo appartiene? A quale stella o
pianeta perso nell'immenso sudario che circonda
l'esser umani? Perchè non dovrebbero le
creature godere della felicità? Rabbrividire di
gioia? Morire di smisurata, incontenibile,
incontrollabile felicità? Quando proprio questo
poteva essere l'obiettivo finale del vivere.
Già. La felicità serpeggia da dentro,
traspare dallo sguardo, si perde nelle membra, esce
dalla bocca nel respiro, collega le ore al suono della
campana che accompagna il feretro al camposanto, lenta
lenta s'accoppia al tempo e intreccia ghirlande
profumate da portare sul capo come corone.
- Esser felici dentro, con l'anima spalancata ad
accoglier il mondo. Già. Proprio
così.
- Guardai nella casa cantina: Mara si era seduta
e si stringeva il capo fra le mani, piangeva, le
spalle scosse da grandi dilaganti singhiozzi.
- Le creature in trappola piangono lacrime di
sale sotto la luna e solo attendono che la fine arrivi
presto, prima di soffrire troppo. Ma chi può
dire qual'é il limite della sofferenza? Quando
si ha troppo sofferto? Quanto e per quanto tempo si
deve espiare la colpa d'esser nati alla vita e d'aver
cercato di viverla? Dove sta l'errore in questa
macchina infernale?
- Dove finisce la luce e incomincia la tenebra?
Eppure ci sono milioni di persone che vivono
tranquillamente la vita di agnelli destinati al
macello e non pensano e credono solo che le cose
vadano così perché così é
stato e così sarà e perciò tutto
va bene: é regolare. Sono i giusti. Sono i
saggi. Sono l'essenza del mondo.
- Li vedevo ogni giorno darsi da fare sotto il
sole e sotto la pioggia, arrancare per le strade,
sfiatarsi, spazzare, aprire e chiudere serrande,
lanciare bombe, sparare con fucili e pistole,
lanciarsi da aerei impazziti, cantare nel coro la
domenica, vestire a lutto, ballare, sorridere, far
l'amore, amare e distruggere l'amore, sfigurare i
giorni e le notte chini su lavori che nobilitano e
permettono di sopravvivere o di dare ricchezza e
ancora ancora, flagellati dai venti cadere sulle
pietre rialzarsi pesti e sanguinati: essi sono i
forti, coloro che cadono e poi si rialzano, non hanno
paura di cader ancora, sono abili e impararano presto
a far lo sgambetto agli altri e a farli precipitare
nell'abisso. La legge del sopravvivere, in pace e in
guerra, la legge che regola e disintegra, le leggi che
ci difendono e ci aggirano in reti di nylon sempre
più strette in maglie d'acciaio che
strangolano.
- Ma io ne ero uscito: io non ero un forte, non
ero un saggio, né un giusto. Io ne ero uscito
tanto tempo prima. Mi sentivo contorcere al suono
delle voci che non volevo sentire più, mi
tappai le orecchie, chiusi gli occhi, niente sentire,
niente vedere, niente parole, niente sogni, niente
illusioni. Basta.
- Sentivo la bestia urlare dentro di me, mi
battei sul petto, dovevo farla tacere, dovevo
assolutamente farla sparire. Ecco, piano, respiro
lungo, mani tese, palme aperte, piano, ancora, un
momento, la riccacciai via, nei meandri tortuosi del
fiume da cui una volta ancora era riemersa, fra i
pesci vorticanti in gorghi di madreperla.
- Mara aveva appoggiato il capo sul piano del
tavolo di legno scuro e macchiato, sulle braccia
incrociate. Era bella, Mara, e sconfitta.
- Mi arricciolai in un angolo, il più
scuro e il più vicino a lei e mi strinsi
addosso l'essenza del presente che sapeva del colore
smorto del suo bel viso e stetti lì fermo e
quieto, a far la guardia, fino a che l'alba grigia
d'autunno inoltrato non giunse a dar risalto alle
brutture che la notte aveva nascosto. Allora mi alzai,
quattro ossa scricchiolanti, una mente indolenzita e
sbirciai dal finestrino. Era sveglia e in piedi
accanto a un fornelletto a spirito: preparava il
caffé. Aveva gesti tranquilli e sicuri come di
chi ripete un cerimoniale imparato a memoria: mi parve
una sacerdotessa.
- RITORNA ALL'INDICE
-
- Capitolo
2 (...)
-
- Mi allontanai
dalla casa di Mara, raggiunsi l'angolo da dove partiva
la strada sterrata che avevo percorso con lei la notte
prima. Si annunciava una bella giornata, con il sole e
quel po'di caldo che ti fa credere d'essere di
primavera e ti dimentichi che l'inverno si sta
avvicinando a lunghi passi.
- Ne erano caduti tanti d'inverno, con il corpo
straziato dal gelo, ma io ce l'avevo fatta, ero
tornato. Se il mio era stato un ritorno.
