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               Parte
               IHostaria Erano in tre i
               vecchi che, seduti al tavolino dell'Hostaria da Campi,
               nel cuore della valle dell'Idice, bevevano un
               bicchiere come erano abituati a fare ogni giorno dopo
               l'una, e scambiavano due parole, poiché si
               conoscevano da una vita, erano stati bambini insieme,
               avevano combattuto la guerra alla loro maniera, dalla
               stessa parte e condividevano gli stessi ricordi,
               montagne e alberi e fame e miseria e poi lavorar la
               terra fino a spezzarsi la schiena per mettere in
               tavola di che sfamare i figli. Adesso erano arrivati
               al porto delle nebbie, dove i colori si sfumano e non
               importa più tanto quanto é accaduto
               ieri, ma quello che é accaduto vent'anni prima,
               la memoria dei vecchi fa di questi scherzi, si sa.
               Uno aveva perso una gamba nella trebbiatrice e
               beveva più di quanto avrebbe dovuto, parlava
               molto, a voce alta che sempre più alta si
               faceva più beveva, e il viso tondo si arrossava
               e bastava un niente per farlo irritare. Gli altri due
               lo sapevano quanto poco ci volesse perché li
               mandasse, loro o chiunque altro, al diavolo, ma
               all'una del giorno seguente sarebbe stato lì,
               di nuovo. Un altro era alto, secco e parlava poco, ma
               ascoltava molto, beveva il suo bicchiere con calma,
               come per farlo durare a lungo, ché tanto un
               altro non se lo poteva permettere, l'ultimo infine era
               un ometto basso, ingobbito, con occhiali dalla
               montatura di metallo, gli occhi azzurri chiari e
               luminosi trasparivano dalle lenti spesse, dicevano che
               s'era rovinato la vista per via di un colpo in testa,
               preso quando era giovane, tanto forte da ammazzarlo.
               Bevevano all'aperto quel giorno che era ormai
               primavera e la collina alle loro spalle ansimava per
               la voglia che aveva di lasciar esplodere i colori
               delle gemme pulsanti di vita e diventar verde d'erba
               nuova e bianca dei fiori di mandorlo e rosa dei fiori
               di pesco.I tre vecchi tacevano e ascoltavano tranquilli
               tutto quel trambusto e bevevano, un po'assonnati, un
               po'tristi, i rimpianti son duri a morire, e loro di
               rimpianti ne avevano messi insieme un bel po', e
               adesso eccoci qui a crepare lenti lenti, era la solita
               storia. Un cane passò davanti al cancelletto che
               segnava l'ingresso al cortile dell'osteria, quello con
               gli occhiali lo guardò, scosse il capo e poi
               distolse gli occhi, puntandoli verso un punto
               imprecisato, forse il ramo alto del pioppo,
               chissà. " Avevo un cane, da ragazzo, - disse e si
               capiva che parlava a se stesso, alla sua memoria
               d'uomo, come se non gli importasse d'essere ascoltato
               - "Avevo un cane e si chiamava Max, era un
               pastore tedesco, un gran bel cane davvero, é
               stato il cane della mia giovinezza, é morto che
               avevo diciassette anni ed ero un uomo, ci penso ancora
               a quel mio cane e a come gli volevo bene, c'é
               stato un momento che ho creduto che non avrei potuto
               volere a un cristiano il bene che avevo voluto a lui,
               poi ne sono capitate tante che..., ma adesso so che
               era vero o quasi...Comunque non ho amato nessuno alla
               stessa maniera in cui ho amato Max. O la giovinezza.
               Voglio berci su: a Max. E così sia.
               "Una coppietta giovane giovane uscì dal
               bar, tenevano due coni di gelato in mano: jeans e
               giubbotti e scarpe da ginnastica. Udirono il brindisi
               e si soffermarono, educatamente in disparte, ma
               attenti, spalla a spalla, si vedeva che erano
               innamorati. Il vecchio si tolse gli occhiali, trasse
               un fazzoletto dalla tasca della giacchetta grigia e
               pulì le lenti, con cura.
               Continuò:" Mi vien in mente Giada di quest'ultimi tempi,
               spesso, la sogno quasi tutte le notti, é con
               Max e stanno bene insieme: lei é sempre bella.
               Lo so, faceva la puttana quando l'ho incontrata
               e m'hanno riso dietro tutti quando l'ho sposata, ma
               é stata una brava moglie. Lo faceva per
               necessità, non per vizio e io lo sapevo. Che
               nome, Giada, dicevano che era proprio un nome da
               puttana. Sono stato felice con lei, tanto da farci dei
               figli.A Giada. E così sia." Alzò il
               bicchiere e lo vuotò.Uscirono dall'osteria due uomini, erano vestiti
               da operai e lavoravano al cantiere nuovo, quello delle
               villette a schiera che stavano costruendo dall'altra
               parte della strada, appena un passo prima del paese
               vero e proprio. Andavano di moda le villette a
               schiera, adesso che il traffico e il cemento
               strangolavano la città: pareva che la gente
               volesse cercare di ricreare il rapporto perduto con lo
               spazio, il verde, la natura ed allora, ecco che anche
               un fazzoletto di terra poteva servire allo scopo. I
               muratori udirono il nome di donna e si fermarono, uno
               tirò fuori una sigaretta e l'accese, forse
               s'eran fatti l'idea che i vecchi discorressero dei
               loro amori di gioventù, e che cosa mai
               c'é di più buffo, intrigante, carino
               persino che sentire un vecchio parlare di
               donne?" Come ieri. La incontrai per strada, e dove
               dovrebbe stare una puttana? Per strada, anche se a
               quel tempo c'erano ancora le case chiuse, ma lei era
               indipendente, già e senza difesa anche. Diceva
               che non ci aveva mai voluto stare nelle case.
               Diceva un sacco di cretinate, ma era giovane.
               Ero un bastardo anch'io in ultima analisi e
               sentivo le grida dei morti alzarsi la notte e urlarmi
               contro: io ero stato uno di quelli che l'aveva
               permesso. Ma fra le braccia di Giada le voci tacevano,
               così la sposai e venne la ricostruzione, gran
               parola, e noi ricostruimmo e lavorammo e facemmo i
               figli e avemmo miseria e raccolti scarsi e poi Giada
               morì e quando morì, quasi più
               nessuno si ricordava del mestiere che aveva fatto. I
               figli si dispersero come foglie d'autunno, uno qui,
               uno là, cercando la loro strada, come é
               giusto, la ragazza anche lei se n'é andata
               ormai fanno sei anni e ogni tanto mi arriva una
               cartolina da uno di loro: sembra che le cose vadano
               bene. Ho nostalgia dei figli. E di Mara, spero solo
               stia bene...A Mara. E così sia." Ma il brindisi non riuscì, il bicchiere
               era vuoto. Il vecchio lo fissò, scosse il capo
               con tristezza, come se qualchecosa di importante gli
               fosse stato negato. Posò il bicchiere sul piano
               del tavolo, chiuse gli occhi e continuò a
               parlare con voce quieta e sussurrante nel tepore della
               primavera incalzante, e le parole fluirono come vele
               aperte sul mare che lente s'avvicinano alla riva, dopo
               una mattina trascorsa a buttar reti nel profondo. E a
               far da ascoltatori c'erano anche i passeri che
               scorrazzavano su per i rami dei pioppi e becchettavano
               le briciole di pane cadute a terra dai panini dei due
               muratori.  I ricordi scorrono fuor dalla mente e si
               dispongono l'uno accanto all'altro, ricreano il
               passato d'emozione in emozione, di anno in anno, fili
               tracciati nell'aria che si è respirata tutta la
               vita, spiegano, a volte giustificano e consolano e si
               accartocciano dentro ripiegati su se stessi, oppure si
               dispiegano come fazzoletti stesi ad asciugar nel vento
               e così si ricorda...ci si ritrova nelle memorie
               lontane e vicine a percorrer le strade dell'esser
               stati così o così, buoni cattivi
               indifferenti partecipi egoisti sensibili, già,
               gran scherzo sono i ricordi che s'annidano nella
               mente, scivolano fuori chiamati da un niente,
               dall'ombra che vela di garza la luce del sole.