- Il sole scaldava già e di già la
gente usciva per strada, era di fretta, si vedeva che
avevano dove andare, un posto da raggiungere e un
orario da rispettare. Le donne mettevano le lenzuola
fuori dalle finestre a prender aria, come tanti
fazzoltti bianchi di resa, alcune erano per strada e
andavano a un mercatino di frutta e verdura girato
l'angolo, allestito su uno spiazzo di terra battuta,
giovani con gonne scozzesi grige marroni e giacchette
di lana, vecchie con abiti scuri e sciupati, tutte con
pochi soldi ben stretti fra le dita delle mani e voci
acute nel criticare i prezzi. Mi passavano accanto, mi
schivavano, si giravano a riguardarmi e poi tiravano
di lungo.
- " Un altro. " dovevano pensare.
- Proprio così, un altro e poi un altro e
poi un altro ancora. Quanti saranno gli altri? Decine?
Centinaia? Migliaia? Ma qui ce n'é uno.
- " Venghino, signori e signore, venghino a
vedere il miracolo, il mostro partorito dal ventre
della vacca! Qui ce n'é uno! "
- Ma se ne andavano, affrettavano il passo e di
ciò non potevo fare a meno di
ringraziarle.
- Infine anche Mara uscì. La vidi arrivare
e le vidi il viso alla luce del giorno e il giorno
rivelò quello che la notte e la dolce soffusa
luce del lampione avevano nascosto e ammorbidito.
- Aveva tratti spezzati e guance incavate, borse
bluastre sotto gli occhi più belli del mondo,
verdi come onde cavalcate da delfini, e rughe sottili
incise agli angoli della bocca morbida e piena. Era
bellissima. Indossava una gonna nera, una camicia
bianca e sopra un golf grigio con tanti bottoni: ci
sarebbero volute ore pr sbottonare quel golf, io avrei
voluto impiegarci anni.
- Si incamminò lungo la strada
percorrendola in senso inverso a quello della sera
innanzi, fino ad una fermata del tram. Mi fermai,
desolato: io non salivo sui tram. L'avrei persa. Il
tram arrivò, lei salì. Rimasi a terra,
seguendola con lo sguardo mentre si sedeva, poi lei
guardò fuori dal finestrino distrattamente e
così accadde che il suo sguardo si posasse su
di me, un attimo e se ne era già andata.
- Mi aveva visto, aveva visto la sua ombra, aveva
sentito battere il mio cuore vicino al suo.
- Mi guardai attorno: brutti casermoni
spalancavano le cento bocche inghiottendo persone o
liberandole e bambini sciamavano intorno nel tepore
ingannevole del sole, fra sterpaglie e sassi e fango,
giocavano i giochi dei bambini. Che strana sensazione
dava la parola bambini, come un 'eco mi saliva
all'orecchio e poi si smorzava in mille righe su un
foglio di carta accartocciata che il vento porta
lontano. Mi capitava di continuo: sensazioni e
più niente, ma era giusto: io non sapevo chi
ero. Forse ero un'eco, anch'io, come quella del mare
dal profondo del cuore della conchiglia. Non volevo
andarmene, non potevo andarmene, mi sedetti su una
cassetta rovesciata nel campo dove l'erba non riusciva
a crescere, mi tolsi il fagotto dalla spalla, lo
posai, l'aprii e ne tolsi un pezzo di pane raffermo.
Lo mangiai piano piano, anche le briciole. Richiusi il
fagotto e me lo misi fra i piedi. Il sole mi scaldava,
il sole fa bene alle ossa, ma le mie erano congelate
da troppo tempo. Una vecchia passò, si
fermò, si girò e tornò sui suoi
passi, pensai che si fosse dimenticata qualcosa.
Invece no, si diresse verso di me, dunque non ero
trasparente, di giorno almeno. Quando mi fu vicino mi
fissò e mi chiese:
- " Da dove vieni? " Io scossi il capo.
- " E dove vai? " Scossi il capo di nuovo. Che
altro potevo fare?
- " Avevo un figlio, era giovane, é morto
sui monti."
- La fissai allora e aveva il volto indurito e lo
sguardo feroce. " Non sono stato io." dissi.
- " Lo so" rispose. Dalla sporta prese un pezzo
di pane fresco e me lo allungò.
Esitai.
- " Prendilo, dai", disse," é buono. Sei
un disgraziato anche tu. "
- Presi il pane e la vecchia si allontanò.
Era già capitato, che qualcuno si accorgesse di
me, che mi allungasse qualcosa, ma non avevo mai preso
niente. Tenni il pezzo di pane in mano, era caldo, di
forno, si sentiva fra le dita sporche di terra e di
sudiciume giallo dorato, come un sole che sorride, era
prezioso, era per me. Lo riposi con cura nel fagotto.
- Un merlo lucente, piume nero, becco arancio, si
posò a pochi passi. Amavo i merli, più
delle rondini, più dei passeri e dei colombi.
Lo guardai finché non spiccò il volo,
con un frullo fu in alto in un attimo, con un batter
d'ali, in alto e libero. Il merlo, non io. Sapevo che
mi pesavano addosso catene di ferro arruginite e
cigolanti come quello di uno spettro, sapevo che le
portavo male, sapevo che gli uomini portano tutti
catene e che le portano male, ma la differenza fra me
e loro era che io avevo rinunciato a tentar di
liberarmi dalle mie, mi ci ero affezionato, me le
stringevo addosso e speravo che una notte o l'altra
avrebbero finito per soffocarmi. Avrei potuto
dormire.