               Gran scherzo, già. Proprio
               così.   Capitolo
               1Ombra
 Le potevo vedere,
               nella luce del lampione che formava una chiazza di
               luce sul marciapiede di cemento proprio lì dove
               le due donne stavano in piedi, e le potevo sentire
               anche, nascosto dentro l'androne della vecchia casa
               che una volta doveva essere stata una casa signorile
               ed ora, divisa in appartamenti , sembrava divorata
               dalle locuste: vedevo e sentivo, senza esser visto,
               era una gran sensazione, quasi che in me scorresse un
               potere magico che mi faceva trasparente, invisibile
               eppur presente, ma chi ero io, d'altro canto? Nessuno,
               non ero niente e il niente che ero si rallegrava di
               questo nulla: bisogna esser qualcuno per esser
               consapevoli di non esser nessuno, infine. Le vedevo quiete all'apparenza, ma in
               realtà agitate, lo capivo dai movimenti rapidi,
               dallo sbatter delle ciglia, dalle mani mai ferme.
               Una era giovane giovane, l'altra più
               anziana, sopra i trenta e ne dimostrava di più.
               Mi incuriosiva quel loro star ferme nell'alone del
               lampione, come sanno far così bene le
               passeggiatrici, senza però far cenni
               invoglianti ai rari passanti, anzi allontanando secche
               quelli che tentavano d'abbordarle, attratti dalla
               giovane, disposti anche a pagare quella più
               vecchia, magari tutte e due in un colpo, che altro ci
               potevano fare due, a quell'ora, per strada, per quella
               strada poi, se non il mestiere più vecchio del
               mondo? Anche se non erano vestite o svestite come
               prostitute, anche se non si atteggiavano a prostitute?
               Io sapevo, perché l'avevo visto, che
               sotto i cappotti lunghi da poco prezzo, portavano
               gonne con spacchi provocanti dai quali guizzavano
               calze nere fermate dall'ombra delle giarrettiere, e
               sapevo, perché l'avevo sentito, che stavano
               aspettando qualcuno. Io, che da sempre aspettavo qualcuno o
               qualcosa, potevo stare nel mio angolo e aspettare con
               loro." Pensi che verrà?" chiese la
               giovaneL'altra annuì." Stasera?"" Sì."" Bene."Quella più anziana si frugò nella
               tasca del cappotto, ne trasse un pacchetto di
               sigarette stazzonato, prese una sigaretta, l'accese
               con un fiammifero di legno, da cucina, in uno
               sfrigolio. Aspirò la prima boccata in
               profondità, lasciando vagare i pensieri fuori
               dalla tensione che li teneva stritolati, ed io ad uno
               ad uno li afferrai a mezz'aria, li decifrai e li
               ascoltai per riporli poi nel cerchio della
               mente. Lanciò uno sguardo in tralice alla
               compagna, era per lei in ultima analisi che era
               lì, non certo per sé. Per lei, perché per lei ne valeva ancora
               la pena, di lottare, di affrontare le ombre delle
               scelte fatte. Sono così piene d'angoli bui, le scelte
               fatte, irrevocabili, sono una catena che ci si porta
               appresso per il tempo a venire, per sempre,
               condizionano, a volte strangolano e ci si adagia,
               sulle scelte fatte, é più comodo
               continuare che cercare una svolta, che poi i
               cambiamenti sono traumatici, lo sapeva, perlomeno lo
               aveva sempre pensato, ma lei era una rinunciataria,
               una della vecchia scuola, vecchia maniera, del tipo,
               non si può aver tutto dalla vita, accontentati:
               boia d'una miseria ladra. Si sentiva vecchia e stanca
               comunque, e le vecchie querce non vanno mai
               trapiantate, se no muoiono. Che poi di morire non
               gliene importava più di tanto...o di vivere.
               Ma per Giada, così fresca e giovane, ne
               valeva la pena di provare a cambiare, di rischiare.
               Sapeva che aveva paura, una paura frenetica: si
               mordeva le labbra e gli occhi erano lucidi, le pupille
               dilatate, era terrorizzata, povera crista e ne aveva
               motivo.Mosse i piedi, strusciandoli sull'asfalto, un
               freddo cane, anche. Gli inverni le parevano sempre
               più lunghi e insopportabili. Paura. Freddo. Il
               freddo della paura. Il gelo delle cose non fatte,
               lasciate a metà, abbandonate per la strada. Su
               per il corpo, dentro le ossa. " Fa sempre più freddo, Mara." si
               lamentò Giada.Mara annuì.Giada, come si poteva dare un nome così
               ad una creatura, non lo sapevo. Una creatura si chiama
               Caterina, Emma, Lucia, Anna, ma che voglia d'esotismo
               dovevano avere i suoi per chiamarla Giada! O era il
               nome di battaglia? No, era il suo nome, lo sapevo.
               Eppure era un bel nome: faceva pensare a una
               cosa preziosa, lontana e lucente, qualcosa di raro.
               Vedevo scorrere mari ed oceani sotto la luce diffusa a
               cono del lampione, vedevo onde frastagliate
               infrangersi schiumanti contro scogli di un paese
               lontano e odori, sentivo odori di spezie e di foglie
               di palma, anche se le foglie di palma non hanno odore,
               credo, ma io non sono nessuno e perciò posso
               dire quello che voglio, ché tanto non conta
               niente.Arrivava un'auto, sportiva e costosa, del tutto
               fuori posto in quel luogo e con la miseria che c'era,
               poi! Sentivo che in un tempo del mio incerto ieri mi
               sarebbe piaciuto avere un'auto così, forse
               chissà, l'avevo avuta e poi l'avevo persa, si
               perdono tante cose lungo la strada, si sa. L'auto
               rallentò, all'altezza del lampione, poi
               accelerò e sparì in fondo alla strada.
               Adesso Giada camminava in su e in giù,
               lo sguardo fisso a terra, come se il selciato fosse
               tutto il suo mondo. Mara aveva freddo, la vedevo
               stringersi nell'ampio cappotto senza forma e sentivo i
               suoi brividi: il gelo della notte e l'umido annidato
               nell'aria, le penetravano le ossa, aveva il viso
               bianco bianco e le occhiaie scure risaltavano sotto
               gli occhi che dovevano essere stati i due più
               begli occhi del mondo. E io di occhi me ne intendevo,
               non di donne, forse, ma di occhi, sì:
               c'é tutto un mondo negli occhi delle persone.
               Un mondo nascosto, un mondo che le palpebre velano
               frangiandolo dello scuro delle ciglia. " Fermati" Mara disse rivolta all'altra. Giada
               si fermò." Sono stanca"" E hai paura"" Si vede tanto?" Mara annuì. Si
               avvicinò alla compagna. Stettero spalla a
               spalla, sfiorandosi appena.Sentivo la sua paura: aveva un odore
               inconfondibile la paura, lo conoscevo bene, lo sapevo
               riconoscere. E'un odore inconfondibile, sa di adrenalina, di
               cibo andato a male, di fallimento, di gabbia. Era il
               mio profumo ormai da tempo immemorabile. Aspettavo con
               loro, almeno non erano sole, anche se non lo sapevano.
               Alla fine arrivò, alto, elegante, sui
               trenta, una sagoma scura delineata nel buio, fuori
               dall'alone della luce, l'ombra lunga distesa sul
               marciapiede: un vincente, di certo. Li chiamavano
               così un tempo, credo, quando ancora mi andava
               di sentirne parlare. Questo vincente si fermò e
               le due donne gli si rivolsero. Sentivo le
               voci." Bene, ragazze, che c'é di
               nuovo?"" Dobbiamo parlarti"" Tutte e due? "" Ascolta, Raul..." Giada intervenne " Io ti
               devo parlare di...di una cosa importante"" Allora parla e poi lavora"" Ecco, é proprio questo..."" No, non lo dire! Vuoi mollare! Me lo dovevo
               aspettare da una come te, dovevi farti monaca, ci sei
               dentro, io ti mantengo, tu mi devi molto, dovresti
               dirmi grazie"" Per che cosa, dico per che cosa dovrebbe
               ringraziarti? Per che cosa dovrei ringraziarti io? -
               Mara parlava con voce piatta- Per avermi detto che ero
               bella, che mi amavi, per avermi messo sulla strada?
               "" Dovresti ringraziarmi per continuare a
               tenerti sulla strada e a proteggere i tuoi interessi,
               conciata come sei. Ma ti guardi mai allo specchio? sei
               ridotta da schifo, ma io non ti mollo, no. "" Sei buono, davvero, ti sono grata. Ma Giada
               vuole uscirne, lasciala andare."" Tu vieni a dire a me quello che devo fare con
               una delle mie puttane! Tu! Fai pena. Dunque, piccola
               Giada, vuoi lasciare papà, perché
               mai?"" Io..."" No, aspetta, lasciami indovinare: sei
               innamorata, dico bene? e vuoi redimerti, dico bene? E
               divenire la brava mogliettina di un qualunque
               coglionazzo cornuto che un giorno saprà chi sei
               e ti odierà per il resto della vita. Ma lo sai
               quanti soldi puoi fare con me, lo sai quanti progetti
               ho per te, bella come sei e brava anche, mi dicono,
               tutti cercano Giada, oh, se é richiesta la mia
               piccola Giada!"" Sono incinta, Raul."" Ah, é questo? E allora? Ci pensa
               papà, come sempre."" A farla abortire, vero"" E che altro può fare? Certo: abortire.
               "" No, lei no"" Già, lo vedo proprio il bel futuro del
               figlio di questa puttana: nato senza padre o con
               troppi padri, in miseria, perché papà
               non da più quattrini a mammina, e come cazzo lo
               tira su un figlio, 'sta cretina che non é stata
               capace neanche di non farsi ingravidare, come la vacca
               che é, e poi il problema non si pone: tu
               abortisci e continui, chiaro? Ti é chiaro il
               concetto? Adesso basta, mi avete fatto perdere
               abbastanza tempo, tutte e due, con Raul non si lascia.
               Mai. Finché Raul non lo dice. " Noi lasciamo, tutte e due. Che Raul lo dica o
               no. "" Siete finite, allora tutte e due. Finite.
               Kaputt. E'come se non foste mai esistite, di voi non
               lascerò segno sulla strada, scomparirete e non
               sapete ancora quanto sarà spiacevole. Voglio
               essere buono: pensateci ancora un'ora, poi tornate da
               papà e sarà come se non fosse successo
               niente. Fate che fra un'ora papà vi veda.
               Altrimenti vi starò dietro e
               farete..."Sentii lo schiocco della sberla sul viso di
               Mara, poi la sagoma scura l'afferrò per i
               capelli e le sbatté la testa contro il palo del
               fanale.Non udii un gemito uscire dalle labbra della
               donna, e sì che doveva averle fatto male, il
               vincente. Adesso vagamente mi veniva in mente
               perché non ci avevo mai tenuto a essere un
               vincente, qualunque cosa la parola significhi, nel
               bene e nel male. Ci si può far male. E si fa
               male.La piccola Giada piangeva piano piano a lacrime
               grosse, senza singhiozzi. Io potevo solo piangere con
               lei: non certo uscir fuori dal nido d'ombra che mi
               custodiva e difenderla con dita scarnite dal passato,
               con voce fievole come il pigolio d'un merlo appena
               nato. Ci sarebbe voluto il rombo del tuono che fa
               tremare i vetri delle finestre, i fulmini ci sarebbero
               voluti, saette accecanti nel cielo scuro, gonfio di
               pioggia. Ma guardavo e ascoltavo le lacrime di Giada:
               era pur qualchecosa, questo condividere del cuore,
               senza sussulti, senza furori, quieta, apatica presa di
               coscienza che ancora accadeva ciò che da sempre
               era accaduto, quello che é orrore nella
               tenebra." Non piangere, lo sai, bambolina, ti si
               gonfiano gli occhi, e ai clienti non piace. Senti
               facciamo così: vieni via con me, adesso,
               subito, ti devo dire dei progetti che ho per te, cose
               in grande, dai su , vieni! "L'afferrò per un braccio e la
               tirò a sé, fuori dall'alone di luce,
               verso il buio da cui era spuntato." Mara, Mara!" gridò la piccola Giada,
               per aiuto forse, per disperazione, di sicuro." Lasciala perdere: una puttana ingrata si deve
               lasciar perdere e ringrazia che sono di buon umore e
               non la tocco...Ma tu, vecchia cretina, non farti
               vedere mai più sulla strada, non farti vedere
               mai più da me, non cercare Giada, mai
               più, hai capito?" Le ombre lunghe dei due erano gà
               scomparse e Mara era sola, appoggiata al fanale, una
               gota in fiamme, gli occhi senza luce. Eravamo rimasti
               così da soli, lei ed io e il fluido che ci
               legava come un cordone ombelicale intorno al collo di
               un neonato. Aspettavo che facesse qualcosa, che muovesse un
               passo, che scrollasse la testa: niente. Lo sapevo
               bene: l'inutilità dei gesti ti paralizza e ti
               schianta insieme in mille minuscoli frammenti di ossa
               e di sangue, lasciandoti svuotato, un attrezzo inutile
               sul bordo della via. Hai inciampato troppe volte, lo
               so, é capitato anche a me. Poi si mosse
               allontanandosi dal palo del fanale, si passò
               dolcemente una mano dietro la nuca, sotto la massa dei
               capelli castani, là dove Raul l'aveva mandata a
               sbattere, alzò gli occhi verso l'alto dove il
               vuoto si riempiva della vita delle nuvole dalle forme
               bizzarre e guizzanti, ma le stelle tacevano e non
               davano risposte quella notte, come a volte capita.
               Si allontanò, prima a passi brevi e un
               poco incerti, poi più veloci e sicuri,
               tenendosi rasente ai muri degli edifici e alcuni
               attimi dopo, ecco, era sparita. Allora mi mossi, non
               so perché, mi venne da raccattare il mio
               fagotto, una specie di sacca con dentro le cose
               trovate, gli scarti inutili, i brandelli perduti e
               abbandonati delle vite altrui, e la seguii, mosso da
               una curiosità che era nuova in me, abbandonata
               con il fardello delle inutilità lasciate una
               vita prima o in un'altra vita: mi venne di andarle
               dietro e penso che non fosse altro che umano
               irriducibile senso di affinità. La mia ombra si confuse con l'ombra della
               strada e solo un'ombra le fu dietro, lunga e
               silenziosa e ne seguì i passi, ne sentì
               il rumore sul selciato, infine la vide davanti a
               sé, la schiena rigida, i capelli ondeggianti
               intorno al volto, e allora rallentai e a distanza,
               piano piano, come si addice ad un'ombra, mi fusi
               all'ombra che la figura di lei si lasciava alle spalle
               e così confuso in lei, parte di lei, feci la
               sua stessa strada. Fu un lungo cammino per le vie della periferia,
               fra case alte e sciupate, facciate scrostate, cancelli
               rugginosi, infissi screpolati, il tutto in un mare di
               sterpaglia, il marciapiede era finito da un pezzo e si
               era trasformato in lungo tratto di terra battuta che
               si snodava fra pozzanghere e buche verso la fine del
               mondo. Del mondo che gli altri conoscono. Ci fermammo
               davanti a una casa brutta e disperata, aprimmo un
               cancelletto e scendemmo quattro gradini fino a una
               porta verniciata di blu, una pervinca nel deserto,
               prendemmo la chiave dalla borsa e aprimmo la porta e
               lei entrò. Io rimasi fuori, nel vento della notte e vidi
               accendersi una luce e vidi un finestrino raso terra
               illuminarsi e poiché ero curioso, mi chinai
               fino a toccare la terra umida con le ginocchia e
               guardai dentro una stanza che pareva nata da una
               cantina, e che era la casa dove lei viveva, dove
               teneva le sue cose, il suo passato, il suo oggi e
               forse, perché no? , il suo domani. Mara era in piedi , si era tolta il cappotto, e
               rivelava l'abbigliamento adatto al suo lavoro, ma
               anche così nulla nell'aspetto aveva da spartire
               con le altre. Pensai, guarda che spreco di vita,
               guarda il volto dell'infelicità, dello scempio
               del tempo, dei tentativi annegati nel mare senza fondo
               senza pesci senza vita, eppure anche per lei un giorno
               lontano una conchiglia avva ripetuto il canto del mare
               e l'aveva incantata portandola lontano nel sogno di
               giorni felici. Rabbrividii e fu per quella parola che
               mi era sfrecciata nellla mente, quel felici che faceva
               suonare la campana a morto per quello che forse ero
               stato e non sarei stato mai più, é dolce
               fallire, é dolce lasciarsi inghiottire dal
               dolce fallire mentre la conchiglia si schiude, la
               perla riluce e tu senti la risacca all'orecchio
               cantare solo per te. Da lontano mi giunse il pensiero che era
               ricordo, la felicità non é di questa
               terra. Poco ma sicuro. Io lo sapevo.Eppure ERO STATO FELICE. Quando non ricordavo,
               dove, perchè non sapevo. Sentivo il frullo
               dell'esser stato felice agitarsi dentro di me come un
               uccello che vuol lasciare la gabbia per volare
               incontro al cielo e sbatte solo contro le sbarre
               sottili del mondo in cui vive.La FELICITA'NON E'di questa terra. A qual mondo appartiene? A quale stella o
               pianeta perso nell'immenso sudario che circonda
               l'esser umani? Perchè non dovrebbero le
               creature godere della felicità? Rabbrividire di
               gioia? Morire di smisurata, incontenibile,
               incontrollabile felicità? Quando proprio questo
               poteva essere l'obiettivo finale del vivere.