- Poi vennero i bambini, due maschietti e una
bimba. I maschietti portavano pantaloncini corti, di
lana e maglie con buchi vistosi sui gomiti e polsi
sfilacciati, la bimba aveva una gonnellina scozzese e
un maglioncino rosso, mi ricordò un papavero
d'estate in un prato verde smeraldo. Mi si
avvicinarono ridacchiando, un po'impacciati, un
po'timorosi, chiaramente curiosi. Si fermarono a pochi
passi da me e mi osservarono. Dovevo sembrare loro
strano, fuori dal comune, certo diverso dalle persone
che frequentavano. Mi specchiai nei loro occhi e non
mi ritrovai, non ci si ritrova mai negli occhi degli
altri, se non in quelli delle persone che ci amano e
che noi amiamo. E poi i loro erano gli occhi
dell'innocenza, della più tremenda innocenza e
io non avevo nulla da spartire con l'innocenza. Chinai
la testa e mi fissai i piedi dentro le scarpacce
infangate e sgangherate che non mi toglievo da...
quanto tempo? Non importava. Mi ero creato un mio
ordine di priorità, dal più importante
al meno importante. Solo che mi era semplice
localizzare le cose che meno importavano, sempre
più giù nella scala dei valori, mentre
mi era difficile trovare qualcosa da sistemare nei
gradini alti della scala che risultava così
sconnessa, in bilico fra realtà e follia.
- La bimba allungò una mano piccola e
bianca come un petalo di magnolia che subito divenne
un fiocco di neve e mi toccò. Come fa male il
tocco d'una bimba! Mi sconvolse e di colpo alzai il
viso e la bambina fece un passo indietro. Aveva grandi
occhi marroni con pagliuzze d'oro e tentava di
sorridere. " Ciao" biascicai.
- " Ciao" rispose " Chi sei?" Mi venne da
piangere.
- " Non lo so." risposi.
- " Tutti sano chi sono" fece il maschietto
più grande " Tutti hanno un nome " aggiunse.
- " Io no" ribattei. Risero.
- Bene, adesso sapevano che di me potevano
ridere, che ero uno buffo, uno che non sapeva chi era.
- " Aspetti qualcuno?"
- " Sì"
- Adesso erano attenti: finalmente qualcosa di
decente. " Chi?"
- " Mara" risposi. Scossero la testa, non
sapevano di chi parlavo.
- " E'tua moglie?" chiese il secondo maschietto.
- " No"
- " Tua figlia? " Feci di no con il capo.
- " Tua madre?"
- " No"
- " Non é una tua parente?"
- " No"
- " Perché l'aspetti?"
- " Non lo so"
- Erano sconcertati. E scocciati. Il gioco era
finito, non si poteva chiaccherare con me. Si
allontanarono. Era ormai mezzogiorno. E Mara
tornò a casa.
- Teneva un pacchetto in mano, carta marrone con
un spago intorno, camminava svelta, senza cedimenti di
stanchezza. Raggiunse il casermone, scese nella sua
cantina e sparì. Ma io continuai a vederla: mi
danzava negli occhi, respirava nell'animo, sospirava
dentro di me. Le ore passarono e si fece scuro. Le
luci si accesero dietro le finestre. Le persone
rientrarono, alcuni, si vedeva, stanchi morti, altri,
si vedeva, disfatti da un'altra giornata di inutile
ricerca, di speranze deluse, alcuni tranquilli, altri
tesi, alcuni in tram, alcuni a piedi, altri in
bicicletta. In tutto il giorno erano passate solo tre
automobili e nessuna s'era fermata. Tutto il quartiere
trasudava miseria.
- Mi alzai, presi il fagotto e mi intrufolai nel
mio angolo, vicino a Mara. Sbirciai dal finestrino:
Mara aveva disfatto il pacchetto e aveva arrotolato lo
spago in un rotolino posato in un angolo, sul tavolo
accanto alla carta marrone ben lisciata e piegata. Sul
tavolo potevo vedere un flaconcino scuro, sottile e
lungo, quasi una fialetta, una scatola forse di talco
ed una forse di polvere dentrificia. Era stata in
farmacia. Era molto pallida e le mani le tremavano. Si
mosse, incominciò a girare intorno al tavolo,
posò le mani sullo schienale della sedia, sugli
oggetti che vedevo, una tazza , un coltelo, e su
quelli che non vedevo: era come se li accarezzasse,
era come se li salutasse. Capii che aveva deciso di
andarsene. Una volta, mi pareva di ricordare avevo
visto fare qualcosa di simile ad un'altra persona,
chissà chi, chissà dove, chissà
quando, e poi s'era messo la canna della pistola in
bocca e di colpo non c'era stato più. Mara
voleva morire. Io volevo che vivesse, eppure sapevo
quanto la vita poteva essere dura, invivibile, feroce,
scarnificatrice, vita assassina. Ma dentro di me
volevo che continuasse a subire il tormento, a reggere
anche l'insostenibile, volevo la vita per lei, la vita
che poi, in ultimo é l'unico dono che ci viene
elargito dall'inizio dei tempi. Nessuno regala
più niente, dopo. Dopo c'é solo
conquista e degrado.
- Bussai alla porta azzurra. Silenzio. I passi
cessarono. Tornai a bussare, forte.