               Già. La felicità serpeggia da dentro,
               traspare dallo sguardo, si perde nelle membra, esce
               dalla bocca nel respiro, collega le ore al suono della
               campana che accompagna il feretro al camposanto, lenta
               lenta s'accoppia al tempo e intreccia ghirlande
               profumate da portare sul capo come corone. Esser felici dentro, con l'anima spalancata ad
               accoglier il mondo. Già. Proprio
               così.Guardai nella casa cantina: Mara si era seduta
               e si stringeva il capo fra le mani, piangeva, le
               spalle scosse da grandi dilaganti singhiozzi.
               Le creature in trappola piangono lacrime di
               sale sotto la luna e solo attendono che la fine arrivi
               presto, prima di soffrire troppo. Ma chi può
               dire qual'é il limite della sofferenza? Quando
               si ha troppo sofferto? Quanto e per quanto tempo si
               deve espiare la colpa d'esser nati alla vita e d'aver
               cercato di viverla? Dove sta l'errore in questa
               macchina infernale? Dove finisce la luce e incomincia la tenebra?
               Eppure ci sono milioni di persone che vivono
               tranquillamente la vita di agnelli destinati al
               macello e non pensano e credono solo che le cose
               vadano così perché così é
               stato e così sarà e perciò tutto
               va bene: é regolare. Sono i giusti. Sono i
               saggi. Sono l'essenza del mondo. Li vedevo ogni giorno darsi da fare sotto il
               sole e sotto la pioggia, arrancare per le strade,
               sfiatarsi, spazzare, aprire e chiudere serrande,
               lanciare bombe, sparare con fucili e pistole,
               lanciarsi da aerei impazziti, cantare nel coro la
               domenica, vestire a lutto, ballare, sorridere, far
               l'amore, amare e distruggere l'amore, sfigurare i
               giorni e le notte chini su lavori che nobilitano e
               permettono di sopravvivere o di dare ricchezza e
               ancora ancora, flagellati dai venti cadere sulle
               pietre rialzarsi pesti e sanguinati: essi sono i
               forti, coloro che cadono e poi si rialzano, non hanno
               paura di cader ancora, sono abili e impararano presto
               a far lo sgambetto agli altri e a farli precipitare
               nell'abisso. La legge del sopravvivere, in pace e in
               guerra, la legge che regola e disintegra, le leggi che
               ci difendono e ci aggirano in reti di nylon sempre
               più strette in maglie d'acciaio che
               strangolano. Ma io ne ero uscito: io non ero un forte, non
               ero un saggio, né un giusto. Io ne ero uscito
               tanto tempo prima. Mi sentivo contorcere al suono
               delle voci che non volevo sentire più, mi
               tappai le orecchie, chiusi gli occhi, niente sentire,
               niente vedere, niente parole, niente sogni, niente
               illusioni. Basta. Sentivo la bestia urlare dentro di me, mi
               battei sul petto, dovevo farla tacere, dovevo
               assolutamente farla sparire. Ecco, piano, respiro
               lungo, mani tese, palme aperte, piano, ancora, un
               momento, la riccacciai via, nei meandri tortuosi del
               fiume da cui una volta ancora era riemersa, fra i
               pesci vorticanti in gorghi di madreperla. Mara aveva appoggiato il capo sul piano del
               tavolo di legno scuro e macchiato, sulle braccia
               incrociate. Era bella, Mara, e sconfitta. Mi arricciolai in un angolo, il più
               scuro e il più vicino a lei e mi strinsi
               addosso l'essenza del presente che sapeva del colore
               smorto del suo bel viso e stetti lì fermo e
               quieto, a far la guardia, fino a che l'alba grigia
               d'autunno inoltrato non giunse a dar risalto alle
               brutture che la notte aveva nascosto. Allora mi alzai,
               quattro ossa scricchiolanti, una mente indolenzita e
               sbirciai dal finestrino. Era sveglia e in piedi
               accanto a un fornelletto a spirito: preparava il
               caffé. Aveva gesti tranquilli e sicuri come di
               chi ripete un cerimoniale imparato a memoria: mi parve
               una sacerdotessa.RITORNA ALL'INDICE
                 Capitolo
               2 (...) Mi allontanai
               dalla casa di Mara, raggiunsi l'angolo da dove partiva
               la strada sterrata che avevo percorso con lei la notte
               prima. Si annunciava una bella giornata, con il sole e
               quel po'di caldo che ti fa credere d'essere di
               primavera e ti dimentichi che l'inverno si sta
               avvicinando a lunghi passi. Ne erano caduti tanti d'inverno, con il corpo
               straziato dal gelo, ma io ce l'avevo fatta, ero
               tornato. Se il mio era stato un ritorno. Il sole scaldava già e di già la
               gente usciva per strada, era di fretta, si vedeva che
               avevano dove andare, un posto da raggiungere e un
               orario da rispettare. Le donne mettevano le lenzuola
               fuori dalle finestre a prender aria, come tanti
               fazzoltti bianchi di resa, alcune erano per strada e
               andavano a un mercatino di frutta e verdura girato
               l'angolo, allestito su uno spiazzo di terra battuta,
               giovani con gonne scozzesi grige marroni e giacchette
               di lana, vecchie con abiti scuri e sciupati, tutte con
               pochi soldi ben stretti fra le dita delle mani e voci
               acute nel criticare i prezzi. Mi passavano accanto, mi
               schivavano, si giravano a riguardarmi e poi tiravano
               di lungo. " Un altro. " dovevano pensare. Proprio così, un altro e poi un altro e
               poi un altro ancora. Quanti saranno gli altri? Decine?
               Centinaia? Migliaia? Ma qui ce n'é uno.
               " Venghino, signori e signore, venghino a
               vedere il miracolo, il mostro partorito dal ventre
               della vacca! Qui ce n'é uno! " Ma se ne andavano, affrettavano il passo e di
               ciò non potevo fare a meno di
               ringraziarle.Infine anche Mara uscì. La vidi arrivare
               e le vidi il viso alla luce del giorno e il giorno
               rivelò quello che la notte e la dolce soffusa
               luce del lampione avevano nascosto e ammorbidito.
               Aveva tratti spezzati e guance incavate, borse
               bluastre sotto gli occhi più belli del mondo,
               verdi come onde cavalcate da delfini, e rughe sottili
               incise agli angoli della bocca morbida e piena. Era
               bellissima. Indossava una gonna nera, una camicia
               bianca e sopra un golf grigio con tanti bottoni: ci
               sarebbero volute ore pr sbottonare quel golf, io avrei
               voluto impiegarci anni. Si incamminò lungo la strada
               percorrendola in senso inverso a quello della sera
               innanzi, fino ad una fermata del tram. Mi fermai,
               desolato: io non salivo sui tram. L'avrei persa. Il
               tram arrivò, lei salì. Rimasi a terra,
               seguendola con lo sguardo mentre si sedeva, poi lei
               guardò fuori dal finestrino distrattamente e
               così accadde che il suo sguardo si posasse su
               di me, un attimo e se ne era già andata.
               Mi aveva visto, aveva visto la sua ombra, aveva
               sentito battere il mio cuore vicino al suo.Mi guardai attorno: brutti casermoni
               spalancavano le cento bocche inghiottendo persone o
               liberandole e bambini sciamavano intorno nel tepore
               ingannevole del sole, fra sterpaglie e sassi e fango,
               giocavano i giochi dei bambini. Che strana sensazione
               dava la parola bambini, come un 'eco mi saliva
               all'orecchio e poi si smorzava in mille righe su un
               foglio di carta accartocciata che il vento porta
               lontano. Mi capitava di continuo: sensazioni e
               più niente, ma era giusto: io non sapevo chi
               ero. Forse ero un'eco, anch'io, come quella del mare
               dal profondo del cuore della conchiglia. Non volevo
               andarmene, non potevo andarmene, mi sedetti su una
               cassetta rovesciata nel campo dove l'erba non riusciva
               a crescere, mi tolsi il fagotto dalla spalla, lo
               posai, l'aprii e ne tolsi un pezzo di pane raffermo.
               Lo mangiai piano piano, anche le briciole. Richiusi il
               fagotto e me lo misi fra i piedi. Il sole mi scaldava,
               il sole fa bene alle ossa, ma le mie erano congelate
               da troppo tempo. Una vecchia passò, si
               fermò, si girò e tornò sui suoi
               passi, pensai che si fosse dimenticata qualcosa.
               Invece no, si diresse verso di me, dunque non ero
               trasparente, di giorno almeno. Quando mi fu vicino mi
               fissò e mi chiese:" Da dove vieni? " Io scossi il capo. " E dove vai? " Scossi il capo di nuovo. Che
               altro potevo fare? " Avevo un figlio, era giovane, é morto
               sui monti." La fissai allora e aveva il volto indurito e lo
               sguardo feroce. " Non sono stato io." dissi. " Lo so" rispose. Dalla sporta prese un pezzo
               di pane fresco e me lo allungò.
               Esitai." Prendilo, dai", disse," é buono. Sei
               un disgraziato anche tu. " Presi il pane e la vecchia si allontanò.
               Era già capitato, che qualcuno si accorgesse di
               me, che mi allungasse qualcosa, ma non avevo mai preso
               niente. Tenni il pezzo di pane in mano, era caldo, di
               forno, si sentiva fra le dita sporche di terra e di
               sudiciume giallo dorato, come un sole che sorride, era
               prezioso, era per me. Lo riposi con cura nel fagotto.
               Un merlo lucente, piume nero, becco arancio, si
               posò a pochi passi. Amavo i merli, più
               delle rondini, più dei passeri e dei colombi.
               Lo guardai finché non spiccò il volo,
               con un frullo fu in alto in un attimo, con un batter
               d'ali, in alto e libero. Il merlo, non io. Sapevo che
               mi pesavano addosso catene di ferro arruginite e
               cigolanti come quello di uno spettro, sapevo che le
               portavo male, sapevo che gli uomini portano tutti
               catene e che le portano male, ma la differenza fra me
               e loro era che io avevo rinunciato a tentar di
               liberarmi dalle mie, mi ci ero affezionato, me le
               stringevo addosso e speravo che una notte o l'altra
               avrebbero finito per soffocarmi. Avrei potuto
               dormire.Poi vennero i bambini, due maschietti e una
               bimba. I maschietti portavano pantaloncini corti, di
               lana e maglie con buchi vistosi sui gomiti e polsi
               sfilacciati, la bimba aveva una gonnellina scozzese e
               un maglioncino rosso, mi ricordò un papavero
               d'estate in un prato verde smeraldo. Mi si
               avvicinarono ridacchiando, un po'impacciati, un
               po'timorosi, chiaramente curiosi. Si fermarono a pochi
               passi da me e mi osservarono. Dovevo sembrare loro
               strano, fuori dal comune, certo diverso dalle persone
               che frequentavano. Mi specchiai nei loro occhi e non
               mi ritrovai, non ci si ritrova mai negli occhi degli
               altri, se non in quelli delle persone che ci amano e
               che noi amiamo. E poi i loro erano gli occhi
               dell'innocenza, della più tremenda innocenza e
               io non avevo nulla da spartire con l'innocenza. Chinai
               la testa e mi fissai i piedi dentro le scarpacce
               infangate e sgangherate che non mi toglievo da...
               quanto tempo? Non importava. Mi ero creato un mio
               ordine di priorità, dal più importante
               al meno importante. Solo che mi era semplice
               localizzare le cose che meno importavano, sempre
               più giù nella scala dei valori, mentre
               mi era difficile trovare qualcosa da sistemare nei
               gradini alti della scala che risultava così
               sconnessa, in bilico fra realtà e follia.
               La bimba allungò una mano piccola e
               bianca come un petalo di magnolia che subito divenne
               un fiocco di neve e mi toccò. Come fa male il
               tocco d'una bimba! Mi sconvolse e di colpo alzai il
               viso e la bambina fece un passo indietro. Aveva grandi
               occhi marroni con pagliuzze d'oro e tentava di
               sorridere. " Ciao" biascicai. " Ciao" rispose " Chi sei?" Mi venne da
               piangere. " Non lo so." risposi. " Tutti sano chi sono" fece il maschietto
               più grande " Tutti hanno un nome " aggiunse.
               " Io no" ribattei. Risero. Bene, adesso sapevano che di me potevano
               ridere, che ero uno buffo, uno che non sapeva chi era.
               " Aspetti qualcuno?" " Sì" Adesso erano attenti: finalmente qualcosa di
               decente. " Chi?" " Mara" risposi. Scossero la testa, non
               sapevano di chi parlavo. " E'tua moglie?" chiese il secondo maschietto.
               " No" " Tua figlia? " Feci di no con il capo.
               " Tua madre?" " No" " Non é una tua parente?" " No" " Perché l'aspetti?" " Non lo so"Erano sconcertati. E scocciati. Il gioco era
               finito, non si poteva chiaccherare con me. Si
               allontanarono. Era ormai mezzogiorno. E Mara
               tornò a casa.Teneva un pacchetto in mano, carta marrone con
               un spago intorno, camminava svelta, senza cedimenti di
               stanchezza. Raggiunse il casermone, scese nella sua
               cantina e sparì. Ma io continuai a vederla: mi
               danzava negli occhi, respirava nell'animo, sospirava
               dentro di me. Le ore passarono e si fece scuro. Le
               luci si accesero dietro le finestre. Le persone
               rientrarono, alcuni, si vedeva, stanchi morti, altri,
               si vedeva, disfatti da un'altra giornata di inutile
               ricerca, di speranze deluse, alcuni tranquilli, altri
               tesi, alcuni in tram, alcuni a piedi, altri in
               bicicletta. In tutto il giorno erano passate solo tre
               automobili e nessuna s'era fermata. Tutto il quartiere
               trasudava miseria. Mi alzai, presi il fagotto e mi intrufolai nel
               mio angolo, vicino a Mara. Sbirciai dal finestrino:
               Mara aveva disfatto il pacchetto e aveva arrotolato lo
               spago in un rotolino posato in un angolo, sul tavolo
               accanto alla carta marrone ben lisciata e piegata. Sul
               tavolo potevo vedere un flaconcino scuro, sottile e
               lungo, quasi una fialetta, una scatola forse di talco
               ed una forse di polvere dentrificia. Era stata in
               farmacia. Era molto pallida e le mani le tremavano. Si
               mosse, incominciò a girare intorno al tavolo,
               posò le mani sullo schienale della sedia, sugli
               oggetti che vedevo, una tazza , un coltelo, e su
               quelli che non vedevo: era come se li accarezzasse,
               era come se li salutasse. Capii che aveva deciso di
               andarsene. Una volta, mi pareva di ricordare avevo
               visto fare qualcosa di simile ad un'altra persona,
               chissà chi, chissà dove, chissà
               quando, e poi s'era messo la canna della pistola in
               bocca e di colpo non c'era stato più. Mara
               voleva morire. Io volevo che vivesse, eppure sapevo
               quanto la vita poteva essere dura, invivibile, feroce,
               scarnificatrice, vita assassina. Ma dentro di me
               volevo che continuasse a subire il tormento, a reggere
               anche l'insostenibile, volevo la vita per lei, la vita
               che poi, in ultimo é l'unico dono che ci viene
               elargito dall'inizio dei tempi. Nessuno regala
               più niente, dopo. Dopo c'é solo
               conquista e degrado. Bussai alla porta azzurra. Silenzio. I passi
               cessarono. Tornai a bussare, forte. " Chi é?" " Io, sono io, Mara. Aprimi. " Aprì la porta e mi fu davanti, ci
               separavano un cinque passi. Non si spaventò,
               non arretrò, mi guardò interrrogativa.
               Io tacevo, la mente svuotata. Che dovevo dirle?
               " Sono l'ombra che ha baciato la tua, ieri
               notte, sono l'ombra del niente che ti ha seguita e ti
               é stata accanto tutta la notte e atteso tutto
               il giorno e adesso sono qui perché vorrei tanto
               che tu vivessi." Avrei potuto dirlo, certo, ma ero terrorizzato
               dal fatto che potesse non capirmi, anche lei.