- " Chi é?"
- " Io, sono io, Mara. Aprimi. "
- Aprì la porta e mi fu davanti, ci
separavano un cinque passi. Non si spaventò,
non arretrò, mi guardò interrrogativa.
Io tacevo, la mente svuotata. Che dovevo dirle?
- " Sono l'ombra che ha baciato la tua, ieri
notte, sono l'ombra del niente che ti ha seguita e ti
é stata accanto tutta la notte e atteso tutto
il giorno e adesso sono qui perché vorrei tanto
che tu vivessi."
- Avrei potuto dirlo, certo, ma ero terrorizzato
dal fatto che potesse non capirmi, anche lei.
- Tacevamo nell'ombra della sera, e i fantasmi
s'incontravano e si riconoscevano, si stringevano la
mano, si salutavano:
- " Anche tu qui?"
- " Certo, perché no?"
- In tempi che ormai non riuscivo a collocare,
avevo imparato che la disperazione di uno sa
riconoscere la disperazione dell'altro e stringere
alleanza e trovare la forza di annullarsi l'una
nell'altra, come l'onda che percuote la sabbia lascia
l'impronta sulla battigia, onda su onda a formare un
oceano di acque del color del cobalto.
- Si scosse, aprì la bocca per fare la
domanda a cui non avrei saputo rispondere, invece
disse:
- " Aspetta, ti do qualcosa da mangiare."
- Feci cenno di no.
- Mentre mi guardava interrogativa, aprii in
fretta il fagotto e ne tirai fuori il pezzo di pane
fresco, glielo mostrai. Glielo offrii.
- " No", fece, " tienilo. Non valgo tanto."
- Non aveva capito. Perchè viveva da
troppo in un inferno dove tutto può accadere.
- " E'per te", dissi, " Io me ne vado. Non voglio
niente."
- Esitò, stanca, sfinita, doveva aver
pensato tanto quel giorno e non poteva pensare ancora.
Si scostò dalla porta azzurra e disse:
- " Entra." Io entrai. Dentro una stufa di quelle
a carbone, arancione con lo sportello verniciato di
nero brillante, diffondeva un po'di tepore e dava
l'idea di trovarsi in un nido, abbracciato da rami
benevoli, riparato e sicuro.
- Sapevo che era un'illusione, eppure per un
momento, uno solo, me ne lasciai prendere, mi lasciai
coinvolgere dall'idea - casa-, perché anch'io
dovevo pur aver avuto una casa una volta, tanto tempo
prima, in una vita precedente magari, così come
anch'io dovevo aver avuto una madre. Dov'erano finite
mia madre e la mia casa? Le mie certezze, le mie
radici, il fondamento stesso dell'essere stato io,
dov'erano andati a nascondersi? Ero certo che non
erano scomparse, ma solo fuggite, terrorizzate dal
clamore delle voci che mi rimbombavano all'orecchio
nei giorni e nelle notti d'ombra.
- Nella stanza c'era spazio oltre che per il
tavolo e le sedie e il fornelletto che avevo visto
dalla finestrella, anche per un letto, una branda con
i piedi di ferro, ricoperta da un panno verde scuro e
c'era in un angolo dietro una tenda in quel momento
lasciata aperta, un'asta con delle grucce attaccate e
alcuni abiti appesi, l'armadio. E c'era una
poltroncina vicino al letto, piccola e aggraziata,
rivestita di cotone fiorato, un po'sbiadito: fiori di
primavera, rosa come fiori di pesco, azzurri come non
ti scordar di me, gialli come primule su uno sfondo
verde di prato. In primavera.
-
- Eppure di primavera avevo visto scavar fosse e
spuntar croci sui prati fra buche profonde e glicini
in fiore. E noi a guardare le lacrime di sangue
sull'erba. E noi ad ascoltare le voci che pregavano.
Avevamo guardato, avevamo sentito, ma nessuno era
sceso nella valle. Eppure sarebbe stato facile,
sarebbe bastato mettere un passo dopo l'altro e
chinare il capo, non sarebbe occorso neppure parlare.
Io o un altro, non sarebbe importato. Uno qualunque
infine sarebbe bastato per farli contenti. Ma non era
andata così. E giorno dopo giorno, notte dopo
notte, io continuavo a scendere a valle un passo dopo
l'altro, a capo chino.
-
- Mara mi fissava mentre me ne stavo in piedi
sulla soglia a guardarmi intorno, con aria intontita;
si mosse e decisa chiuse la porta alle mie spalle, con
forza.
- La porta sbatté sul mio cuore facendolo
impazzire di paura. Dovevo uscire fuori, di corsa
all'aria aperta, lì non avrei saputo come
respirare e poi al chiuso le voci avebbero trovato
risonanze feroci e mi avrebbero scorticato l'animo. Mi
rigirai e posai la mano sulla maniglia.
- " Non andare" mi disse " Non mi importa chi
sei, non mi importa da dove vieni, non m importa se
sei un ladro o un assassino. Resta qui".
- Lasciai la maniglia e quella fu la mia resa,
l'ultima concessione che feci alla vita. Da allora la
vita fu in debito con me.