               Tacevamo nell'ombra della sera, e i fantasmi
               s'incontravano e si riconoscevano, si stringevano la
               mano, si salutavano: " Anche tu qui?" " Certo, perché no?" In tempi che ormai non riuscivo a collocare,
               avevo imparato che la disperazione di uno sa
               riconoscere la disperazione dell'altro e stringere
               alleanza e trovare la forza di annullarsi l'una
               nell'altra, come l'onda che percuote la sabbia lascia
               l'impronta sulla battigia, onda su onda a formare un
               oceano di acque del color del cobalto. Si scosse, aprì la bocca per fare la
               domanda a cui non avrei saputo rispondere, invece
               disse: " Aspetta, ti do qualcosa da mangiare."
               Feci cenno di no. Mentre mi guardava interrogativa, aprii in
               fretta il fagotto e ne tirai fuori il pezzo di pane
               fresco, glielo mostrai. Glielo offrii. " No", fece, " tienilo. Non valgo tanto."
               Non aveva capito. Perchè viveva da
               troppo in un inferno dove tutto può accadere.
               " E'per te", dissi, " Io me ne vado. Non voglio
               niente."Esitò, stanca, sfinita, doveva aver
               pensato tanto quel giorno e non poteva pensare ancora.
               Si scostò dalla porta azzurra e disse:
               " Entra." Io entrai. Dentro una stufa di quelle
               a carbone, arancione con lo sportello verniciato di
               nero brillante, diffondeva un po'di tepore e dava
               l'idea di trovarsi in un nido, abbracciato da rami
               benevoli, riparato e sicuro. Sapevo che era un'illusione, eppure per un
               momento, uno solo, me ne lasciai prendere, mi lasciai
               coinvolgere dall'idea - casa-, perché anch'io
               dovevo pur aver avuto una casa una volta, tanto tempo
               prima, in una vita precedente magari, così come
               anch'io dovevo aver avuto una madre. Dov'erano finite
               mia madre e la mia casa? Le mie certezze, le mie
               radici, il fondamento stesso dell'essere stato io,
               dov'erano andati a nascondersi? Ero certo che non
               erano scomparse, ma solo fuggite, terrorizzate dal
               clamore delle voci che mi rimbombavano all'orecchio
               nei giorni e nelle notti d'ombra.Nella stanza c'era spazio oltre che per il
               tavolo e le sedie e il fornelletto che avevo visto
               dalla finestrella, anche per un letto, una branda con
               i piedi di ferro, ricoperta da un panno verde scuro e
               c'era in un angolo dietro una tenda in quel momento
               lasciata aperta, un'asta con delle grucce attaccate e
               alcuni abiti appesi, l'armadio. E c'era una
               poltroncina vicino al letto, piccola e aggraziata,
               rivestita di cotone fiorato, un po'sbiadito: fiori di
               primavera, rosa come fiori di pesco, azzurri come non
               ti scordar di me, gialli come primule su uno sfondo
               verde di prato. In primavera.  Eppure di primavera avevo visto scavar fosse e
               spuntar croci sui prati fra buche profonde e glicini
               in fiore. E noi a guardare le lacrime di sangue
               sull'erba. E noi ad ascoltare le voci che pregavano.
               Avevamo guardato, avevamo sentito, ma nessuno era
               sceso nella valle. Eppure sarebbe stato facile,
               sarebbe bastato mettere un passo dopo l'altro e
               chinare il capo, non sarebbe occorso neppure parlare.
               Io o un altro, non sarebbe importato. Uno qualunque
               infine sarebbe bastato per farli contenti. Ma non era
               andata così. E giorno dopo giorno, notte dopo
               notte, io continuavo a scendere a valle un passo dopo
               l'altro, a capo chino. Mara mi fissava mentre me ne stavo in piedi
               sulla soglia a guardarmi intorno, con aria intontita;
               si mosse e decisa chiuse la porta alle mie spalle, con
               forza. La porta sbatté sul mio cuore facendolo
               impazzire di paura. Dovevo uscire fuori, di corsa
               all'aria aperta, lì non avrei saputo come
               respirare e poi al chiuso le voci avebbero trovato
               risonanze feroci e mi avrebbero scorticato l'animo. Mi
               rigirai e posai la mano sulla maniglia." Non andare" mi disse " Non mi importa chi
               sei, non mi importa da dove vieni, non m importa se
               sei un ladro o un assassino. Resta qui".Lasciai la maniglia e quella fu la mia resa,
               l'ultima concessione che feci alla vita. Da allora la
               vita fu in debito con me.Restai e alzai lo sguardo su di lei, poi lo
               posai sulla bottiglietta sottile ancora sul tavolo,
               lei seguì il cammino del mio occhio e sorrise.
               Non ho mai compreso il significato vero e
               profondo dei sorrisi di Mara, mi accontentavo di
               scaldarmi al loro tepore. Sorrise, fece alcuni passi,
               prese la bottiglietta in mano." Vuoi fare un brindisi?" chieseMossi il capo, no, grazie." No? Tu te ne intendi di brindisi, vero? Hai
               ragione: non adesso. Non ancora. Avanti, vieni avanti
               e siediti e stai un po'vicino alla stufa, ti
               riscalderà." Prese la poltroncina per la
               spalliera e, con modi bruschi e definitivi, la
               strusciò per terra vicino alla stufetta. Me la
               indicò." E'comoda. Puoi sederti. Non aver paura di
               sporcarla. Non é importante. "Mi sedetti, volevo farle piacere, accontentare
               quella che suonava come un'offerta gentile, di
               più, come un favore. Mi sedetti rigido senza
               appoggiarmi allo schienale. Lei mi guardava con quei
               suoi occhi che erano gli occhi più belli del
               mondo, una certa fissità nello sguardo che
               sentivo posarsi su di me, un lembo di carne dopo
               l'altro, occhi senza pietà, senza fremiti
               dell'iride sembravano correre su e giù per la
               giacchetta sudicia e strappata, per i pantaloni
               infilati nelle scarpacce infangate, su e giù
               per il viso, mille formiche correvano lungo la barba
               di quanto? , non sapevo, non ricordavo, il sangue
               prudeva sotto la pelle, era insostenibile lo sguardo
               d'un essere umano che cerca d'impossessarsi di quello
               che sei." Lo vuoi un caffé? Lo sto
               facendo."Non attese risposta, si girò veso il
               fornelletto e rapida rigirò la napoletana che
               aveva emesso il suo fischio. Il profumo del
               caffé riempì la stanza che era stata una
               cantina. Lo versò in due bicchieri di vetro,
               aggiunse lo zucchero, mi porse un bicchiere
               fumante." Prendi: é buono. E'caldo."Bevemmo il caffé caldo ed io lasciai che
               mi riempisse la bocca del suo sapore, che m'impastasse
               la lingua, socchiusi gli occhi per gustarlo meglio.
               " Buono, vero?" disse lei. Annuii." Non parli molto, vero? Meglio così. Ne
               ho sentite tante di chiacchere. Troppe. Fino a
               sentirmi ronzare le orecchie. Un po'di silenzio.Ecco
               quello che ci vuole e un po'di compagnia. In silenzio.
               "La capivo. Le ombre degli alberi la notte non
               parlano, si uniscono nella solitudine dei campi, lungo
               i viali, nella pioggia, sotto le stelle e scambiano
               lunghi silenzi sussurranti. Mi prese il bicchiere vuoto dalle dita e lo
               portò al piccolo secchiaio insieme al suo: non
               li lavò, li posò solo con un
               tintinnio." Sai il mio nome. Chi te l'ha detto? No,
               lascia perdere. Non voglio saperlo, non m'importa
               niente di niente. Mi conoscono in tanti, questo lo
               sai, ...mi conoscono, oddio, se mi conoscono!"
               Fece un sorriso storto che le spezzò la
               linea delle labbra e non mi piacque. Non volevo che si
               sentisse come doveva sentirsi. Mi mossi sulla poltroncina; la stufa faceva
               caldo, si stava bene lì, ma non era per me. Io
               non volevo star bene, comodo, al caldo. Feci per
               alzarmi, poi mi fermai." Se vuoi andare, vai." disse Mara " Non voglio
               che tu stia qui solo per farmi piacere." Orgoglio,
               tremendo orgoglio, che non permette di chiedere, si ha
               paura di chiedere, per terrore di un rifiuto.
               Non me ne sarei andato, tanto per me era lo
               stesso, anche lì io ero io e mi portavo
               appresso quella maledizione.Mara sedette sull'orlo del letto e fissò
               la finestrella in alto.Un lungo silenzio cadde sulle cose nella
               stanza, interrotto solo dal cader delle gocce nel
               lavandino, il rubinetto perdeva. E nel silenzio sentivo parole correre fra di
               noi e riconoscersi e creare una lingua nuova, pensieri
               si formavano, s'incontravano, si mescolavano, si
               dissolvevano ed altri nascevano rossi come fiori di
               papavero fra le spighe d'oro prima che la falce cali.
               Fremiti di parole e di pensieri, era come se sentissi
               battere i nostri cuori insieme, con lo stesso ritmo
               scandito e perfetto, un solo cuore per riporvi i
               nostri passati, il nostro presente, qualunque fossero
               stati. Fu, lo so, un momento di pura magia. Ma eravamo
               disperati e disperatamente cercavamo qualcosa senza
               neppure renderci conto che l'avevamo a portata di
               mano." E'meglio che tu vada. Hai dove andare? No,
               certo che no. Comunque ormai devi andare. Ti do
               qualcosa da mangiare, guarda m'é rimasto del
               formaggio, me l'ha dato uno, uno che non ricordo
               più chi fosse. Prendilo e ...io ho da fare, sei
               stato gentile a star qui, ma adesso devo proprio fare
               le mie cose, mettere ordine, far pulizia. "Non mi mossi." Vattene!" Aveva alzato la voce, mi indicava
               la porta." No." Feci fatica ad articolare quell'unica
               sillaba, mi uscì un po'strascicata,
               impastata." Che cosa vuol dire, no?"" Resto. "" Che cosa ti credi? Che non abbia niente da
               fare oltre che star qui a goder della tua compagnia?"
               Era spaventata. E voleva esser cattiva, far
               male." Resto. "" Perché?"" Non voglio che ti ammazzi."Mi guardò stranita: una roccia desolata,
               devastata apriva il fianco a mostrare le ferite aperte
               dal gelo dell'inverno. " Non é affar tuo. Non sai chi sono, non
               so chi sei. Non é affar tuo."" Io so come sei."" Bello! Bello davvero!"" Ed é affar mio."" Ma per amor del cielo!"" Odio gli sprechi. Gli sprechi mi riguardano.
               Se ti uccidi é uno spreco di tempo, di giorni
               mesi anni, di te, di quello che hai dentro, di quello
               che pensi, che provi. Se ne é sprecata tanta di
               vita, non credi? " Mi stupii di poter dir tante
               parole, buttandole fuori tutte di colpo, quasi senza
               prendere fiato.Scosse il capo e i capelli morbidi e setosi si
               mossero ad ombreggiarle le gote, grandi lacrime di
               cristallo le scesero lungo le guance, s'insinuarono
               negli angoli della bocca, bagnarono il viso, senza che
               lei facesse nulla, neppure un gesto, per asciugarle,
               per nasconderle. Era come un fiume che rompe gli
               argini, un lago che tracima quel pianto lungo e
               inarrestabile, disperatamente liberatorio. Avevo ricordi di singhiozzi urlati nel vento,
               di pianti ansimanti a soffocare il respiro, ma Mara
               piangeva come fa il cielo in Agosto, gloriosamente,
               lacrime come stelle cadenti." Tu dici così, tu che sembrava non
               sapessi nemmeno parlare. Parli di vita. A me, proprio
               a me. Io so riconoscere l'inutilità, so leggere
               nel passato e vedere il bene che non c'é stato
               e il male che mi ha portato qui. Ma finalmente sono
               libera, da illusioni, speranze, sogni, paure, libera,
               capisci, completamente. E sono pronta ad andarmene.
               Non ho rimpianti, non mi lascio niente alle spalle,
               non ho niente davanti. Solo stanchezza che mi sfianca
               e sono stanca di sentirmi sfinita. Me la sono voluta,
               la mia vita, me la sono cercata, colpa mia. Devo
               pagare per la mia vita e non solo per
               quella."" Troppo facile. "" Non é vero. Non é facile, se lo
               fosse stato... E poi lo dici proprio tu? Ma ti sei
               guardato? Lo vedi in che stato sei? Non parlo della
               miseria, ma...Che vita fai? Perché vai avanti?
               Tu, tu chi sei? "" Non lo so. I miei ricordi sono confusi e
               terrori m'assalgono e cammino per le strade di giorno
               e di notte e non m'importa se ho da mangiare o da
               bere, non m'importa di me, a volte sento voci, quelle
               sono importanti e a volte mi sembra d'essere uno
               sconosciuto a me stesso, lo sono in
               realtà.Dev'esser accaduto qualcosa che mi ha fatto
               dimenticare... é come se fossi nato sulla
               strada, con questi stracci addosso e questa puzza e il
               terrore d'udire gli urli...Ma chi urla? Devo aver
               fatto qualcosa di terribile. Devo pagare."" Anch'io. "Ci guardammo, eravamo simili, le nostre ombre
               lo avevano capito subito.Mi alzai dalla poltroncina, mi avvicinai al
               tavolo, presi in mano la bottiglietta scura: aveva un
               piccolo tappo di sughero, avrebbe potuto sembrare solo
               un po'di profumo, tolsi il tappo e annusai. Ancora
               quell'odore, l'avevo già sentito, forte,
               penetrante, mortale. Scossi il capo e tenendo la fiala
               fra le dita dissi:" Non ne vale la pena."Sentii il suo grido mentre versavo il contenuto
               nel secchiaio. Feci scorrere l'acqua. Aveva le pupille dilatate dall'angoscia, le
               battevano i denti e un tremito la scuoteva come il
               vento fa con le canne in riva al fiume.Avrei voluto avvicinarmi a lei, ma non potevo,
               il passato me lo impediva, il contatto fisico mi dava
               la nausea, ogni corpo era un cadavere.E poiché avevo fatto quello che avevo
               voluto, farla vivere, mi venne da pensare che era
               davvero tempo d'andarmene e m'avviai alla porta. La
               guardai un'ultima volta e poi allungai la mano a far
               scattare il chiavistello." Non puoi lasciarmi sola. Adesso no.
               "Era vero. Ormai ne ero responsabile, per un
               po'almeno, per quella notte almeno.Fu così che posai il mio sacco a terra
               e, senza una parola mi accoccolai sul pavimento vicino
               alla stufa, nel tepore della stufa, mentre
               l'oscurità s'addensava nella stanza e lei se ne
               stava raggomitolata sul letto. E venne la notte ed io
               sentii crepitii e vidi lingue rosse danzare e la stufa
               divenne di ghiaccio e lei gemeva a tratti dal letto,
               nell'oscurità.In questo modo incominciò la mia vita
               con Mara.Vorrei che mai, mai fosse finita. Finisce tutto si sa, il bene e il male
               accumunati dalla sentenza definitiva che pone il
               sigillo alle azioni e ai pensieri, senza appello.
               Eppure il ricordo aggira la sentenza perchè il
               ricordo dura. Non ci piove. Il ricordo resiste, non
               è eterno, ma resiste. Si fa roccia nel correr
               dei secoli verso la loro disgregazione, si fa acciaio
               fuso nel palmo della mano, si fa monumento e insieme
               sacrario. Continuità. Fluire delle acque verso
               il mare. Voce incessante che narra storie di uomini,
               di tracce lasciate, di sospiri di cuori. Incessante.
               Perenne. Viva. CONTINUITA'.RITORNA ALL'INDICE
                 Capitolo
               3 (...) L'alba
               s'annunciò splendida, la mano del sole
               penetrò dalla finestrella e si posò sul
               capo di lei: dormiva finalmente, un sonno inquieto, ma
               profondo. La luce fu dolce con lei e gentilmente le
               accarezzò la gota e poi i capelli, passando
               leggera sulla palpebra chiusa senza evidenziarne il
               gonfiore, scese lenta lenta sulla mano piccola e ben
               fatta, esile, da bambina e girò brevemente per
               la stanza toccando una cosa qui, un'altra là.