- Restai e alzai lo sguardo su di lei, poi lo
posai sulla bottiglietta sottile ancora sul tavolo,
lei seguì il cammino del mio occhio e sorrise.
- Non ho mai compreso il significato vero e
profondo dei sorrisi di Mara, mi accontentavo di
scaldarmi al loro tepore. Sorrise, fece alcuni passi,
prese la bottiglietta in mano.
- " Vuoi fare un brindisi?" chiese
- Mossi il capo, no, grazie.
- " No? Tu te ne intendi di brindisi, vero? Hai
ragione: non adesso. Non ancora. Avanti, vieni avanti
e siediti e stai un po'vicino alla stufa, ti
riscalderà." Prese la poltroncina per la
spalliera e, con modi bruschi e definitivi, la
strusciò per terra vicino alla stufetta. Me la
indicò.
- " E'comoda. Puoi sederti. Non aver paura di
sporcarla. Non é importante. "
- Mi sedetti, volevo farle piacere, accontentare
quella che suonava come un'offerta gentile, di
più, come un favore. Mi sedetti rigido senza
appoggiarmi allo schienale. Lei mi guardava con quei
suoi occhi che erano gli occhi più belli del
mondo, una certa fissità nello sguardo che
sentivo posarsi su di me, un lembo di carne dopo
l'altro, occhi senza pietà, senza fremiti
dell'iride sembravano correre su e giù per la
giacchetta sudicia e strappata, per i pantaloni
infilati nelle scarpacce infangate, su e giù
per il viso, mille formiche correvano lungo la barba
di quanto? , non sapevo, non ricordavo, il sangue
prudeva sotto la pelle, era insostenibile lo sguardo
d'un essere umano che cerca d'impossessarsi di quello
che sei.
- " Lo vuoi un caffé? Lo sto
facendo."
- Non attese risposta, si girò veso il
fornelletto e rapida rigirò la napoletana che
aveva emesso il suo fischio. Il profumo del
caffé riempì la stanza che era stata una
cantina. Lo versò in due bicchieri di vetro,
aggiunse lo zucchero, mi porse un bicchiere
fumante.
- " Prendi: é buono. E'caldo."
- Bevemmo il caffé caldo ed io lasciai che
mi riempisse la bocca del suo sapore, che m'impastasse
la lingua, socchiusi gli occhi per gustarlo meglio.
- " Buono, vero?" disse lei.
- Annuii.
- " Non parli molto, vero? Meglio così. Ne
ho sentite tante di chiacchere. Troppe. Fino a
sentirmi ronzare le orecchie. Un po'di silenzio.Ecco
quello che ci vuole e un po'di compagnia. In silenzio.
"
- La capivo. Le ombre degli alberi la notte non
parlano, si uniscono nella solitudine dei campi, lungo
i viali, nella pioggia, sotto le stelle e scambiano
lunghi silenzi sussurranti.
- Mi prese il bicchiere vuoto dalle dita e lo
portò al piccolo secchiaio insieme al suo: non
li lavò, li posò solo con un
tintinnio.
- " Sai il mio nome. Chi te l'ha detto? No,
lascia perdere. Non voglio saperlo, non m'importa
niente di niente. Mi conoscono in tanti, questo lo
sai, ...mi conoscono, oddio, se mi conoscono!"
- Fece un sorriso storto che le spezzò la
linea delle labbra e non mi piacque. Non volevo che si
sentisse come doveva sentirsi.
- Mi mossi sulla poltroncina; la stufa faceva
caldo, si stava bene lì, ma non era per me. Io
non volevo star bene, comodo, al caldo. Feci per
alzarmi, poi mi fermai.
- " Se vuoi andare, vai." disse Mara " Non voglio
che tu stia qui solo per farmi piacere." Orgoglio,
tremendo orgoglio, che non permette di chiedere, si ha
paura di chiedere, per terrore di un rifiuto.
- Non me ne sarei andato, tanto per me era lo
stesso, anche lì io ero io e mi portavo
appresso quella maledizione.
- Mara sedette sull'orlo del letto e fissò
la finestrella in alto.
- Un lungo silenzio cadde sulle cose nella
stanza, interrotto solo dal cader delle gocce nel
lavandino, il rubinetto perdeva.
- E nel silenzio sentivo parole correre fra di
noi e riconoscersi e creare una lingua nuova, pensieri
si formavano, s'incontravano, si mescolavano, si
dissolvevano ed altri nascevano rossi come fiori di
papavero fra le spighe d'oro prima che la falce cali.
Fremiti di parole e di pensieri, era come se sentissi
battere i nostri cuori insieme, con lo stesso ritmo
scandito e perfetto, un solo cuore per riporvi i
nostri passati, il nostro presente, qualunque fossero
stati. Fu, lo so, un momento di pura magia. Ma eravamo
disperati e disperatamente cercavamo qualcosa senza
neppure renderci conto che l'avevamo a portata di
mano.
- " E'meglio che tu vada. Hai dove andare? No,
certo che no. Comunque ormai devi andare. Ti do
qualcosa da mangiare, guarda m'é rimasto del
formaggio, me l'ha dato uno, uno che non ricordo
più chi fosse. Prendilo e ...io ho da fare, sei
stato gentile a star qui, ma adesso devo proprio fare
le mie cose, mettere ordine, far pulizia. "
- Non mi mossi.