               Non mi lasciai sfiorare, mi rintanai nell'angolo e mi
               persi a contemplare il pulviscolo brillante che il
               raggio del sole nascente portava nel grembo, polvere
               incantata, di quella che permette di volare se te la
               metti addosso, o di tutto sapere se ne inghiotti un
               pizzico, ne ero sicuro.Avrei potuto uscire in silenzio, carponi
               strisciare fino alla porta, aprirla e fuggire; non
               sapevo chi ero, non sapevo da dove venivo, sapevo che
               non potevo fermarmi, mi avrebbero preso, se mi fossi
               fermato.Invece rimasi e cercai di non pensare, tirai un
               chiavistello e feci vuoto nella mente. Sentivo battere
               forte il cuore, per ansia o paura.Aspettavo che si destasse. Io non ero il
               principe biondo sul gran destriero bianco che poteva
               avvicinarsi a lei e svegliarla con un bacio. Potevo
               solo aspettare. Ecco quella era una delle stranezze
               che mi capitavano: da dove era spuntata l'idea-rcordo
               di quel principe, di quel bacio? Non volevo rovistare
               e cercare, mi doleva il capo, eppure una voce parlava
               di cavalieri e re e regine e di quel maledetto cavallo
               bianco, una voce gentile, avvolgente, mi veniva da
               dare la testa al muro, ero terrorizzato dal pensiero
               che fosse la mia voce, quella che avevo avuto. Mara si
               mosse, si allungò stirandosi e aprì gli
               occhi. Si guardò intorno nel piccolo spazio
               della stanza sorvolando sugli oggetti e si posò
               su di me. Un attimo e ricordò. Il sonno
               fuggì via nell'alba e lei si sedette sulla
               branda, si passò la mano fra i capelli, sugli
               occhi d'oro e mi sorrise." Sei rimasto! " esclamò. Sentii che era
               felice di rivedermi ancora lì, con lei e nel
               mio cuore frullarono le ali di cento passeri in
               primavera." E'bello trovare qualcuno quando ti svegli,
               erano secoli che non mi...Sei stato tutta notte lì per terra?
               Certo che ci sei stato. E'da te. "Mi guardava, mentre parlava ed io ero
               consapevole dello spettacolo che offrivo; non mi era
               mai importato, faceva parte della mia pena, ma per
               lei, solo per lei, avrei voluto avere un aspetto
               diverso." Che cosa ti hanno fatto? " chiese
               piano.Non risposi. Non volevo.Si alzò, mi si avvicinò, si
               chinò verso di me, si mise in ginocchio accanto
               a me e allungò una mano, una mano sola a
               sfiorarmi gli occhi, la barba, i capelli. Senza
               ribrezzo, disgusto, pietà, e la sua mano era
               calda e morbida, sapeva di acqua e sapone, il suo
               tocco non mi fece fuggire. " Grazie " mormorò e mi depose un bacio
               breve fra le sopracciglia. Il sangue mi correva rapido per le vene, era
               come un torrente in piena che precipita a valle da un
               immenso ghiacciaio e travolge nell'impeto arbusti e
               sassi con limpide chiare acque avvolgenti a formar
               brevi vortici e cascatelle e rivoli. M'era dunque rimasto sangue nelle vene. Ma non
               alzai il viso. La maschera era sempre lì a
               coprire l'animo.Mara si alzò in piedi, andò al
               fornelletto, sospirò e preparò il
               caffé: di nuovo, come la sera prima. E come la
               sera prima lo bevemmo nei due bicchieri e intanto lei
               riaccendeva la stufa, buttandoci dentro un poco di
               carbone e dei fogli di carta. Ben presto lingue rosse
               si levarono dietro lo sportello nero lucido e la stufa
               riprese vita. " Perché l'hai fatto? " chiese " Ieri,
               dico, perché... Dimmi chi sei. Io non ti ho mai
               visto prima."Scossi la testa. Non potevo, non sapevo
               rispondere a quella domanda. E la temevo, proprio
               perché non avevo risposte da dare." Lascia che ti aiuti . " disseMi levai dal mio angolo e feci cenno di no. Non
               volevo che s'impelagasse con me. Ne aveva abbastanza
               del suo. " Vorrei aiutarti, non capisci, devo aiutarti.
               Non so se mi hai fatto un favore ieri. Non ci voglio
               pensare. So solo che adesso sono qui e tu sei qui e
               che qualcosa ci lega, non so, qualcosa, la mia vita
               che esiste ancora, forse, qualcosa di sottile, di
               forte insieme. So che te ne andrai, se ne vanno tutti e sei
               libero di farlo, ma mentre le altre volte ero contenta
               che se ne andassero, adesso vorrei che rimanessi, non
               per paura, non per solitudine o disperazione, anche se
               é vero che sola lo sono e disperata forse
               anche, ma per qualcosa di diverso, perché sei
               tu, e sei come il ritratto che porto dentro, sei me.
               Stupida sono, vero? E sentimentale. Chi
               l'avrebbe detto? Mai ci avrei creduto di poter
               diventar sentimentale. La vita fa certi scherzi, a
               volte..."Ero in piedi davanti a lei, stanco, frustrato,
               spaventato e la luce giocava a formare disegni d'ombre
               sul pavimento: accadde così che le nostre due
               ombre si confusero l'una nell'altra, la mia ombra
               strinse la sua forte contro il petto mentre un grido,
               se poi era un grido, mi usciva dalle labbre contratte
               premute sui suoi capelli. Durò un secolo, il lampo di un attimo
               che acceca nello sfolgorio della stella cadente. Ma
               era successo. E Mara sorrise. Sorrideva mentre si dava da fare intorno a me:
               mi scorciò i capelli e nel farlo la cicatrice
               rossastra sulla tempia si rivelò in tutta la
               sua bruttura, ma lei l'accarezzò e non chiese
               come me la fossi fatta. Mi tagliò la barbaccia e peli grigi
               caddero al suolo, ma non se ne curò, voleva
               vedere il mio viso, disse, poi rovistò sotto il
               letto, ne trasse una valigia di cartone spesso ,
               l'aprì e mi mostrò degli indumenti .
               " Erano di uno, ..uno di quelli che se ne sono
               andati." Me li porse. Io andai al secchiaio e mi lavai come potei,
               meglio che potei e lei mi asciugò le spalle e
               le braccia e mi aiutò a indossare gli abiti di
               quell'uno. " Stai bene. Proprio bene. " disse, lisciando
               con la mano una piega nella camicia. Io sentivo che ero cambiato, un pendolo batteva
               dentro di me, ritmicamente segnava il tempo: e oggi
               non era più ieri.Mi lasciavo toccare da lei, lasciavo che mi si
               muovesse intorno godendo di ogni suo gesto. La sua
               presenza aveva chiuso la porta alle voci.Fu così che la presi fra le braccia e la
               tenni un poco discosta da me, giusto per poterla veder
               meglio, poi me la tirai vicino, stretta sul petto, di
               modo che, mentre la baciavo, potei sentire il suo ed
               il mio cuore battere insieme.Ci baciammo con delicatezza e ci accarezzammo
               con dolcezza: l'impeto della passione ci
               spaventava.Ci amammo con tenerezza, com'era giusto per due
               come noi, ombre nella luce strette in un abbraccio
               lunghissimo. Ci innamorammo l'uno dell'altra, com'era
               giusto.Unimmo i nostri corpi, e le nostre menti si
               spalancarono, si cercarono si fusero, anima e corpo
               insieme sospesi fra mura sbilenche ed identità
               sconosciute.  Ecco l'amore è un'altra storia. Proprio
               così. Se poi t'arriva fra capo e collo tutto
               d'un colpo, ci si può anche restar schiantati.
               Da crederci, altro se c'è da crederci.
               Perchè l'amore è una forza che unisce e
               stordisce è un fulmine e un tuono che sbianca
               il cielo e lo ferisce, rintrona la mente e sospende il
               cuore appeso a un filo lucente come una falce di luna
               nel mare delle stelle. L'amore. Gran cosa. In verità gran cosa.
               Sentimento e follia, un tutto che prende vita e
               si mette in moto dove va non sa, si nutre d'amore e si
               espande in soffi nuvolosi . Si soffre d'amore e si muore d'amore. Ci si fa
               piccoli per amore e si diviene bestie per amore.
               Suonava una campana lontano mentre l'amavo e
               lei mi era sotto calda e luminosa. Rintocchi nelle
               orecchie, scintille nell'occhio chiuso, il tempo, il
               tempo intreccia i secondi ai minuti alle ore, giorni
               ed anni. I rintocchi scandiscono il tempo nell'amore che
               dorme. Per tutti. Nel rintocco della campana lontana
               ci si può smarrire tutta la vita, annegare il
               passato, vedere il presente, perdere se stessi,
               sospesi fra ieri e oggi a guardare incerti un domani
               che forse verrà al seguito di altri rintocchi,
               cristalli fragili che suonano allo strisciar del dito.
               Amore come cristallo. Proprio così. PARTE II RITORNA ALL'INDICE  
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