- " Vattene!" Aveva alzato la voce, mi indicava
la porta.
- " No." Feci fatica ad articolare quell'unica
sillaba, mi uscì un po'strascicata,
impastata.
- " Che cosa vuol dire, no?"
- " Resto. "
- " Che cosa ti credi? Che non abbia niente da
fare oltre che star qui a goder della tua compagnia?"
Era spaventata. E voleva esser cattiva, far
male.
- " Resto. "
- " Perché?"
- " Non voglio che ti ammazzi."
- Mi guardò stranita: una roccia desolata,
devastata apriva il fianco a mostrare le ferite aperte
dal gelo dell'inverno.
- " Non é affar tuo. Non sai chi sono, non
so chi sei. Non é affar tuo."
- " Io so come sei."
- " Bello! Bello davvero!"
- " Ed é affar mio."
- " Ma per amor del cielo!"
- " Odio gli sprechi. Gli sprechi mi riguardano.
Se ti uccidi é uno spreco di tempo, di giorni
mesi anni, di te, di quello che hai dentro, di quello
che pensi, che provi. Se ne é sprecata tanta di
vita, non credi? " Mi stupii di poter dir tante
parole, buttandole fuori tutte di colpo, quasi senza
prendere fiato.
- Scosse il capo e i capelli morbidi e setosi si
mossero ad ombreggiarle le gote, grandi lacrime di
cristallo le scesero lungo le guance, s'insinuarono
negli angoli della bocca, bagnarono il viso, senza che
lei facesse nulla, neppure un gesto, per asciugarle,
per nasconderle. Era come un fiume che rompe gli
argini, un lago che tracima quel pianto lungo e
inarrestabile, disperatamente liberatorio.
- Avevo ricordi di singhiozzi urlati nel vento,
di pianti ansimanti a soffocare il respiro, ma Mara
piangeva come fa il cielo in Agosto, gloriosamente,
lacrime come stelle cadenti.
- " Tu dici così, tu che sembrava non
sapessi nemmeno parlare. Parli di vita. A me, proprio
a me. Io so riconoscere l'inutilità, so leggere
nel passato e vedere il bene che non c'é stato
e il male che mi ha portato qui. Ma finalmente sono
libera, da illusioni, speranze, sogni, paure, libera,
capisci, completamente. E sono pronta ad andarmene.
Non ho rimpianti, non mi lascio niente alle spalle,
non ho niente davanti. Solo stanchezza che mi sfianca
e sono stanca di sentirmi sfinita. Me la sono voluta,
la mia vita, me la sono cercata, colpa mia. Devo
pagare per la mia vita e non solo per
quella."
- " Troppo facile. "
- " Non é vero. Non é facile, se lo
fosse stato... E poi lo dici proprio tu? Ma ti sei
guardato? Lo vedi in che stato sei? Non parlo della
miseria, ma...Che vita fai? Perché vai avanti?
Tu, tu chi sei? "
- " Non lo so. I miei ricordi sono confusi e
terrori m'assalgono e cammino per le strade di giorno
e di notte e non m'importa se ho da mangiare o da
bere, non m'importa di me, a volte sento voci, quelle
sono importanti e a volte mi sembra d'essere uno
sconosciuto a me stesso, lo sono in
realtà.
- Dev'esser accaduto qualcosa che mi ha fatto
dimenticare... é come se fossi nato sulla
strada, con questi stracci addosso e questa puzza e il
terrore d'udire gli urli...Ma chi urla? Devo aver
fatto qualcosa di terribile. Devo pagare."
- " Anch'io. "
- Ci guardammo, eravamo simili, le nostre ombre
lo avevano capito subito.
- Mi alzai dalla poltroncina, mi avvicinai al
tavolo, presi in mano la bottiglietta scura: aveva un
piccolo tappo di sughero, avrebbe potuto sembrare solo
un po'di profumo, tolsi il tappo e annusai. Ancora
quell'odore, l'avevo già sentito, forte,
penetrante, mortale. Scossi il capo e tenendo la fiala
fra le dita dissi:
- " Non ne vale la pena."
- Sentii il suo grido mentre versavo il contenuto
nel secchiaio. Feci scorrere l'acqua.
- Aveva le pupille dilatate dall'angoscia, le
battevano i denti e un tremito la scuoteva come il
vento fa con le canne in riva al fiume.
- Avrei voluto avvicinarmi a lei, ma non potevo,
il passato me lo impediva, il contatto fisico mi dava
la nausea, ogni corpo era un cadavere.
- E poiché avevo fatto quello che avevo
voluto, farla vivere, mi venne da pensare che era
davvero tempo d'andarmene e m'avviai alla porta. La
guardai un'ultima volta e poi allungai la mano a far
scattare il chiavistello.
- " Non puoi lasciarmi sola. Adesso no.
"
- Era vero. Ormai ne ero responsabile, per un
po'almeno, per quella notte almeno.
- Fu così che posai il mio sacco a terra
e, senza una parola mi accoccolai sul pavimento vicino
alla stufa, nel tepore della stufa, mentre
l'oscurità s'addensava nella stanza e lei se ne
stava raggomitolata sul letto. E venne la notte ed io
sentii crepitii e vidi lingue rosse danzare e la stufa
divenne di ghiaccio e lei gemeva a tratti dal letto,
nell'oscurità.
- In questo modo incominciò la mia vita
con Mara.
- Vorrei che mai, mai fosse finita.
-
- Finisce tutto si sa, il bene e il male
accumunati dalla sentenza definitiva che pone il
sigillo alle azioni e ai pensieri, senza appello.
Eppure il ricordo aggira la sentenza perchè il
ricordo dura. Non ci piove. Il ricordo resiste, non
è eterno, ma resiste. Si fa roccia nel correr
dei secoli verso la loro disgregazione, si fa acciaio
fuso nel palmo della mano, si fa monumento e insieme
sacrario. Continuità. Fluire delle acque verso
il mare. Voce incessante che narra storie di uomini,
di tracce lasciate, di sospiri di cuori. Incessante.
Perenne. Viva. CONTINUITA'.
- RITORNA ALL'INDICE
-
- Capitolo
3 (...)
-
- L'alba
s'annunciò splendida, la mano del sole
penetrò dalla finestrella e si posò sul
capo di lei: dormiva finalmente, un sonno inquieto, ma
profondo. La luce fu dolce con lei e gentilmente le
accarezzò la gota e poi i capelli, passando
leggera sulla palpebra chiusa senza evidenziarne il
gonfiore, scese lenta lenta sulla mano piccola e ben
fatta, esile, da bambina e girò brevemente per
la stanza toccando una cosa qui, un'altra là.
Non mi lasciai sfiorare, mi rintanai nell'angolo e mi
persi a contemplare il pulviscolo brillante che il
raggio del sole nascente portava nel grembo, polvere
incantata, di quella che permette di volare se te la
metti addosso, o di tutto sapere se ne inghiotti un
pizzico, ne ero sicuro.
- Avrei potuto uscire in silenzio, carponi
strisciare fino alla porta, aprirla e fuggire; non
sapevo chi ero, non sapevo da dove venivo, sapevo che
non potevo fermarmi, mi avrebbero preso, se mi fossi
fermato.
- Invece rimasi e cercai di non pensare, tirai un
chiavistello e feci vuoto nella mente. Sentivo battere
forte il cuore, per ansia o paura.
- Aspettavo che si destasse. Io non ero il
principe biondo sul gran destriero bianco che poteva
avvicinarsi a lei e svegliarla con un bacio. Potevo
solo aspettare. Ecco quella era una delle stranezze
che mi capitavano: da dove era spuntata l'idea-rcordo
di quel principe, di quel bacio? Non volevo rovistare
e cercare, mi doleva il capo, eppure una voce parlava
di cavalieri e re e regine e di quel maledetto cavallo
bianco, una voce gentile, avvolgente, mi veniva da
dare la testa al muro, ero terrorizzato dal pensiero
che fosse la mia voce, quella che avevo avuto. Mara si
mosse, si allungò stirandosi e aprì gli
occhi. Si guardò intorno nel piccolo spazio
della stanza sorvolando sugli oggetti e si posò
su di me. Un attimo e ricordò. Il sonno
fuggì via nell'alba e lei si sedette sulla
branda, si passò la mano fra i capelli, sugli
occhi d'oro e mi sorrise.
- " Sei rimasto! " esclamò. Sentii che era
felice di rivedermi ancora lì, con lei e nel
mio cuore frullarono le ali di cento passeri in
primavera.
- " E'bello trovare qualcuno quando ti svegli,
erano secoli che non mi...
- Sei stato tutta notte lì per terra?
Certo che ci sei stato. E'da te. "
- Mi guardava, mentre parlava ed io ero
consapevole dello spettacolo che offrivo; non mi era
mai importato, faceva parte della mia pena, ma per
lei, solo per lei, avrei voluto avere un aspetto
diverso.
- " Che cosa ti hanno fatto? " chiese
piano.
- Non risposi. Non volevo.
- Si alzò, mi si avvicinò, si
chinò verso di me, si mise in ginocchio accanto
a me e allungò una mano, una mano sola a
sfiorarmi gli occhi, la barba, i capelli. Senza
ribrezzo, disgusto, pietà, e la sua mano era
calda e morbida, sapeva di acqua e sapone, il suo
tocco non mi fece fuggire.
- " Grazie " mormorò e mi depose un bacio
breve fra le sopracciglia.
- Il sangue mi correva rapido per le vene, era
come un torrente in piena che precipita a valle da un
immenso ghiacciaio e travolge nell'impeto arbusti e
sassi con limpide chiare acque avvolgenti a formar
brevi vortici e cascatelle e rivoli.
- M'era dunque rimasto sangue nelle vene. Ma non
alzai il viso. La maschera era sempre lì a
coprire l'animo.
- Mara si alzò in piedi, andò al
fornelletto, sospirò e preparò il
caffé: di nuovo, come la sera prima. E come la
sera prima lo bevemmo nei due bicchieri e intanto lei
riaccendeva la stufa, buttandoci dentro un poco di
carbone e dei fogli di carta. Ben presto lingue rosse
si levarono dietro lo sportello nero lucido e la stufa
riprese vita.
- " Perché l'hai fatto? " chiese " Ieri,
dico, perché... Dimmi chi sei. Io non ti ho mai
visto prima."
- Scossi la testa. Non potevo, non sapevo
rispondere a quella domanda. E la temevo, proprio
perché non avevo risposte da dare.
- " Lascia che ti aiuti . " disse
- Mi levai dal mio angolo e feci cenno di no. Non
volevo che s'impelagasse con me. Ne aveva abbastanza
del suo.
- " Vorrei aiutarti, non capisci, devo aiutarti.
Non so se mi hai fatto un favore ieri. Non ci voglio
pensare. So solo che adesso sono qui e tu sei qui e
che qualcosa ci lega, non so, qualcosa, la mia vita
che esiste ancora, forse, qualcosa di sottile, di
forte insieme.
- So che te ne andrai, se ne vanno tutti e sei
libero di farlo, ma mentre le altre volte ero contenta
che se ne andassero, adesso vorrei che rimanessi, non
per paura, non per solitudine o disperazione, anche se
é vero che sola lo sono e disperata forse
anche, ma per qualcosa di diverso, perché sei
tu, e sei come il ritratto che porto dentro, sei me.
- Stupida sono, vero? E sentimentale. Chi
l'avrebbe detto? Mai ci avrei creduto di poter
diventar sentimentale. La vita fa certi scherzi, a
volte..."
- Ero in piedi davanti a lei, stanco, frustrato,
spaventato e la luce giocava a formare disegni d'ombre
sul pavimento: accadde così che le nostre due
ombre si confusero l'una nell'altra, la mia ombra
strinse la sua forte contro il petto mentre un grido,
se poi era un grido, mi usciva dalle labbre contratte
premute sui suoi capelli.
- Durò un secolo, il lampo di un attimo
che acceca nello sfolgorio della stella cadente. Ma
era successo. E Mara sorrise.
- Sorrideva mentre si dava da fare intorno a me:
mi scorciò i capelli e nel farlo la cicatrice
rossastra sulla tempia si rivelò in tutta la
sua bruttura, ma lei l'accarezzò e non chiese
come me la fossi fatta.
- Mi tagliò la barbaccia e peli grigi
caddero al suolo, ma non se ne curò, voleva
vedere il mio viso, disse, poi rovistò sotto il
letto, ne trasse una valigia di cartone spesso ,
l'aprì e mi mostrò degli indumenti .
- " Erano di uno, ..uno di quelli che se ne sono
andati." Me li porse.
- Io andai al secchiaio e mi lavai come potei,
meglio che potei e lei mi asciugò le spalle e
le braccia e mi aiutò a indossare gli abiti di
quell'uno.
- " Stai bene. Proprio bene. " disse, lisciando
con la mano una piega nella camicia.
- Io sentivo che ero cambiato, un pendolo batteva
dentro di me, ritmicamente segnava il tempo: e oggi
non era più ieri.
- Mi lasciavo toccare da lei, lasciavo che mi si
muovesse intorno godendo di ogni suo gesto. La sua
presenza aveva chiuso la porta alle voci.
- Fu così che la presi fra le braccia e la
tenni un poco discosta da me, giusto per poterla veder
meglio, poi me la tirai vicino, stretta sul petto, di
modo che, mentre la baciavo, potei sentire il suo ed
il mio cuore battere insieme.
- Ci baciammo con delicatezza e ci accarezzammo
con dolcezza: l'impeto della passione ci
spaventava.
- Ci amammo con tenerezza, com'era giusto per due
come noi, ombre nella luce strette in un abbraccio
lunghissimo.
- Ci innamorammo l'uno dell'altra, com'era
giusto.
- Unimmo i nostri corpi, e le nostre menti si
spalancarono, si cercarono si fusero, anima e corpo
insieme sospesi fra mura sbilenche ed identità
sconosciute.
-
- Ecco l'amore è un'altra storia. Proprio
così. Se poi t'arriva fra capo e collo tutto
d'un colpo, ci si può anche restar schiantati.
Da crederci, altro se c'è da crederci.
Perchè l'amore è una forza che unisce e
stordisce è un fulmine e un tuono che sbianca
il cielo e lo ferisce, rintrona la mente e sospende il
cuore appeso a un filo lucente come una falce di luna
nel mare delle stelle.
- L'amore. Gran cosa. In verità gran cosa.
- Sentimento e follia, un tutto che prende vita e
si mette in moto dove va non sa, si nutre d'amore e si
espande in soffi nuvolosi .
- Si soffre d'amore e si muore d'amore. Ci si fa
piccoli per amore e si diviene bestie per amore.
- Suonava una campana lontano mentre l'amavo e
lei mi era sotto calda e luminosa. Rintocchi nelle
orecchie, scintille nell'occhio chiuso, il tempo, il
tempo intreccia i secondi ai minuti alle ore, giorni
ed anni.
- I rintocchi scandiscono il tempo nell'amore che
dorme. Per tutti. Nel rintocco della campana lontana
ci si può smarrire tutta la vita, annegare il
passato, vedere il presente, perdere se stessi,
sospesi fra ieri e oggi a guardare incerti un domani
che forse verrà al seguito di altri rintocchi,
cristalli fragili che suonano allo strisciar del dito.
Amore come cristallo. Proprio così.
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- PARTE II
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